» 02|Gli ebrei  
 

All’inizio dell’Ottocento c’erano in Italia poco più di trentamila ebrei, raccolti in comunità concentrate prevalentemente nell’Italia centrosettentrionale. Più precisamente, in Piemonte e lungo la fascia adriatica che dalle Marche risaliva verso l’Emilia, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia.

Comunità minori si trovavano in Toscana, in particolare a Livorno, dove gli ebrei sefarditi erano stati chiamati dal Granduca al momento dell’istituzione del porto franco e godevano della concessione di vivere al di fuori del ghetto, e a Roma, dove invece il ghetto fu abolito solo nel 1870 con l’ingresso dell’esercito italiano. Nell’Italia meridionale invece, la presenza ebraica, pure cospicua in passato, era stata di fatto cancellata dalla dominazione spagnola. Il modello prevalente dell’insediamento in tutta la penisola restava quello della ghettizzazione, fissato ai tempi della Controriforma.


 

 
Fratelli Alinari - Gustavo Modena (1803-1861) - 1857 - Carte de visite - Museo del Risorgimento Brescia  

A partire dalla fine del Settecento, tuttavia, questo mondo segregato da secoli si era messo in movimento. Come ha ricordato di recente lo studioso Sergio della Pergola, il processo di emancipazione e di mobilità sociale all’interno della popolazione ebraica si manifesta in questo periodo attraverso un movimento di migrazioni interne che nel corso del XIX secolo segnerà il declino irreversibile delle comunità più piccole a vantaggio di una marcata urbanizzazione degli ebrei italiani.

Durante l’Ottocento, in altri termini, gli ebrei si spostano dalla periferia ai grandi centri regionali dell’Italia centrosettentrionale. Da questo processo emergeranno alla fine i due grandi centri dell’ebraismo italiano contemporaneo, Roma e Milano.

L’emancipazione degli ebrei ad opera della Rivoluzione francese e la loro inedita presenza sulla scena politica durante gli anni delle repubbliche giacobine e del dominio napoleonico rappresentano la grande novità che la stagione illuministico-rivoluzionaria consegna al liberalismo ottocentesco.

La conquista di questa libertà e la sua successiva negazione durante l’età della Restaurazione spiegano sicuramente la partecipazione ebraica alla cospirazione carbonara degli anni Venti e la presenza di molti ebrei tra le fila dei rivoluzionari mazziniani degli anni Trenta.

È il caso tra gli altri di Angelo Usiglio, che fu compagno di Menotti e di Mazzini, o di Gustavo Modena, celebre attore e rivoluzionario. Dopo i moti del 1831 fu costretto all’esilio durante il quale entrò in contatto con la Giovine Italia e con il suo fondatore. Rientrato in Italia partecipò al biennio rivoluzionario 1848-1849. Sua moglie, Giulia Calame era con Cristina Trivulzio di Belgiosio a Roma durante la difesa della Repubblica nel 1849.

La partecipazione ebraica al Risorgimento fu intensa e piena di entusiasmo; così come significativo fu, riguardo alla causa degli «israeliti», l’atteggiamento del movimento nazionale italiano, largamente favorevole ad una loro piena integrazione nella compagine del nuovo Stato unitario in quanto liberali. Roberto Taparelli d’Azeglio, in prima fila a Torino nel movimento costituzionale, si adoperò con forza per ottenere l’emancipazione di ebrei e valdesi nel 1848 (i suoi scritti più importanti a questo proposito sono gli articoli Ama il tuo prossimo come te stesso, apparso sulla «Concordia» del 3 gennaio, e Emancipazione israelitica, sul «Risorgimento» del 22 febbraio).

In quello stesso anno suo fratello Massimo scrisse un pamphlet dal titolo Sull’emancipazione civile degli israeliti. Il testo più importante per la storia intellettuale del Risorgimento è sicuramente lo scritto che Carlo Cattaneo dedicò alle «interdizioni israelitiche» e che prendeva spunto dalla vicenda dei fratelli Wahl, due ebrei francesi cui il cantone svizzero di Basilea aveva negato l’acquisto di terreni. Scritto nel 1835, le Interdizioni israelitiche rappresentano uno dei primi tentativi di confutazione dell’antisemitismo in Europa.

