» 08|La questione romana e la presa di Roma  
 


 

 
Vignetta satirica sulla questione romana  - stampa - Museo Centrale del Risorgimento - Roma  

Con l’espressione “questione romana” si suole indicare il nesso che lega la fine del potere temporale dei papi agli indirizzi di politica ecclesiastica del nuovo Stato unitario.

In altri termini: il processo politico e diplomatico che portò nel 1870 all’ingresso delle truppe italiane a Roma, e al compimento dell’unificazione nazionale, deve essere collocato nel più ampio contesto dell’ambizione liberale a tracciare un nuovo confine tra politica e religione, tra cattolicesimo e libertà politica e civile; ambizione che si può riassumere nella formula enunciata da Cavour nel discorso alla Camera del 27 marzo 1861: «libera Chiesa in libero Stato».

Questa formula non era un’invenzione dello statista piemontese. Di separazione di Stato e Chiesa aveva scritto nel 1842 il pastore protestante liberale di Losanna Alexandre Vinet, capo di una chiesa dissidente del cantone di Vaud in Svizzera. Le sue posizioni avevano avuto un certo rilievo nel Regno di Sardegna durante il dibattito che accompagnò nel 1850 la promulgazione delle leggi Siccardi.

Va poi ricordato che nella sua dizione esatta, la formula era stata usata dal teorico del cattolicesimo liberale francese Charles de Montalembert, che tuttavia considerava Cavour un «gran colpevole» per averne strumentalizzato il significato traendone conclusioni che a suo avviso erano inaccettabili (L’Église libre dans l’État libre, 1863). Montalembert era infatti uno strenuo difensore del potere temporale del papa.

A questo si deve poi aggiungere un’altra circostanza. Molti liberali italiani erano anche coscienze profondamente religiose, che nutrivano una sincera speranza di riforma della Chiesa, come nel caso di Bettino Ricasoli.

In questi uomini agiva la convinzione che la fine del potere temporale avrebbe prodotto un profondo rinnovamento nella Chiesa e che lo Stato si sarebbe dovuto fare promotore di questa rifioritura spirituale restituendo ai cittadini la libertà religiosa e i diritti che gli erano stati conculcati dal dispotismo ecclesiastico, tra cui la libera elezione dei pastori.

Nutriti di suggestioni protestanti, questi liberali ritenevano che la riforma religiosa andasse in qualche modo imposta alla Chiesa. Era, come si vede, un’idea contraddittoria rispetto alle tesi della non intromissione dello Stato nelle faccende religiose.

Al di là dei debiti culturali del liberalismo italiano e delle sue contraddizioni, il punto che deve essere evidenziato è tuttavia un altro, il carattere affatto eccezionale della situazione italiana al momento dell’unificazione. Il problema ecclesiastico e religioso che stava di fronte al nuovo Stato unitario infatti non aveva pari nelle altre situazioni nazionali.

Nessuno Stato europeo aveva dovuto affrontare, nel processo della sua costruzione, una questione così imponente come la presenza nel proprio territorio di una città e di un’istituzione cariche di simbolismo universale quali erano Roma e la Chiesa cattolica.

 


 

  Stampa satirica allusiva all'intervento di Massimo d'Azeglio nella cosiddetta questione romana, con l'opuscolo "Questioni urgenti"

Per queste ragioni la soluzione prospettata dal Risorgimento rappresenta un acquisto in un certo senso valido per tutta la civiltà liberale del secolo XIX, e il dibattito che si svolse in Italia in quegli anni occupa un posto di rilievo nella storia della cultura europea.

In termini molto sintetici si può dire che il merito di Cavour e del liberalismo italiano tra il 1850 e il 1870 fu di aver individuato con precisione i due punti che avrebbero orientato per tutto il primo decennio post unitario e anche oltre l’indirizzo della politica ecclesiastica della nuova Italia: da un lato, l’impossibilità di rinunciare a Roma capitale con la conseguente, inevitabile, cessazione dello Stato pontificio e del potere temporale del papa; dall’altro, l’affermazione della libertà della Chiesa come aspetto della più generale libertà religiosa.

Il che voleva dire sia il rifiuto di attribuire alla Chiesa particolari privilegi, che il rifiuto della tentazione da parte dello Stato di farne una istituzione nazionale, soggetta all’autorità civile, rivendicando, ad esempio, il diritto del re a nominare i vescovi o imponendo loro il giuramento di fedeltà al sovrano.

Quale fu, dunque, la serie degli avvenimenti che condusse alla presa di Roma e alla soluzione della questione romana da parte dello Stato italiano?

Nel 1860 lo Stato pontificio era ormai ridotto al solo Lazio. Tra il settembre del 1860 e il marzo del 1861 Cavour cercò una conciliazione con il papa. Della trattativa era naturalmente informato Napoleone III. Truppe francesi presidiavano infatti Roma e l’imperatore si era proclamato garante dell’indipendenza e della sicurezza del papa. La trattativa però non andò in porto.


 

 
Pio IX  - fotografia - Museo Centrale del Risorgimento - Roma  

Al suo buon esito di certo non giovò la politica fortemente ostile alla Chiesa messa in atto in quei mesi dai commissari regi in Umbria e nelle Marche e dalla luogotenenza di Napoli.

Il 18 marzo 1861, nell’allocuzione concistoriale, Pio IX rievocò tutti i torti subiti dal Piemonte e dal liberalismo e di fatto pose fine ad ogni tentativo di intesa.

A giugno Cavour morì. Napoleone III riconobbe il nuovo Stato italiano ma rimandò il ritiro delle truppe francesi da Roma.

