» Petacci Claretta  
1912 - 1945
 


 

 
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Lei no, non doveva essere uccisa. Lo ammetterà nel 1983 Sandro Pertini, capo dello Stato, un tempo capo partigiano: «La sua unica colpa era quella di avere amato un uomo».

Claretta Petacci andò incontro al suo destino di morte per inseguire un riscatto. L’amore eterno in cambio della vita. Sua per sempre, di fronte agli assassini e al mondo, dopo oltre un decennio d’incontri fugaci e in fondo banali. È dalla banalità di quel bene che lei voleva affrancarsi.

Amante clandestina, passatempo profumato, mantenuta, puttana del duce. Quella morte avrebbe cancellato e risarcito. Così fu.

La pietà avrebbe fermato con una spilla la sua gonna alle ginocchia, nel pieno del furioso oltraggio sui corpi senza vita di piazzale Loreto. «Una macelleria messicana», disse disgustato Ferruccio Parri.

La pietà, poco più tardi, avrebbe spinto il governatore americano della Lombardia ad interrompere il disumano scempio.

Ora, forse, lo si può ammettere. Senza quel finale di partita, Claretta sarebbe poco più di un’amante (fra le tante) di Mussolini. La sua figura sarebbe stata storicamente irrilevante. Al centro, semmai, di postumi gossip nei salotti romani post-fascisti. Così simili a quelli, fascistissimi, dove si discettava sulle sue visite in side-car a Palazzo Venezia e sulla nuova villa dei Petacci, troppo lussuosa per non essere argomento di pettegolezzi velenosi.

Invece no. Quella morte per amore, solo per amore, la fece ingombrante. E d’improvviso così grande. Vergogna per la memorialistica resistenziale, ricordare che con il dittatore fu assassinata anche una donna senza colpa. E brutto incubo per i nostalgici del duce-patria-famiglia, quel corpo estraneo, quasi come aggiunto al copione della storia da chi volesse infangare la figura del duce, farne un ometto in fuga con l’amante, alla stregua di un fedifrago da quattro soldi nell’ora più buia per l’Italia.

La vita di Claretta aveva avuto il suo momento di svolta. Come se un fumetto fosse diventato realtà in carne ed ossa. Accade così in un film di Woody Allen, col protagonista che fuoriesce dallo schermo per fuggire – come un sognato principe azzurro – al fianco dell’innamoratissima spettatrice in sala.

A Claretta era capitata la stessa cosa. L’amore infantile per quell’uomo potente e lontano, si era fatto ossessione. Aveva agitato i suoi sogni d’adolescente. Ma la vita aveva seguito il suo corso, senza scossoni. Musica, sport, amorini giovanili, un fidanzamento tranquillo, una stagione fatta di ozii e di sospiri, di confidenze e di poesie dedicate a Mussolini. Per lei era un mito, come un attore del cinema, dei telefoni bianchi.

Quando lo vide, il giorno che cambiò la sua vita, era primavera. La giovinezza di Claretta, nell’aprile del ‘32, coincide con la maturità di Mussolini e con il massimo del consenso popolare nei confronti del fascismo. L’incontro avvenne alla rotonda di Ostia, Mussolini restò impressionato da quella bella ragazza ventenne, seno aggressivo, occhi nerissimi, autrice di versi spediti via posta e che il duce finse di ricordare ... Fu l’inizio d’un amore. Per lei esaltante, totale, esclusivo: gioia di vivere, ragione per morire. Per lui importante e dolce, parentesi sentimentale tra cattivi pensieri e ragion di Stato.

Claretta sposò ugualmente il suo fidanzato d’un tempo. E Mussolini continuò come prima a ricevere donne senza scrupoli per avventure di pochi minuti, che non meritavano nemmeno d’essere vissute senza stivali...

Eppure Claretta scelse infine l’amore matto e disperatissimo per Benito. E lui, come un giovane borghese perbene, un giorno chiese alla signora Giuseppina Petacci: «Mi permettete di amare vostra figlia?». La risposta, fatalista o furbastra e rassegnata: «Mi conforta l’idea di saperla vicina a un uomo come voi». La passione divorante di lei contagiò anche lui.

Fu amore vero, negli anni euforici del massimo fulgore per l’Italia mussoliniana. La fiamma esaltante durò, inevitabilmente, solo alcuni anni. Pesarono, senza cancellare del tutto il sentimento, le voci sul fratello di lei, spregiudicato faccendiere. Condizionò il comportamento del duce la reiterata richiesta della sua figlia amata, Edda: «Liberati di lei, ti scongiuro!».

