» Comuni e province dell'Italia liberale  
 

Secondo un giudizio storiografico ormai consolidato, lo sforzo progettuale delle riforme crispine – in particolare la Legge n. 5865 del 30 dicembre 1888 confluita poi nel Testo Unico n. 5921 del 10 febbraio 1889 – si configurò, come una vera e propria “seconda unificazione amministrativa” dell’Italia. Una “seconda unificazione” che accoglieva, in parte, le richieste di riforma che provenivano da tutto lo schieramento politico e che si presentava come un nuovo compromesso tra il Centro e la Periferia, tra i fautori dell’accentramento e quelli del decentramento amministrativo.

Proprio su questi temi, sul finire del secolo, si venne affermando una nuova corrente di pensiero – il “decentramento conservatore” – che, pur criticando il sistema amministrativo accentrato, attribuiva un differente significato alle tradizionali istanze autonomistiche, facendosi portatrice, all’opposto, di un nuovo modello istituzionale, paternalistico e localistico. Il maggiore esponente di questa corrente fu il marchese Antonio Starabba marchese Di Rudinì – autorevole rappresentante di un’aristocrazia terriera sempre più ai margini dello sviluppo capitalistico-industriale ed ex sindaco di Palermo dal 1863 al 1866 – il quale si fece portavoce, non solo della critica nei confronti della macchina amministrativa dello Stato, ma anche di un nuovo sistema di potere municipale, gestito da ristretti gruppi di persone, sul modello dell’autonomia prussiana.

In virtù di questi presupposti ideologici, nel 1896, il Presidente del consiglio Di Rudinì riuscì stabilire, con la Legge n. 346 del 29 luglio 1896, l’elettività dei sindaci di tutti i comuni del Paese, allargando il diritto di voto anche ai piccoli villaggi rurali, in quei luoghi, cioè, dove maggiore era l’importanza economica e, quindi, l’egemonia politica del proprietario terriero. Altrettanto importante, a testimonianza di questa impostazione politico-culturale, fu l’istituzione, sempre nel 1896, del cosiddetto Commissario civile per la Sicilia – una figura ibrida che combinava assieme le funzioni del prefetto di Palermo con quelle di un ministro senza portafoglio – che segnava, seppur temporaneamente, l’abbandono dell’uniformità degli apparati istituzionali a favore di una circoscritta autonomia territoriale. Questo provvedimento fu salutato con favore anche dalla Federazione socialista di Palermo che vi intravide, erroneamente, un’apertura al modello regionalista. Tuttavia, al di là di queste soluzioni, questa sorta di decentramento paternalistico-conservatore ebbe vita breve e le altre proposte di riforma amministrativa, avanzate sempre da Di Rudinì, come l’istituzione dei referendum municipali o il rafforzamento del ruolo dei prefetti, non ebbero seguito.

La cosiddetta “crisi di fine secolo”, che era stata caratterizzata da una serie di governi conservatori e che aveva visto, nel 1897, anche la richiesta di Sidney Sonnino di un “ritorno alla Statuto” – ovvero ad un’interpretazione letterale dello Statuto albertino che riconsegnasse la responsabilità del governo unicamente nei confronti del re e non verso il parlamento – si concluse, grossomodo, con il governo presieduto da Giuseppe Saracco, che segnò, simbolicamente, l’inizio di una nuova stagione politica. Una stagione caratterizzata, essenzialmente, da almeno tre elementi: innanzitutto, dalla figura di Giovanni Giolitti, che fu il protagonista indiscusso del quindicennio che precedette l’entrata in guerra dell’Italia e che assunse l’incarico di Presidente del consiglio per tre lunghi mandati (1903-1905, 1906-1909, 1911-1914); in secondo luogo, da una progressiva crescita economica e industriale del Paese che fu accompagnata anche dallo sviluppo di nuove forze politiche e sindacali; e, infine, da una spinta razionalizzatrice nell’ordinamento centrale e locale dello Stato che produsse il cosiddetto “decollo amministrativo”.