Nel 1862 Garibaldi tentò di marciare su Roma. Fu fermato in Calabria, ad Aspromonte, dalle truppe regolari dell’esercito italiano. Ci fu un conflitto a fuoco e Garibaldi stesso fu lievemente ferito. I soldati regolari che però erano accorsi, disertando, tra le fila dei volontari garibaldini vennero fucilati.

Per paura di nuovi colpi di mano della Sinistra garibaldina, i francesi ripresero allora le trattative con lo Stato italiano. La base furono i punti già a suo tempo individuati dal ministro francese Thouvenel d’accordo con Cavour: Napoleone III avrebbe ritirato le sue truppe da Roma in cambio dell’impegno italiano ad impedire qualsiasi attacco dal suo territorio contro quello che restava dello Stato pontificio. Su questa base si giunse alla «convenzione di settembre» del 1864.

La convenzione conteneva una clausola segreta: sarebbe diventata operativa solo dopo il trasferimento della capitale dello Stato italiano. Nel 1865 la capitale venne trasferita a Firenze.

Intanto le posizioni della Chiesa si erano fatte più rigide. Nel 1862, nell’allocuzione Maxima quidem laetitia, Pio IX ribadì che il papa non poteva essere libero senza il potere temporale. L’8 dicembre del 1864 fu la volta del cosiddetto Sillabo, in appendice all’enciclica di eguale tono Quanta cura.

Con essa la Chiesa condannava gli errori del liberalismo e rivendicava la potestà diretta e indiretta del papa. Nel 1869-1870 il Concilio Vaticano giunse infine alla proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia (quando il papa parla ex cathedra e si pronuncia in materia di fede e di morale).

Nel 1867 intanto c’era stato un nuovo tentativo garibaldino di aggredire lo Stato pontificio, in contemporanea con attentati rivoluzionari dei repubblicani romani che avrebbero dovuto determinare la sollevazione della popolazione. Non solo però non ci fu nessuna insurrezione, ma una divisione francese sbarcò a Civitavecchia e sconfisse Garibaldi a Monterotondo e Mentana. La convenzione di settembre non fu formalmente denunciata da nessuna delle due parti, ma le truppe di occupazione francese rimasero a Roma.

Fu la guerra franco-prussiana del 1870 che permise infine allo Stato italiano di risolvere il problema. Il 4 settembre di quell’anno cadde l’Impero francese e il Regno d’Italia si sentì sciolto dagli impegni con Napoleone III. Quintino Sella mediò tra la Destra, di cui era esponente, e la Sinistra per spingere il re ad approfittare della nuova situazione internazionale e occupare Roma.

Il 20 settembre il generale Raffaele Cadorna entrò a Roma. Il papa si considerò prigioniero e si rinchiuse nelle stanze dei palazzi apostolici. Il 2 ottobre si svolse in tutto il Lazio il plebiscito per l’annessione. La formula era la stessa di quella usata quattro anni prima in Veneto: «Vogliamo la nostra unione al Regno d’Italia sotto il governo costituzionale del Re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori».


Schede collegate: Cattolicesimo liberale; nuova religiosità cattolica; plebisciti; Firenze Capitale

Documenti
 

La trattativa di Cavour

Tra il settembre del 1860 e il marzo del 1861, Cavour elaborò una proposta di conciliazione che garantisse al papa l’indipendenza e alla Chiesa libertà di azione in Italia. A condurre la trattativa furono Diomede Pantaleoni e Carlo Passaglia. I passaggi e gli esiti di quella trattativa sono documentati nel carteggio cavouriano. Di notevole interesse il memorandum preparato dal Pantaleoni in cui si spiegava l’opportunità per la Chiesa di una conciliazione e si esponevano le linee essenziali dello schema di convenzione.

C. Cavour, Carteggi. La questione romana negli anni 1860-1861, a cura della Commissione reale editrice, Bologna, Zanichelli, 1929, I, pp. 121-131.

 

L’aspirazione alla riforma della Chiesa

In molti liberali era forte la convinzione che la libertà della Chiesa e la fine del potere temporale del papa avrebbe avuto come effetto un profondo rinnovamento spirituale della Chiesa stessa. Per alcuni, anzi, bisognava favorire la riforma restituendo al laicato il compito di amministrare i beni ecclesiastici e attribuendo alle comunità dei fedeli e al clero il diritto di eleggere i propri vescovi. Agiva al fondo di questa aspirazione, tipica del cattolicesimo liberale italiano durante il Risorgimento, un tipo di partecipazione alla vita religiosa che scambiava facilmente la Chiesa qual’era per la Chiesa quale avrebbe dovuto essere e che su questa ambiguità fondava il sentimento della propria adesione alla comunità dei fedeli. Un tipico rappresentante di questo orientamento delle classi dirigenti liberali, pur coscienze profondamente religiose, è Bettino Ricasoli, succeduto a Cavour dopo la sua morte, e di cui pubblichiamo alcune pagine.

B. Ricasoli, Lettere e documenti, VII, Dal 9 marzo 1862 al 13 giugno 1866, Firenze, Le Monnier, 1892, pp. 48-52, 142-148, 260-265, 286-289, 301-311.

 

Roma

La presa di Roma aprì un vasto dibattito ideologico nell’Italia post-unitaria e fece emergere molte posizioni antiromane tra i liberali. Una ricostruzione che è ormai un classico di questo decisivo capitolo della storia culturale dell’Italia contemporanea è quella fornita da Federico Chabod nelle sue Premesse alla storia della politica estera dell’Italia unita di cui qui pubblichiamo le pagine relative a L’idea di Roma.

F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1875 al 1896. Le premesse, Bari, Laterza, 1951, pp. 215-235.