Ma fu la storia a scegliere per loro. Come per tutti. Dopo il ‘38 si fece più inquieto lo scenario internazionale. Gli osanna filo-mussoliniani si attenuarono. La tragedia della guerra assorbì e avvilì l’animo del duce, ne ammalò il fisico. Anche Claretta ebbe un momento difficilissimo. Incinta, a causa di una gravidanza extra-uterina, perse il figlio, il frutto del suo amore che aveva in grembo. L’anno dopo morì Bruno, il figlio prediletto del duce, che ne risentì gravemente, sempre più addolorato e depresso.

La storia con Claretta era ormai di dominio pubblico. Lo scandalo quasi inevitabile.

Al punto che nell’ottobre ‘41 Pio XII incaricò personalmente il vescovo di Tripoli, Monsignor Facchinetti, amico di Mussolini, di chiedere al «diletto figlio» l’interruzione di quel rapporto. Il duce promise.

E il 20 maggio ‘42 scrisse all’amante: «Clara, il sacrificio che ho chiesto al tuo amore, più che alla tua sensibilità ed obbedienza, può essere ed è grande; ma torno a ripeterti che questo è necessario per chiarire tutto e riportare persone e cose ed eventi in una tranquilla luce. Torno a dirti che un giorno – presto, io credo – mi ringrazierai di ciò e sarai contenta di questa eclissi di una abitudine che ti era e mi era cara. Ti scongiuro di non vedere in quanto accade, altra cosa diversa da quanto il mio cuore ti disse. Riposati e guarisci. I miei nervi hanno bisogno di quiete e i tuoi anche. Quando l’orizzonte sarà sgombro di nubi, vi vedrai una fiamma che non si spegne e che queste lettere intendono: A.T.D.B».

Come un liceale innamorato dei giorni nostri alle prese con un sms, Mussolini si firmava languidamente A.T.D.B. (a te da Ben). Ma la tragedia era alle porte. Per lei, l’umiliazione di venire respinta dagli uscieri di Palazzo Venezia. Per lui, le disavventure belliche e il dramma del 25 luglio ‘43.

Privato e pubblico si intrecciarono fino a confondersi. Prima di recarsi dal re, dopo il voto del Gran Consiglio, la telefonata a Claretta che lo implorò, intuitiva come un uomo non può mai essere: «Non andare, non ti fidare. E guardati da Badoglio!». Aveva chiamato la sua donna anche tre anni prima, quando stava per affacciarsi al balcone e gettare l’Italia nel circolo cieco d’una guerra sbagliata.

Dopo l’arresto, e l’armistizio, nei mesi di Salò anche quel loro amore divenne strumento, quasi ostaggio di guerra. I tedeschi si servirono di Claretta per meglio e più da vicino controllare il duce, conoscerne le intenzioni, spiarne i pensieri.

Cosa restava, della fiamma più ardente, dell’ardore degli anni ruggenti? Così un testimone nel ‘50 ricorderà quegli incontri nella casa sul Garda dove i Petacci si erano trasferiti: «Qualche volta, sul far della sera, arrivava Mussolini [...]. Lui la guardava con tenerezza, le tendeva la mano, le diceva: «Buonasera, signora». Poi, con lei accanto, s’inoltrava verso il salone dove la principessa lo accoglieva sempre con un «Benvenuto, Duce».

A volte si tratteneva per la cena. Ma dire cena è esagerato. Sia la principessa sia Mussolini mangiavano come uccellini. Soltanto la signorina Claretta sembrava avere appetito. Si servivano minestrine, verdure lessate, un po’ di formaggio, la frutta. Dopo un po’ Mussolini salutava, Claretta lo accompagnava alla porta e lui raggiungeva a lunghi passi la scorta. Non ricordo di averlo mai udito trattare confidenzialmente la signorina».

All’inizio del ‘45 Mussolini predispose la partenza dei Petacci per l’estero. Lei non volle lasciare l’Italia e il suo Ben. Lo raggiunse a Milano, lo seguì a Como. Furono catturati separatamente dai partigiani, che li tennero assieme, fino al tragico 28 aprile.

Quel giorno, la mantenuta del duce consumò nella tragedia la sua rivincita: «Mi odiano perché lui mi ama. Perché la mia vita è tutta per lui». Era pronta, più dello stesso Mussolini, al sacrificio. Alla sorella Myriam, sua confidente: «Non lo abbandonerò mai, qualunque cosa avvenga. [...] Fa’ sì che sia finalmente detta la verità su di me, su di lui, sul nostro amore sublime, bellissimo, divino, oltre il tempo, oltre la vita».

Un partigiano, dopo la mortale raffica di mitra, le strappò dal collo un ciondolo d’oro. Dietro c’era scritto: «Clara, io sono te e tu sei me. Ben». A rileggerle oggi, quelle parole, si fatica a riconoscervi l’impronta della storia. Eppure... Forse è stata ancora più tagliente e spietata, la storia, con quella frase di Ben, che non sfigurerebbe stampata su carta velina, attorno a un bacio di cioccolato.

Mauro Mazza