» 09|La rivoluzione  
 


 

 
E. Delacroux - La libertà guida il popolo - Museo del Louvre - Parigi  

Il problema della rivoluzione domina l’orizzonte politico e ideale del Risorgimento. Come tutti i movimenti politici dell’Ottocento, anche il movimento nazionale italiano si muove nell’orbita politica e ideale della Rivoluzione francese ed è innanzitutto con la sua eredità che deve fare i conti.

Né per i liberali, né per i democratici si trattò di un’operazione semplice. Quell’eredità era al tempo stesso imponente, e dunque difficilmente aggirabile, e contraddittoria. C’erano i grandi principi umanitari e c’era il Terrore, con il suo carico di crudeltà e di violenza.

C’era la rivoluzione antiassolutistica e dei diritti, nella sostanza liberale, e c’era la rivoluzione radicale che aveva preteso di rendere gli uomini non solo liberi ma uguali. C’era infine la rivoluzione che si era imposta al resto d’Europa con una guerra di conquista cancellando per vent’anni, differenze culturali e tradizioni storiche nazionali.

Come fare dunque una «rivoluzione» senza macchiarsi delle colpe della «Rivoluzione»? E poi: era giusto fare la rivoluzione? e cosa sarebbe stata la rivoluzione italiana?

Due date dobbiamo prendere in considerazione: il 1830 e il 1848.

Il 1830 significò a livello europeo la rottura del legame tra liberalismo costituzionale e rivoluzionarismo romantico. La rivoluzione in Francia (27-29 luglio 1830) rovesciò la monarchia legittima ma venne fermata sulla strada dell’instaurazione del governo repubblicano. Le forze liberali infatti salvaguardarono il principio monarchico, ma con un re, Luigi Filippo, che accettava il potere sulla base del compromesso con un Parlamento dominato dalla nuova borghesia capitalistica.

Sul piano internazionale le giornate del luglio 1830 ebbero poi l’effetto di rafforzare l’asse euro-occidentale Francia-Inghilterra contro il blocco centro-orientale austro-russo. L’influenza di questi avvenimenti sulla formazione delle élites liberali italiane fu notevole.

In termini molto generali si può dire che gli esiti politici del moto parigino consentirono concretamente (a livello teorico già lo aveva fatto con i suoi scritti alcun anni prima Benjamin Constant) alla nuova generazione liberale di sentirsi rivoluzionaria senza essere giacobina. Nel 1833, in una lettera all’amico Auguste De La Rive, Cavour si definiva un uomo del «giusto mezzo» che «desidera, auspica e lavora per il progresso sociale con tutte le sue forze, ma deciso a non pagarlo a prezzo di uno sconvolgimento generale, politico e sociale».

Anche sul fronte dei democratici i fatti del 1830 ebbero conseguenze importanti. I moti nell’Italia centrale, scoppiati sull’onda delle speranze suscitate dalla rivoluzione in Francia, attestarono il fallimento del modello cospirativo di matrice carbonara, legato storicamente alla tradizione rivoluzionaria dell’’89 e sempre in attesa del suo aiuto. Mancando questo intervento, la rivoluzione dimostrò una scarsa capacità di iniziativa autonoma e poca determinazione politica.

Sulle macerie di questo fallimento si affermò una nuova generazione di rivoluzionari. Comincia allora l’ascesa di Giuseppe Mazzini nel campo della rivoluzione italiana e internazionale. Mazzini è il principale teorico della legittimità della rivoluzione in quanto associata al principio di nazionalità. Egli criticava la tradizione rivoluzionaria francese, di cui ripudiava il metodo del terrore, il governo di un uomo solo che reputava intrinseci a quel modello e l’esclusiva insistenza sul tema dei diritti con l’esclusione di quello dei doveri.