Un “decollo amministrativo” caratterizzato, secondo Guido Melis, da almeno sei grandi novità. Innanzitutto, la crescita esponenziale degli impiegati civili e militari dovuta soprattutto all’aumento delle funzioni e dei compiti dello Stato: dai 98.354 dipendenti pubblici del 1883 si passò ai 286.670 del 1914. In secondo luogo, la “meridionalizzazione” dell’amministrazione pubblica, che contribuì, anch’essa, a sancire quella storica e strutturale divisione politica ed economica tra il Nord e il Sud del Paese. Quindi, la radicale modificazione delle funzioni degli enti pubblici che iniziarono ad occuparsi anche di “servizi sociali” e di questioni “industriali” e d’impresa. Poi, come quarta novità, l’accentuazione del ruolo di mediazione sociale nei nuovi conflitti sociali sempre più aspri tra Capitale e Lavoro e la nascita, per esempio, di “un’amministrazione per collegi”.

Quindi, un nuovo rapporto tra la politica e l’amministrazione sancito dalla complessa realtà “dell’amministrazione consultiva” e dall’emergere, accanto ai politici, dei grand commis, ovvero quei funzionari che grazie alle loro competenze tecniche diventarono sempre più influenti e importanti. E infine, l’ultima novità del periodo fu l’accentuato pluralismo amministrativo. Accanto alle strutture ministeriali sorgevano, infatti, le cosiddette amministrazioni parallele: ovvero quelle strutture tecnico-amministrative, dipendenti dall’autorità centrale o dall’ente locale, a cui era stata demandata una parziale autonomia gestionale che le permetteva di poter fornire beni e servizi di interesse pubblico ai cittadini.

Sarà proprio Giovanni Giolitti a dare un contributo decisivo allo sviluppo delle amministrazioni parallele – per esempio, con la creazione dell’Ente autonomo dell’acquedotto pugliese e del Consorzio del porto di Genova, oppure con la creazione dei cosiddetti enti economici, come l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni (INA) o l’azienda delle ferrovie di Stato – soprattutto con la costituzione delle aziende municipalizzate che rappresentarono, indubbiamente, una delle più importanti novità dell’ordinamento locale ad inizio secolo.

Le aziende municipalizzate vennero introdotte, dopo una discussione parlamentare durata circa un anno, con la Legge n. 103 del 29 marzo 1903 promulgata durante il governo di Giuseppe Zanardelli e quando Giolitti era Ministro dell’Interno. Si trattò di una grandissima novità perché assegnava a tutti i comuni la facoltà – e non l’obbligatorietà – di poter creare delle aziende specifiche nella gestione di “pubblici servizi”, come la costruzione di acquedotti e fognature o la distribuzione di acqua potabile e l’esercizio dell’illuminazione pubblica.

Nonostante la forte disapprovazione del mondo imprenditoriale e la “farraginosità dell’iter burocratico” – che prevedeva un procedimento amministrativo lungo e complesso, caratterizzato anche da controlli e pareri preventivi – la legge ebbe la sua lenta ma progressiva applicazione ed ebbe almeno due effetti, positivi e di lunga durata, sul sistema politico e sull’assetto amministrativo. Innanzitutto, l’azienda municipalizzata contribuì a calmierare i prezzi, favorendo i ceti meno abbienti, e a risanare molti bilanci comunali perennemente in perdita. In secondo luogo, secondo un giudizio consolidato della storiografia, segnò un mutamento istituzionale dei municipi, i quali si trasformano da comuni “arbitri” a comuni “imprenditori”.

Indubbiamente, anche a seguito di queste novità, uno degli aspetti più importanti di questo periodo, fu la cosiddetta “rinascita comunale” che attestò una nuova e più incisiva presenza dei poteri locali nella vita politica-amministrativa del Paese. Questa, nuova presenza politico-istituzionale fu il prodotto di almeno tre fattori: in primo luogo, delle riforme elettorali di fine Ottocento che portarono ad un cauto ma progressivo allargamento del suffragio; in secondo luogo, di un continuo processo di inurbamento delle città a cui si accompagnò l’affermazione di nuove élite cittadine; e infine, di un nuovo protagonismo politico testimoniato dall’ascesa di alcune forze politiche radicate nella società che rivendicarono una funzione di indirizzo politico e, soprattutto, dei luoghi di espressione e di rappresentanza politica.

