La costruzione dello Stato e i nuovi indirizzi politici
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L'idea che l'Italia non si potesse governare da Torino era ampiamente diffusa negli ambienti liberali, soprattutto toscani e meridionali, dei primi anni Sessanta. Torino capitale, infatti, era la sanzione dell'egemonia del Piemonte sul nuovo Regno e rappresentava agli occhi di quei liberali un ostacolo insormontabile al decentramento e allo sviluppo dell'ordinamento statale sulla base di larghe autonomie locali. La scelta, tuttavia, di trasferire la capitale a Firenze nel 1865 maturò in un contesto diverso. La decisione fu presa nell'ambito delle trattative avviate da tempo dal governo italiano con Napoleone III circa una definizione accettabile per il nuovo Stato della condizione di Roma ancora sotto il governo del papa, il cui potere era però garantito solo dalla presenza delle truppe francesi nello Stato pontificio. Il contenuto dell'articolo segreto, il quinto, del trattato firmato con l'imperatore francese nella tarda estate del 1864 e che va sotto il nome di “convenzione di settembre” contemplava il trasferimento della capitale.
Le trattative con Napoleone III si trascinavano senza approdare a nulla dal 1861. Da parte sua, il governo italiano temeva che in questo stallo i democratici riprendessero l'attività cospirativa per la liberazione di Roma, autorizzando tutte le diffidenze del governo francese, anch'esso convinto che, finché la capitale fosse restata a Torino, la condizione di Roma sarebbe stata sottoposta ad una pericolosa instabilità. La situazione subì un'accelerazione all'inizio del 1864 quando Pio IX si ammalò gravemente e si pensò che presto la sede pontificia sarebbe rimasta vacante. In questo contesto sarebbe stato possibile un colpo di mano italiano. Nel tentativo di anticipare e neutralizzare l'iniziativa mazziniana e garibaldina, infatti, il governo di Torino pensò di poter organizzare un'insurrezione a Roma. Fu a questo punto che Napoleone III decise di muoversi. Nell'aprile del 1864, l'imperatore dei francesi si disse disponibile a riaprire la discussione con il governo sabaudo. A condurre le trattative da parte italiana fu Gioacchino Pepoli, nipote per parte di madre di Gioacchino Murat e di Carolina Bonaparte, parente dunque di Napoleone III. Le discussioni culminarono nel colloquio di Fontainebleau del 21 giugno 1864. Fu Pepoli che avanzò la proposta del trasferimento della capitale. Finché la sede del governo sarà a Torino, scrisse nel rapporto del colloquio stilato per il presidente del Consiglio Marco Minghetti, l'Unità d'Italia sarà messa continuamente in dubbio dai suoi nemici, che consideravano appunto Torino una capitale provvisoria e come tale fonte di instabilità.
L'allusione di Pepoli determinò la svolta nei colloqui. Italiani e francesi ripresero a trattare sulle basi fissate nel 1861 e al principio di agosto l'accordo fu concluso. L'Italia si impegnava, tra l'altro, a non attaccare il territorio pontificio. Napoleone III, da parte sua, avrebbe ritirato le truppe francesi da Roma nel giro di due anni, non senza aver contribuito all'organizzazione di un esercito papale. L'articolo quinto, come si è detto, conteneva la clausola segreta della capitale. Il re d'Italia doveva decretarne il trasporto entro sei mesi dalla firma della convenzione di settembre. A Torino, le notizie della trattativa destarono una fortissima avversione negli ambienti di corte e approfondirono il solco politico che in seno alla Destra divideva i piemontesi dalle altre correnti liberali. Soprattutto, la diffusione della voce di un imminente trasferimento della capitale provocò forti reazioni di piazza. La convenzione fu firmata a Parigi il 15 settembre; il 18, a Torino, si riunì la commissione di guerra che decise per Firenze, la città più adatta a divenire la capitale d'Italia nel contesto strategico del momento. Il giorno stesso si diffusero le prime notizie e fin da subito ci furono manifestazioni antigovernative che si fecero più intense nei giorni successivi e culminarono negli scontri sanguinosi del 21 e 22 