Gli anni Trenta sul fronte del movimento rivoluzionario sono importanti anche perché lo scoppio della rivoluzione in Europa (in Belgio, Polonia, Italia centrale) segnò una ripresa di vecchie correnti socialisteggianti nate anch’esse dal tronco della grande Rivoluzione (Babeuf e Filippo Buonarroti). Una nuova linea di frattura veniva così tracciandosi all’interno del movimento rivoluzionario tra nazione e socialismo; una linea destinata ad approfondirsi nel corso dei due decenni successivi e a diventare particolarmente marcata dopo il 1848.

Fino al 1848 la geografia rivoluzionaria italiana ricalcò in larga misura quella della Francia, dove la soluzione del 1830 mostrava chiaramente di non aver raggiunto il traguardo di una solida stabilità politica. In Italia come in Francia restò aperta la disputa tra le forze liberali e quelle democratiche, sempre più incalzate dalle piccole, ma molto combattive, nuove correnti socialiste.

 


 

  Frontespizio Ultimi casi di Romagna

I liberali si andavano sempre più convincendo della opportunità di una rivoluzione lontana dai metodi terroristici mentre i democratici furono spinti ad una riconsiderazione dei fattori fondamentali del problema italiano.

Sul versante liberale ebbe un’influenza notevole l’opuscolo di Massimo d’Azeglio Degli ultimi casi di Romagna (1845). L’aspetto più interessante della sua riflessione è sicuramente l’indicazione del legame inevitabile tra la lotta per l’indipendenza nazionale e liberalismo.

D’Azeglio non si limitava a prendere le distanze dal rivoluzionarismo e a predicare la prudenza. Al contrario, egli affermava con chiarezza l’impossibilità degli italiani a rinunciare all’indipendenza, cosa che di per sé significava porre la questione di un confronto armato con l’Austria, seppure rimandato in un futuro indeterminato.

In vista di questo fine ultimo, egli invitava i patrioti ad uscire allo scoperto e ad organizzare un movimento di pubblica opinione che premesse sulle dinastie italiane per ottenere intanto miglioramenti, istituzioni e «temprata libertà». Egli distingueva pure tra coraggio civile e coraggio militare, non escludendo dunque affatto l’eventualità della lotta armata.

Prima però era necessario che la protesta fosse organizzata in pubblico e aspirasse a coinvolgere il maggior numero possibile di persone.

D’Azeglio legava strettamente la lotta per l’indipendenza alle idee liberali ponendola sul terreno della opinione pubblica e della agitazione alla luce del giorno contro la prospettiva della lotta clandestina e dell’insurrezionismo cari alla sinistra mazziniana. Anche l’impostazione di d’Azeglio non escludeva il ricorso alla rivoluzione ma la poneva solo come estrema ratio al termine di un lungo processo politico.

I moti insurrezionali erano il segno di condizioni di grave arretratezza sul piano economico e politico, come appunto insegnavano i «casi di Romagna», vale a dire l’endemico ribellismo in uno degli Stati più arretrati della penisola, lo Stato pontificio. Solo le riforme liberali avrebbero scongiurato la rivoluzione assumendone però la sfida alla trasformazione della situazione esistente.

D’Azeglio dava insomma ai liberali una piattaforma politica nazionale (esplicitata nel 1847 nella Proposta d’un programma per l’opinione nazionale italiana) e un progetto egemonico che avrebbe subìto ulteriori elaborazioni nel decennio successivo ad opera di Cavour.

Per quanto riguarda i democratici, la sconfitta della rivoluzione popolari di Milano, Roma, Firenze e Venezia nel 1848-1849 segnò l’acuirsi dei loro contrasti interni portando molti ad aderire al movimento nazionale liberale.

Il più importante degli oppositori di Mazzini fu sicuramente Giuseppe Ferrari (La federazione repubblicana, 1851). I due discordavano sull’interpretazione generale della rivoluzione italiana. Per Mazzini si trattava di una rivoluzione nazionale, per Ferrari avrebbe dovuto essere parte di una lotta più generale contro le due forze storiche della reazione europea, l’impero e il papato. Per Ferrari questo significava che la rivoluzione italiana si sarebbe compiuta sotto la direzione della Francia e nel nome di principi che erano tipici della tradizione francese. Inoltre, la ripresa di un’azione rivoluzionaria da parte della Francia, e dunque anche dell’Italia, secondo Ferrari, non poteva che avvenire nella direzione del socialismo.