Il Partito socialista italiano e i cattolici – quest’ultimi non erano strutturati in un partito politico ma organizzati in un composito e articolato arcipelago di associazioni e comitati radicati nel territorio – furono le due culture politiche emergenti d’inizio secolo che, pur avendo due visioni del mondo contrapposte, declinarono il proprio impegno politico negli ordinamenti locali come una delle attività più importanti della loro azione politica. I cattolici, in particolare, sin dal momento della sua fondazione, avevano sollevato delle durissime critiche contro lo Stato risorgimentale, laico ed accentrato, espressione di una cultura politica liberale – materialista, massonica ed anticlericale – che si contrapponeva al tradizionale magistero della Chiesa. Critiche che si combinavano, inoltre, con una più antica diffidenza nei confronti della concezione individualistica della rappresentanza politica.

Nel Novecento, da questa composita tradizione politico-culturale – che aveva visto alternarsi, nell’ultimo scorcio del XIX secolo, l’attività dell’Opera dei Congressi con la rappresentanza diretta in molti comuni e province – emerse una grande figura del cattolicesimo politico italiano: Luigi Sturzo. Il sacerdote di Caltagirone condensò, nel Programma municipale dei cattolici italiani del 1902, gli elementi più importanti della sua azione politica in difesa delle autonomie locali. Un’azione che non doveva riassumersi soltanto in una rinnovata pratica amministrativa ma che aveva l’ambizione di diventare un prezioso strumento di educazione delle masse e di opposizione alle tendenze monopolistiche del grande capitale industriale. In definitiva, il municipalismo cattolico si configurava sia come un progetto politico antitetico al liberalismo laico al governo del Paese, che come una tappa importante per la democratizzazione dell’apparato dello Stato.

Su posizioni estremamente diverse, invece, si collocava il cosiddetto socialismo municipale che ipotizzava una sorta di conquista dello Stato “dal basso” concepita, inizialmente, soltanto come una tappa intermedia nel processo di conquista del potere. Naturalmente, una tale concezione, sommariamente riformista – che avrebbe svolto una funzione decisiva nella formazione di una nuova generazione di amministratori municipali, in gran parte di umili origini sociali – non venne accettata da tutto il mondo socialista. In particolare, venne rifiutata da quell’area intransigente e massimalista che vedeva come unico e autentico obiettivo l’abbattimento dello Stato e la creazione di una società senza classi.

Come abbiamo detto, la figura politica di maggior rilievo del periodo, che seppe svolgere un ruolo di interlocutore e di mediatore con le nuove forze politiche e sociali che emergevano al di fuori delle aule parlamentari, fu senza dubbio quella di Giovanni Giolitti. Per esprimere il rapporto che lo legava alla macchina amministrativa, Paolo Farneti interpretò il giolittismo – secondo un’espressione poi ripresa da Melis –come un “progetto burocratico di governo”. Un’espressione che, al di là di tutte le profonde implicazioni storiografiche che evoca questa definizione, delinea efficacemente la rilevanza che assunse questo rapporto, privilegiato e riservato, che Giolitti dedicò alla pubblica amministrazione.

Un rapporto su cui non mancarono, sin da subito, critiche e giudizi decisamente severi. I due elementi di maggior critica riguardarono due aspetti della sua azione politica: l’uso “immorale” dei prefetti nel Mezzogiorno e l’eccessivo sviluppo della macchina amministrativa, la cosiddetta “elefantiasi burocratica”. Un fenomeno, quest’ultimo, che assunse, però, un significato ambivalente. Infatti, accanto all’aumento inopinato dei pubblici dipendenti si registrò anche un fattore di cambiamento estremamente positivo: ovvero il loro riconoscimento legislativo attraverso la disciplina organica del loro status giuridico.

L’impiego, a volte spregiudicato, dei prefetti, soprattutto nei collegi meridionali durante i periodi elettorali, costarono a Giolitti una serie di durissime accuse, compendiate efficacemente nell’epiteto di “ministro della mala vita”. Una definizione celebre, entrata in tutti i libri di storia, che venne coniata, nel 1910, dallo storico meridionalista Gaetano Salvemini, il quale, in un celebre pamphlet che riportava nel titolo quell’accusa infamante, denunciava le “camorre amministrative” e gli abusi dei prefetti nell’orientare il voto dei cittadini. Un epiteto ingiurioso che delineava efficacemente la cornice simbolico-culturale di un ordinamento politico-amministrativo segnato, profondamente, dal giolittismo come sistema di potere consolidato e dagli attacchi feroci dei suoi avversari.

