» 03|La legislazione antiecclesiastica  
 

 

 
Fratelli D'Alessandri - Pio IX a Villa Pia - maggio 1862 - fotografia - Collezione Bruno Caruso - Anzio  

Con la legge 7 luglio 1866 il nuovo Stato italiano prendeva misure radicali nei confronti degli enti religiosi cattolici presenti nel Regno e del loro patrimonio. La legge in questione disponeva infatti la soppressione di ordini, corporazioni e congregazioni religiose «i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico».

Negando loro la personalità giuridica si negava anche la possibilità che gli enti soppressi fossero proprietari di terre, conventi, monasteri. I loro beni venivano assegnati al demanio dello Stato, il quale riconosceva a sua volta una rendita del 5% (eguale alla rendita dei beni incamerati) a favore del Fondo per il culto. Era questo Fondo che, secondo la legge, avrebbe dovuto provvedere alla pensione dei membri degli ordini soppressi.

La nuova legge aveva un precedente nella legge piemontese del 1855 sulla soppressione degli ordini religiosi, rispetto alla quale presentava però un’importante differenza. Mentre la legge del 1855 conservava la personalità giuridica agli ordini religiosi dediti «alla predicazione, all’educazione e all’assistenza degli infermi», la nuova colpiva tutti gli istituti religiosi senza distinzione.

L’ambiguità contenuta nel riferimento a istituti di «carattere ecclesiastico» e in cui si conduceva «vita comune» permise la sopravvivenza dei conservatori (istituti di istruzione femminile) e di altre istituzioni affini.

L’articolo 6 concedeva alle religiose (e non più, come era nella legge del 1855, anche ai religiosi) di continuare «a vivere nella casa od in una parte della medesima che verrà loro assegnata dal governo», fino a che non fossero ridotte al numero di sei; in questo caso avrebbero potuto «venire concentrate in altra casa».

Nell’imminenza della guerra contro l’Austria, il legislatore aveva momentaneamente tralasciato di occuparsi di altri enti religiosi, la cui soppressione venne disposta – con analoghe modalità – l’anno seguente.

La legge 15 agosto 1867 sopprimeva 25.000 enti ecclesiastici che non avevano cura d’anime. In forza delle norme contenute nelle due leggi citate i fabbricati di proprietà degli enti soppressi passavano a comuni e province per essere adibiti ad uso pubblico (scuole, asili, ospedali, caserme ecc.): a fine Ottocento risulterà che nove edifici pubblici su dieci erano costituiti da beni acquisiti grazie alle leggi del 1866-67.

Lo Stato incamerava anche libri, manoscritti, opere d’arte degli enti soppressi, destinandoli a biblioteche e musei pubblici.

Le leggi di cui si sta parlando aggravarono naturalmente i rapporti già tesissimi tra il nuovo Stato e la Chiesa, che vi lesse l’intento di favorire una scristianizzazione della società italiana.

Effettivamente, per la maggioranza della classe dirigente la soppressione degli enti ecclesiastici e l’incameramento dei loro beni rappresentavano anche uno strumento per colpire alla radice il potere e l’influenza della Chiesa, considerata come nemica per antonomasia della civiltà moderna e del progresso (solo pochi anni prima, nel 1864, era stato emanato il Sillabo).

Più che puntare a una indipendenza reciproca tra Stato e Chiesa, le leggi del 1866-67 rivelavano un carattere eminentemente «giurisdizionalistico»: lo Stato, secondo tale orientamento, era il vero proprietario anche dei beni della Chiesa, che poteva perciò incamerare, tanto più che, agli occhi della classe dirigente liberale dell’epoca, gli ordini religiosi contemplativi, cioè non soggetti a cura d’anime, apparivano socialmente inutili.

Per qualche esponente liberale la liquidazione dell’asse ecclesiastico avrebbe dovuto determinare una redistribuzione delle ricchezze all’interno della Chiesa e favorire così una sua riforma interna: in questa prospettiva ci si illudeva fosse possibile – come ha scritto Arturo Carlo Jemolo – «creare Consigli parrocchiali e diocesani, eletti dai fedeli, per affidare loro l’amministrazione dei beni» ecclesiastici.

Le motivazioni riconducibili al desiderio di influire sull’assetto della Chiesa e sulla sua presenza nella società italiana furono solo alcune delle ragioni che portarono alle leggi eversive dell’asse ecclesiastico. Non meno importanti furono i motivi d’ordine finanziario: attraverso la vendita del patrimonio degli enti religiosi si puntava a ridurre il disavanzo del bilancio statale, che si era notevolmente aggravato con la guerra del 1866.

 


 

  Solenne benedizione di papa Pio IX al popolo napoletano il 16 settembre 1849 - dipinto - Museo Nazionale di San Martino - Napoli

Inoltre, si sperava che la vendita di una così grande massa di terreni fin lì sottratta al mercato favorisse una trasformazione economico-sociale delle campagne, in particolare alimentando la formazione di una piccola proprietà contadina. Ma questo obiettivo, per le modalità con cui avvenne la messa all’asta delle terre incamerate dal demanio, non fu raggiunto e l’alienazione di centinaia di migliaia di ettari si risolse in un rafforzamento della grande proprietà.

Un risultato duraturo delle leggi di soppressione degli enti ecclesiastici e di alienazione del loro patrimonio fu quello di modificare radicalmente il tessuto religioso del paese: come ha scritto lo storico Roberto Pertici, quelle leggi «dispersero la maggior parte delle comunità maschili (soprattutto quelle degli ordini mendicanti e monastici) e cercarono di impedire il reclutamento degli istituti femminili, lasciando in gravi ristrettezze i superstiti».

Una conseguenza indiretta della liquidazione dell’asse ecclesiastico fu che essa rese difficile a molti cattolici ricoprire un ufficio pubblico; questo a causa delle censure comminate dalla Chiesa a chi detenesse beni che le erano stati sottratti sulla base delle leggi del 1866-1867.

Documenti
 

La giustificazione delle leggi antiecclesiastiche fatta dal deputato Crispi

In un discorso alla Camera del 12 luglio 1867, del quale si riproducono alcune pagine, Francesco Crispi giustificava il diritto dello Stato a incamerare il patrimonio ecclesiastico e a sopprimere gli istituti religiosi, sorti originariamente con delle funzioni che lo stesso sviluppo storico, a suo avviso, aveva reso superate.

F. Crispi, Discorsi parlamentari, I, Roma, Tip. Della Camera dei deputati, 1915, pp. 768-771.


Le conseguenze della soppressione degli enti ecclesiastici

Nelle pagine che seguono, lo storico Giacomo Martina ricostruisce le modalità attraverso cui si attuò concretamente la soppressione degli enti ecclesiastici disposta dalle leggi del 1866-67 e le conseguenze, dure e spesso drammatiche, che essa ebbe nella vita di migliaia di religiosi e religiose.

G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Milano, Vita e pensiero, 1973, pp. 236-249.