La posizione di Ferrari introduceva un principio di differenziazione nella tradizione rivoluzionaria italiana che avrebbe esercitato una potente e duratura influenza sul pensiero politico italiano tra Ottocento e Novecento. Reagendo alle critiche da sinistra, Mazzini fu infatti portato a ribadire il nesso tra rivoluzione e nazione. Non solo la rivoluzione era legittima solo in quanto connessa con il principio di nazionalità, ma la nazione assumeva un significato preciso in opposizione a due elementi degenerativi: la fazione e, quella che era una sua incarnazione moderna, la lotta di classe.

Fuori dal «partito nazionale», aveva scritto Mazzini nel 1849, non c’era spazio che per le «fazioni», che potevano «guastare e corrompere, non creare». Nel corso degli anni Cinquanta Mazzini si troverà così stretto tra le critiche di liberali e oppositori di Sinistra. L’estremismo, che aveva a suo tempo conquistato spazio anche nelle sue fila, in particolare contribuì ad indebolire la sua posizione. Nel 1858, un suo antico discepolo, Felice Orsini, attentò alla vita di Napoleone III, lasciando incolume l’imperatore dei francesi, ma causando la morte di dodici persone e centinaia di feriti.

L’apporto del Risorgimento italiano alla teoria della rivoluzione è sicuramente modesto, se paragonato ad esempio alla tradizione francese o a quella più antica dell’Inghilterra. È tuttavia indubbio che un contributo importantissimo ai movimenti rivoluzionari europei dell’Ottocento la lotta per l’indipendenza e l’unità italiana lo fornì sul terreno della teoria e della pratica guerrigliera.

Come ha sottolineato a suo tempo lo storico James Billington, gli italiani fornirono al movimento rivoluzionario europeo della prima metà del secolo innanzitutto una riflessione sulla guerra rivoluzionaria, sull’organizzazione per bande e sul modo in cui queste dovevano condursi nelle varie fasi della lotta armata.

Importanti in questo senso furono gli scritti di Carlo Bianco di Saint-Jorioz, che aveva partecipato ai moti in Piemonte nel 1820, era fuggito a Parigi e aveva guidato i volontari italiani nella resistenza spagnola contro le truppe francesi nel 1822-1823. Suo è il trattato Della guerra nazionale d’insurrezione per bande, applicata all’Italia (1830).


 

 
F. Palizzi - Garibaldi ritratto a cavallo chiamato Marsala, al quale il generale era affezionatissimo. Alla sua morte fece erigere una lapide e la sua testa è conservata nella casa-museo di Caprera - olio su tela - Collezione privata - Roma  

Gli italiani fornirono soprattutto con Garibaldi un esempio concreto di lotta guerrigliera, ma anche uno stile eroico al rivoluzionario nazionale dell’Ottocento. Saint-Jorioz aveva messo molta cura nel descrivere vestiario e armamento del combattente nazionale. In particolare aveva mostrato una forte predilezione per le armi leggere, cosa che lo portava ad enfatizzare gli aspetti individuali, agonistici, del corpo a corpo del movimento insurrezionale, sottolineando la necessità di uno stretto rapporto tra il rivoluzionario e la sua arma, pugnali italiani e coltelli spagnoli in particolare.

Il personaggio Garibaldi aveva i tratti ribaldi, esotici e sensuali del brigante e dell’avventuriero. Nel 1882, Jessie White Mario lo ricorda «bello e di maschile aspetto», i capelli lunghi che gli cadevano sulle spalle e, sul volto abbronzato, la folta barba rossiccia. Anche da questo punto di vista, l’icona del rivoluzionario italiano dell’Ottocento giunge al Novecento e ai suoi miti politico-sociali.