In definitiva, l’ordinamento politico-amministrativo del primo Novecento si caratterizzò per almeno tre importanti novità: innanzitutto, il passaggio dal cosiddetto “Stato monoclasse” liberale e notabilare ad uno “Stato pluriclasse” in via di democratizzazione; in secondo luogo, una notevole espansione dell’apparato amministrativo a cui corrispose una altrettanto forte crescita delle spese dello Stato (per fare un solo esempio, è sufficiente ricordare che le spese degli enti locali, che nel 1899 erano state di 535 milioni, passarono, nel 1912, a 1 miliardo e 125 milioni). E infine una crescita dell’importanza politica ed economica dei comuni. I quali, da un lato, accrebbero le loro funzioni – in particolare con le aziende municipalizzate – e, dall’altro lato, videro lo sviluppo, all’interno delle proprie aule consiliari, di quei movimenti politici che sarebbero stati, successivamente, gli autentici protagonisti della vita politica del Novecento.

I giudizi storici
 

1. Il dibattito sulla crisi delle istituzioni

Nel corso degli ultimi decenni del XIX secolo si sviluppò un vivace dibattito sull’assetto istituzionale dello Stato liberale e sul funzionamento del sistema politico. Giuristi, economisti, uomini politici e teorici delle moderne scienze sociali si interrogarono su temi di grande rilevanza pubblica come la “degenerazione parlamentare”, “la questione dell’ingresso delle masse nello Stato” o la rielaborazione dottrinaria del nuovo concetto di “Stato amministrativo”. Nelle pagine che seguono Fulvio Cammarano fornisce un efficace quadro d’insieme di questo dibattito.

F. Cammarano, Storia politica dell’Italia liberale, Bologna, il Mulino, 1999, pp. 411-417.

 

2. La riforma crispina

Dopo circa venti anni di critiche alla Legge di unificazione amministrativa, Francesco Crispi riuscì a mettere in atto, nel 1888, un’importante riforma amministrativa che attribuiva maggiori autonomie agli enti locali: in particolare l’elezione del sindaco nei comuni più grandi. Nelle pagine che seguono, Raffaele Romanelli illustra le maggiori novità e i punti di criticità della riforma, sottolineando, però, come la questione elettorale rappresentasse “la pietra angolare di tutto il progetto” crispino.

R. Romanelli, Il comando impossibile, Bologna, il Mulino, 1995, pp.252-262.

 

3. Un nuovo tipo di centralismo

In queste pagine Guido Melis riflette sul mutato rapporto centro-periferia in Italia dopo la promulgazione della Legge comunale e provinciale del 1888 poi ricompresa nel testo unico del 1889. Alle novità introdotte dalla riforma crispina – che “delinearono uno scossone di portata storica nell’assetto dei poteri locali” – si aggiunsero altri mutamenti socio-politici. In primo luogo, la crescita urbana degli anni Ottanta e la conseguente differenziazione tra i comuni medio-grandi e quelli piccoli, o tra quelli “industriali” e quelli “rurali”. In secondo luogo, il potenziamento di due strumenti tradizionali di conoscenza amministrativa: l’inchiesta e l’ispezione.

G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, il Mulino, 1996, pp. 152-160.

 

4. Le elezioni comunali

La rappresentanza elettorale negli ordinamenti locali ha rappresentato, da sempre, una questione di grande rilevanza politica. Fino al 1888 il sistema elettorale in vigore era quello della “lista maggioritaria”, così come era stato disposto dalla Legge n. 807 del 7 marzo 1848. Con la riforma crispina (Legge n. 5865 del 30 dicembre 1888) venne introdotto il sistema del “voto limitato” (limitato ai 4/5 dei seggi) con cui si introduceva un correttivo alla lista maggioritaria per consentire la rappresentanza delle minoranze. Nelle pagine che seguono, pubblichiamo un breve estratto di una riflessione di Luigi Giovenco sulla partecipazione elettorale alle elezioni comunali tra il 1865 e il 1920.