Come si è detto, le comunità ebraiche erano vissute per secoli segregate rispetto al resto della popolazione, prigioniere della loro specificità religiosa e con pochi o nessun diritto: il Risorgimento pose fine a questa condizione attraverso l’emancipazione che voleva dire l’innalzamento giuridico degli ebrei allo status di cittadini di pieno diritto. Il passaggio fondamentale di questa vicenda è rappresentato dalla promulgazione delle Costituzioni nel 1848. L’eguaglianza dei diritti civili e politici degli ebrei venne riconosciuta inizialmente solo nel Granducato di Toscana (15 febbraio) e dal Ducato di Parma. Qui gli Statuti conservavano al cattolicesimo il carattere di religione di Stato, ma attribuivano pienezza dei diritti a tutti i cittadini, indipendentemente dal culto professato.

A Napoli, invece, la Costituzione del 19 febbraio non aveva eliminato la discriminazione religiosa, consentendo ai soli cattolici l’esercizio del culto. Più complessa la vicenda del Regno di Sardegna. Lo Statuto promulgato il 4 di marzo decretava l’eguaglianza giuridica dei cittadini, ma al tempo stesso faceva riferimento alle «eccezioni» determinate dalle leggi, tra le quali c’erano anche le tradizionali «interdizioni» relative agli ebrei. Tuttavia il corso costituzionale della monarchia sabauda prese un’altra strada e da subito.

Tra la fine del marzo e i primi di luglio del 1848 fu infatti emanata tutta una serie di disposizioni che sancirono in maniera esplicita il principio per cui le differenze di culto erano irrilevanti al fine del godimento dei diritti civili e politici e dell’ammissibilità alle cariche civili e militari. Faceva eccezione, in questo quadro, lo Statuto romano che negava i diritti politici agli ebrei, riservandoli espressamente a quanti professavano la religione cattolica. Disposizione che solo la Repubblica romana avrebbe sanato nel 1849.

Si capisce allora come su queste basi (con l’esclusione della Roma pontificia) si sviluppasse un forte patriottismo italiano tra gli ebrei; tanto che è stato sostenuto a ragione che per la cultura ebraica italiana emancipazione e Risorgimento furono sinonimi (né va dimenticato a questo proposito il caso del piccolo Edgardo Mortara, un bambino ebreo bolognese di sei anni. Nel 1852, credendolo in pericolo di morte, la giovanissima domestica cattolica Anna Morisi, lo aveva battezzato di nascosto.

Diffusasi la notizia, nel 1858 le autorità pontificie lo sottrassero alla famiglia. Il rapimento Mortara divenne un caso internazionale e fu un elemento importante non solo per l’alleanza tra il Piemonte e Napoleone III, che lo poté usare contro i cattolici francesi ostili al movimento nazionale italiano, ma anche perché svolse un ruolo centrale nell’orientare a favore della causa risorgimentale l’opinione pubblica soprattutto anglosassone).

Particolarmente rilevante è il rapporto tra ebraismo e mazzinianesimo. La predicazione mazziniana, come quella liberale, fornì agli ebrei una prospettiva politica per avere un ruolo attivo nel movimento nazionale. Più in generale ebraismo e mazzinianesimo si incontrarono sul terreno di un’etica civile e di una religione politica frammiste di profetismo e ansia millenaristica (la «terza Roma» vagheggiata da Mazzini fornirà più di uno spunto al sogno della restaurazione di Gerusalemme da parte dell’ebraismo).

A metà dell’Ottocento gli ebrei italiani si sentivano senz’altro partecipi di un’epoca nuova, inaugurata simbolicamente dalla concessione sovrana dello Statuto e che si affermava attraverso il riconoscimento di uguali diritti per tutti, senza che le differenze di culto potessero più rappresentare un criterio di discriminazione tanto nei rapporti personali quantonelle carriere civili e militari. Era l’affermazione molto chiara del principio dell’uguaglianza, che abbiamo già visto proclamato dalla Rivoluzione francese e che avrebbe ispirato il rapporto tra lo Stato liberale e i cittadini durante tutto il XIX secolo.