Per i molti giovani che accorsero volontari alle battaglie del 1848 e che dieci anni più tardi parteciparono con Garibaldi all’impresa dei Mille, la rivoluzione fu soprattutto una straordinaria avventura, una occasione di libertà fisica mai sperimentata fino ad allora, lo spazio in cui afferrare la vita e farla propria con lo stesso gesto con cui la si metteva spavaldamente in gioco.

Il Risorgimento da questo punto di vista era destinato a lasciare una traccia profonda nella mentalità e nei costumi politici degli italiani. Ha potentemente contribuito a fissare nel repertorio degli stereotipi politici italiani, associata alla rivoluzione, l’immagine di una baldanzosa giovinezza in armi, che imbraccia il fucile e accorre generosa ed entusiasta dovunque ci sia un’ingiustizia da sanare e un despota da combattere.


Schede collegate: giovinezza,  guerra, internazionalismo, Costituzione, Massimo d’Azeglio, Cesare Balbo, Giuseppe Mazzini, Giuseppe Ferrari, Felice Orsini

Documenti
 

I casi di Romagna

Sul versante della costruzione di un’opinione pubblica liberale nazionale negli anni Quaranta ebbe un’influenza notevole un opuscolo di Massimo d’Azeglio, pubblicato clandestinamente in Toscana nel 1845, Degli ultimi casi di Romagna. D’Azeglio era reduce da un viaggio politico in Romagna, dove era entrato in contatto con gli ambienti della cospirazione carbonara e aveva duramente criticato i metodi della lotta clandestina e delle congiure, quando scoppiò il moto di Rimini (1844). Fu questa l’occasione dell’opuscolo che inaugurò una brillante carriera di pubblicista. In esso d’Azeglio denuncia con molta chiarezza le responsabilità del governo papale per le condizioni in cui versa la Romagna e individua nelle colpe di Roma la causa principale del ribellismo endemico di quelle terre. Sono qui poste le basi della distinzione tra riforme e rivoluzione che sarà molto importante per la definizione del programma liberale nel Risorgimento italiano.

M. d’Azeglio, Degli ultimi casi di Romagna, Italia, presso i principali libraj, 1846, pp. 55-60, 100-115.

 

Riforme e rivoluzione

Dopo il 1848 anche i liberali cominciano a parlare di rivoluzione. Ne è testimonianza il Discorso sulle rivoluzioni di Cesare Balbo di cui qui pubblichiamo alcune pagine. In particolare ci soffermiamo sulla critica liberale alle sette e alle formazioni clandestine, sull’opposizione tra congiura e lotta politica condotta alla luce del sole, per giungere alla fine alla contrapposizione tra riforme e rivoluzione. Cominciata a meta degli anni Quaranta, la riflessione sulla rivoluzione da parte liberale è un passaggio importante nel superamento delle vecchie posizioni del moderatismo in direzione di una moderna piattaforma politica nazionale.

C. Balbo, Discorso sulle rivoluzioni, in Id., Lettere di politica e letteratura, Torino, Unione tipografico editrice, 1859, pp. 26-34.

 

Rivoluzione e nazione

Le brevi pagine di Mazzini che pubblichiamo di seguito sono tratte da una serie di articoli apparsi alla fine del 1849 sul giornale «Italia del Popolo» raccolti sotto il titolo di Cenni e documenti intorno all’insurrezione lombarda e alla guerra regia del 1848. Sono molto importanti per l’idea mazziniana di rivoluzione che si giustifica solo in quanto rivoluzione nazionale; di un atto politico che il richiamo alla suprema unità del popolo sottrae al rischio incombente dell’iniquità e alla violenza della guerra civile e dello scontro di fazione.

G. Mazzini, Cenni e documenti intorno all’insurrezione lombarda e alla guerra regia del 1848, in Id., Scritti editi e inediti, VI, Letteratura, III, Milano, Daelli, 1863, pp. 457-461.