L. Giovenco, Gli organi comunali elettivi e le elezioni comunali, inM. S. Giannini (a cura di), I Comuni, 1967, Vicenza, Neri Pozza, pp. 113-118.

 

5. La città che sale

 All’inizio del XX secolo, il problema del governo locale era strettamente connesso con l’impetuoso sviluppo del fenomeno urbano. Pubblichiamo un estratto di un saggio di Fabio Rugge – che cita, nel titolo, la stessa denominazione di un celebre quadro di Umberto Boccioni “La città che sale” – in cui viene analizzato il problema dell’autonomia comunale alla luce del cosiddetto “socialismo municipale”.

F. Rugge, “La città che sale”: il problema del governo municipale di inizio secolo, in P. Aimo, M. Bigaran (a cura di), Istituzioni e borghesie locali nell'Italia liberale, Milano, Franco Angeli, pp. 54-63.

 

6. Il pubblico impiego locale da Crispi a Giolitti

I due brani estratti dallo studio di Pierangelo Schiera su I precedenti storici dell’impiego locale in Italia si concentrano su due momenti decisivi nell’evoluzione del pubblico impiego nei comuni e nelle province italiane. Il primo si sofferma sull’articolo 111 del Testo Unico del 1889 che stabilisce la competenza del Consiglio Comunale a deliberare sul pubblico impiego. Con questa legge muta anche il clima d’opinione e l’impiego locale viene sempre più visto come “l’espletamento di un servizio generale” soggetto all’attuazione della più generale “funzione pubblica del Comune”. Il secondo documento si riferisce, invece, alla Legge n. 144 del 7 maggio 1902 che introduce alcuni importanti novità sullo stato giuridico degli impiegati pubblici locali: i segretari comunali vengono riconosciuti come dei funzionari pubblici e il Comune ha l’obbligo di regolamentare in modo organico la propria amministrazione.

P. Schiera, I precedenti storici dell'impiego locale in Italia: studio storico giuridico 1859-1960, Giuffrè, Milano, 1971, pp. 89-97 e 107-112.

 

7. La compressione delle prerogative provinciali

L’ente Provincia, all’indomani della riforma crispina del 1888, iniziò un evidente declino politico-istituzionale. Da un lato, la rappresentanza di tipo notabilare aveva sterilizzato quell’ascesa delle forze di sinistra che si era riscontrata, invece, in molti comuni. Dall’altro lato, alcune modifiche legislative ne avevano limitato l’assetto istituzionale: ad esempio, la riforma del sistema elettorale dell’11 luglio 1894, oppure la legge n. 340 del 1894 che modificò l’autonomia di spesa. Per questi motivi, agli inizi del Novecento, si accese un vivace dibattito sulle funzioni e le competenze delle province e molti ne misero in discussione la loro stessa esistenza. Nonostante le critiche, Giolitti difese la provincia da coloro che ne chiedevano l’abolizione – o la diminuzione di rango, a favore della regione – perché, nella sua visione, la provincia era perfettamente inserita all’interno di un sistema amministrativo accentrato “temperato da una cauta autonomia degli locali esistenti”. Nelle pagine che seguono, pubblichiamo un estratto della riflessione di Alessandro Polsi sulla “compressione delle prerogative provinciali” a cavallo tra i due secoli.

A. Polsi, Profilo dell’ente provincia dall’unificazione al fascismo, in “Storia amministrazione costituzione”, vol. 11, 2004, pp. 205-215.

 

8. I presidenti delle province: una leadership di regolazione

All’interno del sistema amministrativo del Regno d’Italia, la Provincia, pur avendo una personalità giuridica e un’amministrazione propria, continuò a vivere – come denunciarono molti osservatori del tempo – “all’ombra della prefettura”. In questo contributo, Francesco Bonini definisce il Presidente del consiglio provinciale come una “leadership di regolazione”, assegnandogli un “ruolo centrale” nel sistema politico locale perché poteva assumere diversi profili “a seconda delle personalità o delle situazioni”. In definitiva, il Presidente del consiglio provinciale svolgeva una funzione “di regolatore per conto proprio o di un altro notabile”.

