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  S. Fergola - Inaugurazione della prima ferrovia italiana Napoli-Portici - dipinto - Museo Nazionale di San Martino - Napoli

Durante il Risorgimento il viaggio era un’esperienza riservata a pochi: a viaggiare erano soprattutto i diplomatici, gli esploratori, gli scrittori, gli artisti e, più in generale, coloro che disponevano di molto denaro e tempo libero.

Normalmente i nobili erano soliti trascorrere i mesi autunnali e invernali nelle residenze urbane, per poi trasferirsi in primavera-estate, con tutta la famiglia, nelle ville di campagna.

Se la campagna, o la collina, rimasero a lungo il luogo privilegiato per l’otium dei nobili, la villeggiatura poté avere come méta anche il mare.

Per le classi sociali più agiate i soggiorni in stazioni climatiche come Sanremo, Venezia o Sorrento ebbero inizialmente uno scopo terapeutico: già all’inizio dell’Ottocento i medici ritenevano che il sole, l’aria e la sabbia avessero capacità risanatrici, e prescrivevano perciò l’immersione nell’acqua di mare. La pratica della balneoterapia conobbe un incremento a fine Ottocento, quando la costruzione delle ferrovie lungo le coste rese più accessibili le spiagge su cui sorsero nuove stazioni balneari.

Si viaggiava inoltre per svago, per divertimento, per curiosità intellettuale, per gusto d’avventura. Soprattutto, il viaggio era considerato una tappa dell’educazione che si voleva cosmopolita: il Grand Tour, diffusosi tra il Seicento e l’Ottocento, era il viaggio di formazione di giovani aristocratici e facoltosi gentiluomini europei. Della durata di tre anni, prevedeva tappe obbligate in Olanda, Germania, Francia, Svizzera e Italia. Fu grazie al Grand Tour che molti noti scrittori (da Johann Wolfgang Goethe a Charles Dickens) giunsero a visitare l’Italia, lasciando talvolta splendidi resoconti delle sue bellezze paesaggistiche e artistiche.

Come nota lo studioso Cesare De Seta, fu anche grazie alla letteratura di viaggio straniera che l’Italia prese inizialmente coscienza di sé, costruendo la sua immagine «nello specchio del Gran Tour».

Il viaggio nelle principali città della Penisola rappresentò un momento importante per i giovani italiani di buona famiglia: considerato parte integrante della loro formazione culturale, il viaggio serviva ad allacciare o a rinsaldare legami di tipo culturale-affettivo, specie attraverso la frequentazione dei salotti di conversazione presenti nelle varie città.

L’Italia del viaggio era però, per così dire, un’Italia a metà: ben difficilmente, infatti, il viaggio aveva per destinazione i territori e le città a sud di Roma. Di norma viaggiatori e uomini politici non si spingevano oltre la città dei papi o, al massimo, Napoli. Basti pensare che persino Cavour (che pure era stato in molti paesi europei) non si era mai spinto oltre Firenze, mentre Massimo d’Azeglio fu tra i pochissimi a visitare il Sud prima dell’Unità, giungendo nel 1844 a Palermo.


 

 
Portalettere in periodo rinascimentale  - 1862 ca. - acquerello - Museo storico PT - Roma  

Un’altra eccezione è rappresentata dal viaggio del giovane lombardo Giovanni Visconti Venosta: nel 1853, insieme al fratello Emilio (entrambi erano poco più che ventenni), compì un lungo viaggio attraverso l’Italia meridionale, spingendosi fino in Sicilia. Per i due fratelli, animati da un forte sentimento patriottico, quel viaggio poté assumere anche il significato di «scoperta» di un’Italia ancora da farsi, come testimoniano le memorie di viaggio.

Sono soprattutto i resoconti, i diari e le lettere dei viaggiatori a descriverci le condizioni in cui si viaggiava nella prima metà dell’Ottocento. Si trattava di condizioni per nulla agevoli e, talvolta, decisamente pericolose: strade polverose e insicure, fondi stradali dissestati che provocavano continui sobbalzi nelle carrozze, locande sudice e inospitali.

I viaggiatori stranieri erano soliti lamentare, inoltre, un diffuso malcostume e infiniti tentativi di raggiro ai loro danni: secondo una nota guida di viaggio tedesca, lo straniero era considerato «naturale e legittima preda» da parte di facchini, camerieri e vetturini.

Per non parlare della serie di formalità (permessi, autorizzazioni, visti consolari, pagamento di pedaggi) cui ogni viaggio era soggetto, anche in conseguenza dei tanti Stati in cui era divisa la penisola. Inoltre i viaggiatori, appena messo piede in un paese nuovo, erano normalmente sottoposti a controlli e interrogatori da parte di gendarmi e poliziotti. Nei borghi e nelle campagne, la visita di un forestiero era un avvenimento che destava sempre molta curiosità se non sospetto.

Vari e diversi erano i mezzi di trasporto: chi non disponeva di carrozze proprie, poteva noleggiarle o servirsi delle vetture postali per il trasporto della corrispondenza, sulle quali era possibile viaggiare, previa prenotazione. Le stazioni di posta erano attrezzate per il cambio dei cavalli e per il ristoro dei viaggiatori e, a seconda della difficoltà del percorso, erano situate ad una distanza variabile tra gli 8 e i 15 chilometri l’una dall’altra.

Inoltre lungo le strade percorse dal servizio postale, chiamate perciò «postali», si potevano trovare locande, alberghi e osterie. La posta funzionava anche come unità di misura per il calcolo delle distanze: la distanza tra Firenze e Bologna, per esempio, risultava di ventitré poste, e un vetturino impiegava cinque giorni per percorrerla.