settembre. Ci furono morti, una trentina, e centinaia di feriti. Per Napoleone III la capitale a Firenze significava la rinuncia da parte della monarchia sabauda a Roma. Da parte italiana si mise l'accento sul ritiro delle truppe francesi dai territori pontifici e dunque sul perseguimento del voto pronunciato al momento della proclamazione del Regno che impegnava senz'altro la classe dirigente liberale a fare di Roma la capitale del nuovo Stato. La Marmora, succeduto a Minghetti, respinse le accuse di tradimento che a questo riguardo venivano da Sinistra; la Destra piemontese seguì disciplinatamente il suo presidente del Consiglio e la stessa Sinistra si divise, approvando il trasferimento. Giuseppe Ferrari lo considerò un passo verso la “spiemontesizzazione” dell'Italia. La vicenda delle capitali, Torino, Firenze e poi Roma (1871), permette di entrare direttamente nel laboratorio dell'identità nazionale negli anni del Risorgimento. Si è già fatto cenno al rapporto tra centralismo (piemontese) e autonomia (Toscana, Emilia, i filoni autonomistici della cultura meridionale). La questione della capitale si connetteva dunque in maniera diretta al problema della forma dello Stato. Ma ci sono aspetti più ampi in gioco, che riguardano le rappresentazioni culturali e l'idea stessa d'Italia. Firenze significava il Rinascimento e il ruolo che il Rinascimento toscano, attraverso anche i papi fiorentini del Cinquecento (oltre a Michelangelo e Raffaello) avevano avuto nella formazione dell'arte e della cultura italiana. Questo primato poneva un problema di ampia portata che si può sintetizzare così: Roma era una città di rovine; Firenze aveva reinventato l'antico. Roma, la città reale beninteso non il suo mito, con il suo disfacimento archeologico poteva essere considerata, dunque, meno rilevante rispetto a Firenze, sede di una rinascita dell'antico di importanza fondamentale per l'elaborazione della coscienza moderna italiana e europea e carica di implicazioni politiche. In questa prospettiva, infatti, all'origine del moderno c'era Firenze, come modello di città-Stato autonoma e indipendente, che aveva riattualizzato, eguagliandola e superandola, la memoria dell'antico, tanto sul piano della perfezione artistica che su quello delle forme politiche e civili (la polis e la forma repubblicana). La storia di Firenze era la storia delle autonomie italiane e dello spirito d'intrapresa dei ceti borghesi e mercantili della penisola, che nei mercanti fiorentini del XV secolo avevano i loro diretti antenati. Una storia che era culminata con la cacciata della famiglia dei Medici, con l'instaurazione della Repubblica alla fine del Quattrocento e con l'assunzione di Nicolò Machiavelli a segretario della seconda cancelleria (una sorta di ministro dell'interno e della guerra). Per questa via la città poteva assumere i tratti di un vero e proprio paradigma etico-politico come accadde nella storiografia di ispirazione liberale. Rappresentava una storia d'Italia policentrica, di matrice repubblicana, e fortemente sospettosa nei confronti dei contenuti ideologici autoritari espressi da Roma, che con i suoi tratti imperiali era l'emblema stesso di un dominio centralistico che si espandeva a spese della libertà della periferia. Firenze, insomma, costituiva il Rinascimento come matrice privilegiata dell'identità italiana contemporanea e al tempo stesso faceva della libertà comunale un tema carico di implicazioni attuali. La libertà fiorentina non era solo politica. Un elemento costitutivo della presenza culturale di Firenze nella definizione dell'identità dell'Italia post unitaria è legato anche alla sensibilità religiosa. Accanto a Machiavelli, infatti, l'altro campione della libertà fiorentina è Girolamo Savonarola, il frate domenicano che dal convento di San Marco aveva predicato contro la corruzione della Chiesa e per un nuovo regime politico a Firenze. Guardato più da vicino, allora, il ruolo di Firenze come modello della storia d'Italia non poteva apparire privo di ambiguità e di conflitti: Machiavelli e Savonarola, da un lato; i Medici e i papi fiorentini, dall'altro. Firenze