F. Bonini, I presidenti delle Province dall’Unità alla Grande guerra, in P. Aimo (a cura di), Le province dalle origini alla Costituzione, Milano, Quaderni ISAP, 2009, pp. 165-170.

 

9. Decentramento e regionalismo in età giolittiana

Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del Novecento, emergono, con sempre maggiore vigore, alcune posizioni a favore di un maggiore decentramento amministrativo di tipo regionale, soprattutto per le regioni meridionali. Queste posizioni, promosse ad esempio da uomini come Giustino Fortunato e Sidney Sonnino, si scontrano col il netto rifiuto della classe dirigente che vede, in queste proposte, “un pericolo” per “l’unità” dell’Italia, lo sviluppo di “tendenze separatiste” e persino “l’immaturità” del Paese sulla compiuta accettazione del regime liberale. Nelle pagine che seguono, Roberto Ruffilli delinea i caratteri essenziali di questo dibattito politico attraverso le posizioni dei protagonisti e le più importanti pubblicazioni dell’epoca.

R. Ruffilli, La questione regionale dall’unificazione alla dittatura (1862-1942), Milano, Giuffrè, 1971, pp. 244-255.

 

10. La nomina dei prefetti: dalle “alte cariche” ai “funzionari politici”.

Il documento che segue fornisce una ricostruzione politico-istituzionale della figura dei prefetti – a partire dalla metà dell’ottocento ai primi anni del XX secolo – attraverso l’analisi della legislazione più importante di questo periodo storico: dal Regio Decreto sabaudo del 21 dicembre 1850 alla riorganizzazione amministrativa del 1853; dal Regio Decreto del 24 ottobre 1866 al Regio Decreto del 25 agosto 1876; dalla Legge n. 4711 del 14 luglio 1887 al Regio Decreto n. 105 del 7 marzo 1897; dal Regio Decreto n. 466 del 14 novembre 1901 al Regio Decreto n. 26 del 2 febbraio 1902.

P. Casula, I prefetti nell’ordinamento italiano, Milano, Giuffrè, 1972, pp. 91-105.

 

11. I prefetti di Giolitti

La gestione dei prefetti fu, indubbiamente, il terreno nel quale Giovanni Giolitti dimostrò di avere una perfetta padronanza della macchina amministrativa italiana. Non solo nelle modalità di comunicazione e di direzione dell’attività dei prefetti, ma anche nella capacità di reclutamento e di fidelizzazione. Giolitti, infatti, nota Guido Melis, utilizzò pochi uomini, promovendo “con cautela la generazione dei quarantenni” e gli fece svolgere, in media, incarichi di lunga durata. Quei prefetti, dunque, in un contesto storico–politico delicatissimo, seppero guadagnarsi la fiducia sia dello statista liberale che dei suoi avversari, come Sonnino e Luzzati.

G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana (1861-1993), Bologna, il Mulino, 1996, pp. 200-203.

 

12. Salvemini e la polemica antiburocratica

Una delle reazioni più vigorose e più note al sistema di potere di Giolitti fu quella scaturita dall’attività pubblicistica e politica di Gaetano Salvemini. I burocrati, scrive lo storico pugliese sul suo giornale, “l’Unità”, sono “i nemici del Paese”. Costoro, infatti, sono “la linfa vivificatrice, la sorgente di vita e le ragioni di esistenza” del giolittismo. “Salvemini e il salveminismo”, scrive Cassese nel documento che riproduciamo, “manifestano il punto massimo di opposizione al potere burocratico”. Per questo motivo, lo storico pugliese, auspica una grande riforma amministrativa che alleggerisca la macchina dello Stato, tolga potere alla burocrazia civile e militare e, infine, attribuisca una serie di funzioni e competenze agli enti locali.

S. Cassese, Giolittismo e burocrazia nella “cultura delle riviste”, in C. Vivanti (a cura di), Storia d’Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino, pp.513-520.