I viaggiatori si potevano spostare anche a bordo di diligenze: gestite da imprese private che le avevano in concessione dallo Stato, collegavano le principali città e si servivano anch’esse delle stazioni di posta per il cambio dei cavalli. Ma diffuso era soprattutto il trasporto via mare, nonché quello su laghi, fiumi e canali navigabili (nel 1819 il primo battello a vapore solcò le acque del Po).

Dalla Toscana allo Stato pontificio, ad esempio, si andava generalmente via mare, con imbarco a Livorno per Civitavecchia (la traversata durava sedici ore), mentre a Napoli un servizio di battelli a vapore collegava le principali località del Regno: da Napoli a Palermo, il viaggio via mare durava non meno di diciotto ore. In genere in un viaggio importante si sperimentavano diversi mezzi di trasporto, e in mancanza di strade si potevano percorrere ampi tratti a cavallo o a dorso di mulo.

Come ricorda Stefano Maggi in un suo libro sullo sviluppo delle ferrovie in Italia, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento la ferrovia mutò radicalmente la mobilità, inaugurando nei decenni seguenti nuove forme di turismo. Anche nel resto d’Europa l’arrivo del treno introdusse nel viaggio novità di rilievo: la tradizione plurisecolare del Grand Tour si esaurì nel tempo; nobili, ambasciatori e famiglie reali presero a viaggiare sui treni continentali di lusso che iniziarono a collegare i vari paesi europei (l’Orient Express, con itinerario Parigi-Costantinopoli, via Strasburgo-Monaco-Vienna-Budapest, fu inaugurato nel 1883).

Nell’Italia preunitaria l’arrivo del treno fu accolto fra timori, avversioni e speranze: specie nelle campagne, si guardava al treno come a qualcosa di spaventoso per la sua velocità e potenza, mentre la gran parte dei liberali, a cominciare da Cavour (un cui famoso scritto era dedicato proprio alle ferrovie), vi ripose le speranze di un progresso civile ed economico. A inaugurare la prima linea ferroviaria fu, nel 1839, il Regno delle Due Sicilie, con un primo tronco di collegamento tra Napoli e Portici (e in seguito tra Napoli e Caserta, per l’esigenza di collegare le due regge), ma nei due decenni successivi altre ferrovie non vennero costruite.

All’incirca nello stesso periodo, invece, il Granducato di Toscana, il Regno Lombardo-Veneto e infine il Regno di Sardegna avviarono la loro politica ferroviaria, mentre completamente privo di strade ferrate rimase inizialmente lo Stato pontificio, per la forte avversione di Gregorio XVI. Durante il pontificato di Pio IX, tuttavia, il treno comparve anche nello Stato della Chiesa, collegando nel 1856 Roma a Frascati. Grande importanza per i collegamenti portuali rivestì inoltre il tronco ferroviario tra Roma e Civitavecchia, inaugurato nell’aprile 1859.

 

 
Il primo battello a vapore d'Italia, Ferdinando I di Napoli - dipinto - Museo Nazionale di San Martino - Napoli  

Gli Stati preunitari avevano condotto una politica ferroviaria molto diversificata, e nel 1860 il quadro si presentava ampiamente inadeguato per il nuovo Stato, che risultava molto scollegato al suo interno.

Fu allora che la classe dirigente vide sempre più nella ferrovia lo strumento per rendere effettiva l’unificazione del Paese: solo nel decennio 1861-1870 furono realizzati circa 4.000 chilometri di strade ferrate. Fra le linee principali, assunsero grande importanza quelle lungo la costa: l’Adriatica da Ancona a Brindisi-Lecce, e la Tirrenica per il tratto toscano e laziale.

Sul piano della socialità, il treno divenne un luogo importante di comunicazione sociale e introdusse nuove mode e nuovi costumi: la maggiore comodità nel viaggiare fece nascere l’abitudine della lettura in treno, mentre anche l’abbigliamento si adeguò al nuovo mezzo: per le donne, ad esempio, erano consigliati abiti comodi dalle fogge semplici, «di tinte scure capaci di tenere lo sporco».

A fine Ottocento il viaggio aveva assunto caratteri nuovi, cessando almeno in parte di essere quell’esperienza enormemente esclusiva che era stata nei secoli precedenti. Un’iniziale affermazione del turismo organizzato si sarebbe registrata solo nei primi decenni del Novecento, per poi giungere a compimento negli anni del boom economico con la villeggiature di massa nelle località balneari.

Documenti
 

Viaggio nell’Italia preunitaria

Il brano che segue rappresenta un documento prezioso per comprendere come i giovani aristocratici viaggiavano nell’Italia preunitaria. Tratto dai Ricordi di gioventù di Giovanni Visconti Venosta, pubblicati per la prima volta nel 1904, è il resoconto del viaggio che il giovane liberale lombardo compì con suo fratello Emilio, nel 1853, nell’Italia meridionale, spingendosi fino in Sicilia.

G. Visconti Venosta, Ricordi di gioventù. Cose vedute o sapute 1847-1860, a cura di Ennio Di Nolfo, Milano, Rizzoli, 1959, pp. 186-200.

 

Massimo d’Azeglio fra Roma, Napoli e Sorrento

Utili a comprendere le condizioni di viaggio e di alloggio nell’Italia preunitaria sono anche I miei ricordi di Massimo d’Azeglio. Ne riproduciamo alcune pagine in cui d’Azeglio racconta i suoi spostamenti nel corso del 1926, fra la campagna romana e il Golfo di Napoli, dove si era recato sperando di trarre beneficio dall’«aria di Napoli» per la sua salute cagionevole.

M. d’Azeglio, I miei ricordi, a cura di Alberto M. Ghisalberti, Torino, Einaudi, 1971, pp. 329-338.