La memoria e le interpretazioni del Risorgimento
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Se l'avvio di una vera storiografia sul processo di formazione dello Stato italiano aveva richiesto che si allentassero i legami tra attualità politica e Risorgimento, con il primo conflitto mondiale (e poi con il fascismo) questa tendenza si invertì. A partire dal 1915 la guerra venne salutata (e in larga misura giustificata) come compimento del Risorgimento, come quarta guerra d'indipendenza appunto, volta a conquistare territori italiani ancora soggetti all'Austria-Ungheria. Per di più, nella sua ultima fase il conflitto assunse almeno ufficialmente il carattere, da parte dell'Intesa, di una guerra che puntava all'indipendenza delle nazionalità oppresse dall'Impero asburgico (ma anche da quello zarista): da ciò, in Italia, i richiami continui al pensiero di Giuseppe Mazzini, che nel secolo precedente era stato forse il massimo profeta di un'Europa composta di liberi Stati nazionali. Intervenendo in Senato il 20 novembre 1918, dunque quando il conflitto era da poco terminato, il presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, affermò: «Trionfa, dovunque, il principio di nazionalità, che fu la più pura asserzione dello spirito democratico, e trovò un apostolo in una gloria democratica e italiana, Giuseppe Mazzini (Applausi)». Dopo la conquista del potere da parte di Mussolini l'uso politico del Risorgimento divenne particolarmente intenso sugli opposti fronti del fascismo e dell'antifascismo.
Il fascismo si presentò spesso come erede del Risorgimento, sia pure di un Risorgimento letto in chiave antiliberale: introducendo una raccolta di Scritti politici di Cavour, il filosofo Giovanni Gentile sostenne che la prassi del primo ministro era stata nettamente superiore alla sua teoria politica, incentrata su un individualismo liberale di matrice anglo-francese. Contemporaneamente, altri esponenti del regime attribuirono al fascismo il merito di aver portato le grandi masse nello Stato, e dunque d'essere per questo erede dei democratici che la soluzione monarchico-liberale del 1860 aveva visto sconfitti. Altri fascisti ancora ritenevano invece che la vittoria del loro movimento rappresentasse una netta cesura con l'Italia liberale e dunque anche con l'eredità del Risorgimento. Molteplici, e di segno diverso, furono anche i richiami al Risorgimento tra gli oppositori di Mussolini, soprattutto da parte di esponenti dell'antifascismo liberale e democratico. Se vi fu chi accusò il fascismo d'essere «antirisorgimento» avendo abbattuto il regime politico nato nel 1861, altri antifascisti – interrogandosi sui motivi della vittoria mussoliniana – giungevano invece alla conclusione che il fascismo rappresentasse la «rivelazione» (così l'anziano studioso e senatore Giustino Fortunato) di mali antichi della storia d'Italia, che dipendevano dal modo stesso in cui lo Stato nazionale si era costituito. Piero Gobetti e Carlo Rosselli furono tra i più noti critici in chiave antifascista della tradizione risorgimentale. L'uno e l'altro riproponevano l'idea – che era stata di Mazzini e poi di Oriani – del Risorgimento come rivoluzione fallita: secondo quel che Gobetti scriveva nel 1921, il Risorgimento non aveva saputo «costruire un'unità che fosse di popolo» e, di conseguenza, «la conquista dell'indipendenza non [era] stata sentita tanto da diventare vita intima della nazione stessa». Scriveva Rosselli quasi quindici anni dopo che il Risorgimento «ufficiale, scolastico, piemontese» andava di sicuro criticato, mentre andava riscoperto il Risorgimento «popolare» e «rivoluzionario» al quale l'antifascismo si doveva ricollegare idealmente. Una forte politicizzazione caratterizzò anche i lavori propriamente storici. Se Guido De Ruggiero – gentiliano di formazione, ma antifascista di idee politiche – nella sua celebre Storia del liberalismo europeo (1925) sottolineava i limiti della penetrazione delle idee liberali in Italia al tempo del Risorgimento, ciò avveniva anche perché si era trovato ad assistere al crollo dello Stato liberale nato nel 1861. E se Nello Rosselli scrisse una ottima biografia di Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano (1932), fu anche per il suo vivo interesse nei confronti del filone democratico e in senso lato socialista del Risorgimento, un interesse che era indubbiamente collegato al suo antifascismo. La maggioranza degli studi fu caratterizzata in quegli anni da un nazionalismo storiografico incentrato su un'interpretazione «italocentrica», che tendeva a retrodatare all'epoca del riformismo settecentesco le origini del Risorgimento così da ridurre o annullare l'influenza della Rivoluzione francese come fattore decisivo di impulso. Fu una tendenza che contagiò storici di sicuro valore, come ad esempio il giovane Carlo Morandi che, in un volume su Idee e formazioni politiche in Lombardia dal 1748 al 1814 (1927), spostava appunto il centro di gravità del Risorgimento nel XVIII secolo dal momento che «anticipava di molti decenni la spinta lombarda all'unificazione nazionale e forzava in senso autoctono la matrice dell'illuminismo», sottolineandone l'indipendenza rispetto alle correnti d'Oltralpe (S. Soldani). Su questa via, alcuni studiosi giudicarono negativamente l'influsso della Rivoluzione francese che avrebbe semplicemente interrotto un movimento nazionale italiano sorto autonomamente.