 

13. La rinascita comunale e il municipalismo cattolico e socialista

Con l’insediamento del governo Saracco finisce la cosiddetta “crisi di fine secolo” e inizia un quindicennio – dall’uccisione del re Umberto I all’entrata in guerra dell’Italia – caratterizzato dalla figura politica di Giovanni Giolitti, da una progressiva crescita economica e da una fase di “democratizzazione delle istituzioni pubbliche”. In particolare, Giolitti si fece promotore di un progetto politico, in ambito amministrativo, che si fondava sulla centralità dell’Esecutivo e sulla cosiddetta “buona amministrazione”. Nelle pagine che seguono, Piero Aimo fornisce un quadro d’insieme di alcune delle più importanti novità politico-amministrative di questo periodo storico, come la “rinascita” comunale (non a caso nasce nel 1901 l’Associazione dei comuni italiani), la fondazione delle aziende di servizi pubblici e un vivace protagonismo cattolico e socialista in ambito municipale. 

P. Aimo, Stato e poteri locali in Italia (1848-1995), Roma, Carocci, 1997, pp. 82-92.

I documenti
 

1. Turiello: una proposta di riforma delle autonomie locali

Pubblichiamo alcune pagine tratte dal II° volume dell’opera di Pasquale Turiello, Governo e governati in Italia – pubblicata in prima edizione nel 1882 e qui riproposta nella versione ampliata ed aggiornata del 1890 – che contengono una riflessione sull’ordinamento locale italiano.

P. Turiello, Governo e governati in Italia, Vol. II, Proposte, Bologna, Zanichelli, 1890 (1° ediz. 1882), pp. 80-96.

 

2. Gaetano Mosca e “la teorica dei governi”

Il documento che segue è un breve estratto del capitolo quinto del volume La teorica dei governi, in cui Gaetano Mosca compie una prima sintetica trattazione sulla “natura degli organismi politici provinciali”. Le pagine riprodotte sono tratte dalla seconda edizione del volume, del 1924, che viene pubblicata a distanza di circa quarant’anni dalla prima edizione, del 1883, quando Mosca, appena venticinquenne, pubblicò questa sua prima opera scritta in “fretta e furia” subito dopo la laurea e al termine di un corso di perfezionamento in scienze politiche ed amministrative seguito presso l’Università di Roma.

G. Mosca, Scritti politici, a cura di G. Sola, Vol. I, Torino, Utet, 1982, pp. 410-417.

 

3. La legge comunale e provinciale del 1889

Il documento riprodotto è il Testo unico della Legge comunale e provinciale del 10 febbraio 1889, firmato dal Presidente del Consiglio Francesco Crispi e dal Ministro della Giustizia Giuseppe Zanardelli.

Testo Unico della Legge5921 del 10 febbraio 1889, in “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia”, Torino, Favale, 1888, pp. 437-459.

 

4. Il problema amministrativo secondo Salvemini

Pubblichiamo i paragrafi IX e X del volume Il Risorgimento Italiano scritto da Gaetano Salvemini. La prima edizione è del 1925 e venne pubblicato nella collezione L’Europa nel secolo XIX curata dall’Istituto di perfezionamento per gli studi politico-sociali e commerciali di Brescia. Originariamente, il volume era stato intitolato L’Italia politica nel sec. XIX. Quindi, dopo averlo rivisto più volte, Salvemini decise di modificarne il titolo: prima in Veduta d’insieme e poi nel definitivo Il Risorgimento italiano.

G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, a cura di P. Pieri e C. Pischedda, Milano, Feltrinelli, 1963, pp.429-435.

 

5. L’elezione del sindaco

Il documento riprodotto è la Legge n. 346 del 29 luglio 1896 che modificava alcuni articoli del Testo unico della Legge comunale e provinciale del 10 febbraio 1889.

Legge n. 346 del 29 luglio 1896, in “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia”, Torino, Favale, 1896, pp. 4327-4328.

 

6. Decentramento e meridionalismo in Giustino Fortunato

Pubblichiamo una parte del discorso tenuto da Giustino Fortunato alla Camera dei deputati, il 3 luglio 1896, durante la discussione generale del disegno di legge sul Commissariato civile per la Sicilia.