divenne capitale del Regno nel 1865 fino al 1870. Pochi anni dopo la breccia di porta Pia, il vecchio liberale toscano ed erede di Cavour nella direzione politica della Destra, Bettino Ricasoli, scriveva al direttore del quotidiano fiorentino «La Nazione»: «Si è voluta Roma perché ci apparteneva; perché il non averla ci era nocivo più che averla, e se si è fatta Capitale egli è perché era indicato dalle nostre convenienze politiche interne, e non già perché Roma rappresenti alcuna cosa più che il centro del Governo di una Nazione che ripugna tutta concorde all'accentramento e dal farsi assorbire dalla sua Capitale». Firenze fu una capitale di ripiego nell'attesa che l'Italia giungesse a Roma. Da questa posizione provvisoria, tuttavia, la Destra avviò la parte più importante del suo sforzo unitario tanto sul piano della legislazione, che su quello dell'amministrazione. Nelle pagine che seguono, il grande storico fiorentino Giovanni Spadolini racconta le scelte politiche, le resistenze, l'entusiasmo che accompagnarono la notizia della Convenzione di settembre e spiega il ruolo giocato nella costruzione dello Stato unitario della "Firenzina", la città bonaria e provinciale dalla quale la classe dirigente unitaria governò il nuovo Stato negli anni della sua drammatica e complessa edificazione. G. Spadolini, Firenze capitale. Gli anni di Ricasoli, Firenze, Le Monnier, 1979, pp. 283-292.
All'inizio degli anni Sessanta, la necessità di trasferire la capitale del Regno d'Italia è avvertita da più parti. Non solo i moderati toscani, ma anche i meridionali segnalano la necessità di un nuovo centro politico dell'Italia unita. È interessante notare come da subito il problema della capitale incroci la questione di Roma e riveli l'esistenza di forti correnti antiromane che attraversano l'élite risorgimentale. M. d'Azeglio, Questioni urgenti, Firenze, Barbèra, 1861, pp. 40-42.
Firenze e la libertà dei moderni Il trasferimento della capitale a Firenze nel 1865 apre una discussione più ampia sul policentrismo italiano. Firenze sta di fronte alla futura e definitiva capitale dell'Italia unita come il modello di una storia nazionale alternativa, gravitante intorno al nucleo dell'esperienza comunale e signorile del Centro-Nord. In questa vera e propria costruzione culturale dello spazio italiano e dei suoi poli di attrazione molto contarono gli autori stranieri, che all'Italia e alla sua storia affidarono una più vasta funzione nel ripensare le basi della civiltà occidentale nel corso del secolo diciannovesimo. Due erano i modelli storici che si contendevano l'interpretazione di Firenze. Da un lato, quello di Sismondi e della celebrazione delle repubbliche italiane del Medioevo; dall'altro, William Roscoe con la sua biografia di Lorenzo de' Medici, in cui libertà politica e sviluppo artistico stavano ancora insieme seppure in un rapporto di forte tensione. Alla fine di questo percorso intellettuale c'è La civiltà del Rinascimento di Jacob Burckhardt, per il quale la libertà e la lotta politica, la vivace vita mercantile sono al servizio della prepotente affermazione dell'individuo moderno, sciolto dai vincoli della religione e delle comuni misure etiche. J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1961, pp. 61-71, 133-140.
All'universalismo cattolico di Roma, Firenze oppone il percorso di una ricerca religiosa più severa, austera e intimamente sofferta, di cui la figura di Savonarola e la sua fortuna ottocentesca rappresentano un segno eloquente. Di questa fortuna è un testimone e un interprete Pasquale Villari, che al frate domenicano dedicò una biografia a cavallo dell'Unità d'Italia (1859-1861) e nella seconda metà dell'Ottocento ritornò più volte sulla sua figura e sulla sua vicenda politico-religiosa. In particolare, nel 1897 Villari tenne nel capoluogo toscano una conferenza dal titolo eloquente, Girolamo Savonarola e l'ora presente di cui pubblichiamo alcune pagine. P. Villari, Girolamo Savonarola e l'ora presente, in Id., Storia di Girolamo Savonarola e de'suoi tempi (1859-1861), Firenze, Felice Le Monnier, 1930, I, pp. LII-LXV. |