L’emancipazione e i suoi effetti duraturi riguardarono innanzitutto gli ebrei sudditi del re di Sardegna nell’anno 1848, che poterono godere dei diritti e delle libertà garantite loro dallo Statuto di Carlo Alberto e dagli sviluppi del costituzionalismo piemontese. Ma l’entusiasmo e le speranze suscitate tra gli ebrei dalla rivoluzione nazionale furono un fatto più generale.

Molti ebrei affluirono a Roma nel 1849 per la difesa della Repubblica. Salvatore Anau e Leone Carpi, tra questi, furono eletti alla Costituente. Ma la comunità ebraica capitolina schierò propri esponenti molto prestigiosi in prima fila: Samuele Alatri, Samuel Coen, Emanuele Modigliani.

 


 

  Isacco Artom

L’esemplificazione più eclatante nella storia dei rapporti tra ebrei e Risorgimento è sicuramente individuabile nelle vicende della difesa della Repubblica di Venezia.

Di origini ebraiche era Daniele Manin. Suo padre si era convertito al cristianesimo e aveva lasciato il cognome Medina prendendo quello del suo padrino, Ludovico Manin.

Nel governo rivoluzionario di Venezia ebbe accanto i rabbini Abramo Lattes e Samuele Salomone Olper. Furono suoi ministri Leone Pincherle e Isacco Pesaro Maurogonato la cui figlia Letizia scrisse nel 1866 un diario, in cui registrò giorno per giorno i fatti della terza guerra d’indipendenza e le emozioni di una giovane veneziana che attendeva l’arrivo delle truppe italiane.

Sempre nel 1848 Isacco Artom, figlio di ebrei di Asti e studente a Pisa, si arruolò volontario nel battaglione universitario toscano che partecipò alla prima guerra d’indipendenza. Nel 1855 Artom entrò al ministero degli Esteri del Regno di Sardegna come segretario di Cavour, diventando poi segretario generale dello stesso ministero. Insieme a Costantino Nigra fu l’uomo di punta della diplomazia cavouriana. Nel 1860 il quotidiano cattolico integralista «L’Armonia» attaccava lo statista piemontese reo di perseguitare la Chiesa. Tra i motivi per non fidarsi di lui aggiungeva pure la «specialissima confidenza» con un ebreo «applicato al suo gabinetto particolare, nel ministero dell’estero».

Non mancarono certo correnti antisemite nel Risorgimento (esemplare il caso di Francesco Domenico Guerrazzi, ma un ruolo importante lo ebbe anche la ricezione in Italia delle opere del teorico francese del socialismo Proudhon). Resta il fatto che però la cultura liberale italiana guardò, nella sua maggioranza, alla nuova libertà degli ebrei come ad uno dei segni più cospicui del rinnovamento politico e civile della nazione.

Il Risorgimento dell’Italia assunse agli occhi della cultura ebraica il significato di una concomitante occasione per la propria «rigenerazione», secondo uno schema che la stessa cultura italiana avrebbe a sua volta proposto ad altri processi di nazionalizzazione in Europa tra Ottocento e Novecento. Il 4 novembre del 1900 ad esempio, ad un collega dell’Università di Bucarest che gli chiedeva un parere riguardo al problema degli ebrei rumeni considerati in patria degli stranieri, Luigi Luzzatti scriveva: «Ogni popolo ha gli Ebrei che si merita, come ha il Governo che si merita […] Liberandoli dalle catene si migliorano, poiché non vi sono leggi fatali di razza e nazioni […] le catene che avvincono gli Ebrei in Romania avvincono anche i discendenti degli antichi Daci; vi è un’intima corrispondenza nel bene e nel male fra gli oppressi e gli oppressori».

In linea generale possiamo dire che la nascita dello Stato unitario determinò una radicale ridefinizione dell’identità ebraica. L’ebreo moderno era sollecitato dal processo stesso di nazionalizzazione a considerarsi come un singolo, indipendentemente dalla comunità di appartenenza. La fine della chiusura della comunità ebraiche ebbe ad esempio una conseguenza importante sul piano della vita affettiva (e dei conflitti psicologici che ne derivavano) legittimando i matrimoni misti.