G. Fortunato, Scritti politici, a cura di F. Barbagallo, Bari, De Donato, 1981, pp. 73-80.

 

7. Il programma municipale di Sturzo

Il documento riprodotto è una parte del “Programma Municipale dei cattolici italiani” presentato da Luigi Sturzo al primo Convegno dei Consiglieri Cattolici Siciliani che si tenne a Caltanissetta tra il 5 e il 7 novembre 1902. Il “Programma” doveva costituire la piattaforma di un Partito municipale democratico cristiano siciliano. Un soggetto politico, come si legge nella dichiarazione approvata dal Convegno in Assemblea Generale, che doveva essere “autonomo, libero ed indipendente da qualsiasi altro partito amministrativo, da qualsiasi combinazione partigiana, da ogni vincolo politico”.

L. Sturzo, Saggi e discorsi politici e sociali, a cura di V. Clemente, Roma, Edizioni Cinque Lune, 1973, pp. 46-58.

 

8. L’inchiesta di Zanardelli sulla Basilicata

I due documenti riprodotti si riferiscono alla nota “Inchiesta sulla Basilicata” promossa da Giuseppe Zanardelli nel 1902 e da cui sarebbe scaturita, nel 1904, la Legge speciale per la Basilicata. L’inchiesta, che avviene in un periodo di grande espansione industriale al Nord, rappresenta uno dei momenti più importanti in cui il Governo inizia a progettare un intervento straordinario nel Mezzogiorno d’Italia. Il primo documento è una parte del discorso tenuto da Zanardelli a Potenza il 29 settembre 1902; il secondo documento, invece, riproduce la prima parte del “Memorandum del Comune di Potenza” approvato nella seduta del Consiglio provinciale del 19 maggio 1902.

Inchiesta Zanardelli sulla Basilicata, a cura di P. Conti, Torino, Einaudi, 1976, pp. 20-28; 31-36.

 

9. Giolitti e la municipalizzazione dei servizi pubblici

Il documento riprodotto è il discorso tenuto dal Ministro dell’Interno Giovanni Giolitti, il 29 novembre 1902, durante la discussione parlamentare sul Disegno di legge sulla “Assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei Comuni e costituzione ed amministrazione delle aziende speciali” che lo stesso Giolitti aveva presentato alla Camera l’11 marzo del 1902. Quel Disegno sarà convertito nella Legge 103 del 29 marzo 1903.

G. Giolitti, Discorsi parlamentari, Vol. II, Roma, Tipografia della Camera dei deputati, 1953, pp. 728-738.

 

10. La legge sulle aziende municipali

Il documento riprodotto è la Legge n. 103 del 29 marzo 1903 che assegnava ai Comuni la facoltà di assumere “l’impianto e l’esercizio” di alcuni “pubblici servizi” come la costruzione di acquedotti, fognature, tramvie e reti telefoniche; la distribuzione di acqua potabile, l’esercizio dell’illuminazione pubblica e molto altro. La legge venne promulgata durante il governo di Giuseppe Zanardelli, quando Giovanni Giolitti era il Ministro dell’Interno e Francesco Cocco-Ortu il Ministro della Giustizia.

Legge n. 103 del 29 marzo 1903, in “Gazzetta ufficiale del Regno d’Italia”, Torino, Favale, 1903, 1381-1387.

 

11. Il ministro della mala vita

Gaetano Salvemini, storico ed intellettuale meridionalista che aveva aderito al PSI, denunciò a più riprese le “camorre amministrative” e i metodi elettorali giolittiani che manipolavano e corrompevano il voto dei cittadini soprattutto nei collegi meridionali. Uno dei frutti più audaci di questa battaglia fu la pubblicazione, nel 1910, del celebre pamphlet Il ministro della mala vita. Di quell’opuscolo pubblichiamo le pagine conclusive in cui Salvemini denuncia le responsabilità dei “prefetti”, dei “questurini” e dei “malviventi governativi” durante le elezioni meridionali.

G. Salvemini, Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di Ettore Apih, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 135-141.

 

12. La legge comunale e provinciale del 1915

Il documento riprodotto è uno stralcio del Testo Unico della legge comunale e provinciale approvato con Regio Decreto n. 148 il 4 febbraio 1915 durante il secondo governo Salandra.

Testo Unico della legge comunale e provinciale approvato con R.D. 4 febbraio 1915 n. 148, in Ordinamento dei comuni e delle provincie, a cura della Direzione Generale dell’Amministrazione civile del Ministero dell’Interno, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1957, pp. 11-14; 42-54; 68-89.