Altrettanto «italocentrica» era un'altra corrente storiografica che prosperò negli anni del fascismo, tesa ad enfatizzare anche qui le origini settecentesche del Risorgimento legandole soprattutto alla politica di casa Savoia, che per questa via diventava protagonista assoluta e quasi unica del processo di unificazione. A testimoniare come il panorama storiografico e culturale dell'Italia fascista non fosse comunque monolitico, sta il fatto che fu Gioacchino Volpe, storico di simpatie fasciste egli stesso, a polemizzare con questa interpretazione ribadendo che l'unità italiana era stata il frutto di un incontro tra la monarchia piemontese e gli orientamenti del popolo italiano, quali erano all'epoca rappresentati dalle sue élites sia liberali che democratiche. Una difesa del Risorgimento e della tradizione liberale che il fascismo aveva distrutto animò negli anni tra le due guerre sia la Storia d'Italia dal 1871 al 1915 (1928) sia la Storia d'Europa nel secolo decimonono (1932) di Benedetto Croce. Analoga la posizione di uno storico che fu all'epoca stretto collaboratore di Croce, Adolfo Omodeo, autore tra l'altro di un volume di sintesi su L'età del Risorgimento italiano (1931) e di un importante studio in due volumi dedicato a L'opera politica del conte di Cavour (1940), di cui comparve solo la prima parte a causa della morte dell'autore. Tra gli intellettuali che aderirono al regime mussoliniano, il filosofo Giovanni Gentile fu forse quello che più sostenne l'esistenza di un rapporto tra il fascismo e la tradizione del Risorgimento. Ma il Risorgimento da lui richiamato – come spiegava in un articolo del 1931 – aveva posto al centro non la libertà dell'individuo ma quella dello Stato. G. Gentile, Politica e cultura, II, a cura di H. A. Cavallera, Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 111-116.
In un articolo del 1921, ripubblicato in Risorgimento senza eroi (1926), il giovane intellettuale torinese Piero Gobetti sottolineava i limiti del Risorgimento, tra i quali la mancata costruzione di un'unità che fosse «unità di popolo» e un liberalismo che in Italia aveva fatto tutt'uno con l'indirizzo cattolico-moderato. L'inclinazione di Gobetti al paradosso ma anche la confusione che caratterizzava il suo liberalismo sono ben testimoniate dal giudizio secondo cui Marx e Mazzini sarebbero stati «i più grandi liberali del mondo moderno».
P. Gobetti, Risorgimento senza eroi e altri scritti storici, Torino, Einaudi, 1976, pp. 145-152.
Nella sua Italia in cammino (1927), Gioacchino Volpe – uno dei maggiori storici italiani del secolo scorso, che politicamente aveva aderito al fascismo – dedicava le pagine iniziali a un rapido affresco del processo che aveva portato all'unificazione italiana. Molto efficace, in particolare, la descrizione della composita minoranza che era stata protagonista del Risorgimento. G. Volpe, Italia in cammino, a cura di G. Belardelli, Roma-Bari, Laterza, 1991, pp. 28-32.
Nella sua celebre Storia d'Europa nel secolo decimonono (1932) il filosofo e storico Benedetto Croce sottolineava la forte differenza tra la formazione del Regno d'Italia e quella dello Stato tedesco nel 1870. Mentre il primo, grazie a Cavour, era nato sotto il segno della libertà, il secondo si era formato, grazie a Bismarck, seguendo il criterio autoritario della forza. B. Croce, Storia d'Europa nel secolo decimonono, Laterza, Bari, 1972, pp. 217-223.
In un volumetto dedicato a La leggenda di Carlo Alberto nella recente storiografia (1940) Omodeo si dedicò, con indubbia verve polemica, a smantellare un filone storiografico che in quegli anni andava rivalutando, con più o meno evidenti finalità apologetiche, l'opera di Carlo Alberto anteriormente al 1848. A. Omodeo, La leggenda di Carlo Alberto nella recente storiografia, Torino, Einaudi, 1940, pp. 9-17.
Pensiero e azione del Risorgimento di Salvatorelli usciva nel 1943, dunque dopo anni in cui aveva imperversato una storiografia che considerava il Piemonte come protagonista unico o quasi del Risorgimento. Nel libro, dunque, l'autore polemizzava contro il filone di studi che aveva dato spazio al «mito sabaudo». L. Salvatorelli, Pensiero e azione del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1998, pp. 37-40.
Si deve probabilmente al leader comunista Palmiro Togliatti una delle più accentuate utilizzazioni politiche del Risorgimento. Durante la seconda guerra mondiale e poi nei primi anni del dopoguerra Togliatti si richiamò più volte al Risorgimento in modo positivo, al fine di attribuire caratteri e radici nazionali a un partito come il suo, profondamente legato a Mosca. Ma qualche anno prima, nel quadro della polemica contro Giustizia e Libertà (il movimento antifascista fondato da Carlo Rosselli) aveva invece scritto parole di fuoco contro il Risorgimento e in particolare contro Mazzini, considerato (come si vede da un suo articolo, pubblicato nel 1931 su «Lo Stato operaio») alla stregua di un precursore del fascismo. Lo Stato operaio 1927-1939, antologia a cura di F. Ferri, Roma, Editori Riuniti, 1964, I, pp. 472-473. |