L’ingresso di ebrei nell’élite dell’Italia unitaria mise poi gli esponenti più in vista delle comunità israelitiche italiane di fronte ai nuovi codici dell’etica borghese e della laicità. Questo processo di integrazione non fu privo di conflitti e anche di profonde lacerazioni, ma diede vita a forme molto originali di compromesso tra origini e nuovi approdi che stanno alla base della costruzione della moderna soggettività politica degli ebrei in Italia.

Gli ebrei del Risorgimento furono insomma portati dal movimento stesso della civiltà del secolo XIX, che trovava espressione nei principi della libertà e dell’eguaglianza giuridica, a considerare come loro compito specifico quello di mettere capacità e competenze «a disposizione di tutti», proprio perché la loro nuova identità era figlia di un epoca che dei diritti «uguali per tutti» aveva fatto il suo vessillo.

Documenti
 

Gli ebrei d’Italia

Nel 1984, alla Brandeis University si tenne un convegno in onore di Vito Volterra, il grande matematico italiano scomparso nel 1940. Arnaldo Momigliano svolse una relazione che pubblichiamo di seguito, Gli ebrei d’Italia. Momigliano si poneva una domanda: come spiegare l’improvvisa esplosione di iniziative, creatività, responsabilità politica e intellettuale che caratterizza la storia degli ebrei italiani dopo Napoleone, e soprattutto dopo il 1848? Alla ricerca di una risposta, Momigliano sviluppa una riflessione sulla presenza ebraica in Italia che è un pezzo di storia della cultura del nostro paese tra età moderna e contemporanea.

A. Momigliano, Pagine ebraiche, Torino, Einaudi, 1987, pp. 129-142.

 

Le interdizioni israelitiche

Prendendo spunto da un caso di cronaca avvenuto nel cantone di Basilea in Svizzera, Carlo Cattaneo scrisse nel 1835 un testo che rappresenta uno dei primi tentativi di confutazione dell’antisemitismo in Europa, notevolmente importante per la storia intellettuale del Risorgimento. Le leggi che per secoli avevano impedito agli ebrei l’accesso alle professioni o, come nel caso trattato da Cattaneo, alla proprietà terriera, diventano per Cattaneo l’occasione per una riflessione sul rapporto tra diritto, economia e morale. Pubblichiamo di seguito la prefazione di Luciano Cafagna all’edizione Einaudi delle Interdizioni e il capitolo VI del libro dedicato agli effetti delle interdizioni sulla morale.

C. Cattaneo, Interdizioni israelitiche, Torino, Einaudi, 1987, pp. VI-XXII, 141-157.

 

L’antisemitismo di Guerrazzi

In carcere a Portoferraio nel 1833, dove era detenuto per la sua attività cospirativa nelle file della mazziniana «Giovine Italia», Francesco Domenico Guerrazzi compose le Note autobiografiche. A Livorno, sua città natale, esisteva una cospicua comunità ebraica. Guerrazzi ne racconta la vicenda in pagine intrise di pregiudizio.

F. D. Guerrazzi, Note autobiografiche e poema, Firenze, Le Monnier, 1899, pp. 81-99.

 

Le inutili nostalgie del tempo perduto

L’integrazione degli ebrei nella compagine dello Stato unitario sottoponeva l’identità ebraica ad una forte tensione tra appartenenza comunitaria tradizionale e individualismo. L’ebreo moderno impegnato in una difficile e spesso dolorosa riscrittura della propria soggettività si trova di fronte ad una difficile composizione di istanze contrapposte. Le soluzioni adottate nel corso della seconda metà dell’Ottocento saranno le più diverse e daranno vita ad una ricchissima esperienza culturale nell’Italia a cavallo dei due secoli. Alberto Cavaglion analizza questa vicenda restituendo percorsi personali ed elaborazioni degli ebrei italiani negli anni dell’unificazione.

A. Cavaglion, Il senso dell’arca. Ebrei senza saperlo: nuove riflessioni, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2006, pp. 129-135.