» Lazzari Bice  
1900 - 1981
 


 

 
Foto cortesia Archivio Bice Lazzari, Roma  

Bice Lazzari nasce a Venezia il 15 novembre del 1900. All’età di 9 anni entra al Conservatorio Benedetto Marcello dove per mancanza di posti è costretta a studiare violino piuttosto che pianoforte come avrebbe desiderato. Dopo tre anni lascia il violino per incompatibilità con il tipo di disciplina allora richiesto, provando per un anno a studiare privatamente pianoforte ma dovendo poi rinunciare per ragioni di salute. La musica resterà comunque uno degli orizzonti di riferimento della sua creatività.

Rimessasi in forze tenta la strada dell’Accademia di Belle Arti che interrompe per un breve periodo quando la famiglia si trasferisce a Firenze, ma che riesce comunque a terminare al suo ritorno nella città lagunare nel 1918, diplomandosi con il maestro Augusto Sezanne.

Conseguito il diploma comincia la trafila dei suoi espedienti per rimanere libera di dipingere a suo modo ciò che vuole. La Lazzari infatti non è interessata all’accademismo che le è stato inculcato e al tipo di committenza che ne potrebbe scaturire.

Il suo desiderio di modernità, che non vive con ansia giovanilistica bensì come qualcosa di connaturato alla propria personalità, tuttavia, non la vede attratta neppure dal dilagante Futurismo; la interessa piuttosto l’Astrazione, di cui, sia pure in tono più dimesso nella sua città, ancora epicentro di cultura Mitteleuropea, giungono diversi segnali. Ne è riprova il fatto che pur proseguendo ancora a lungo le prove in un modo o nell’altro “figurative” (vicine di volta in volta a Mafai, De Pisis, Campigli o Sironi) i suoi primi tentativi astratti (1925-26) risultano straordinariamente precoci e slegati dal lavoro dei gruppi che, solo più tardi, si muoveranno compatti in tale direzione.

Il fenomeno appare ancora più singolare e ce la presenta, pur nel suo relativo isolamento, come una delle personalità più originali del momento se veniamo agli espedienti per sopravvivere di cui si è detto e che altro non sono che il cercare di procurarsi commesse nel campo delle arti applicate. I metodi sono quelli più comuni: all’inizio il partecipare ai concorsi Enapi (incentrati a Venezia soprattutto sul merletto e le stoffe) poi via via il contattare imprenditori e professionisti nei settori più disparati. Singolare è però il fatto che sin da subito nella decorazione la Lazzari instaura una serrata ricerca di ascendenza astrattista attenta alla migliore produzione europea (fra le cose più importanti si ricordano, il pavimento a Mosaico per il cinema Fiammetta a Roma del 1949, la decorazione del Caffè Aragno del 1950, gli arazzi e le decorazioni per la motonave Raffaello del 1964).

In tutta questa vicenda che la vede spostarsi tra Venezia, Milano, Torino e Roma, per stabilirsi poi definitivamente nella capitale le è vicino dal 1942 il marito architetto Diego Rosa, un compagno discreto e intelligente che non manca di introdurla negli ambienti culturali nei quali egli stesso riesce a farsi apprezzare come ad esempio quello del celebre Gio’ Ponti.

Arti applicate a parte, il lavoro artistico vero e proprio la Lazzari lo riprende nel 1949, anno a partire dal quale il suo curriculum registra una serie impressionante sia di collettive che di personali. La critica non manca mai di apprezzarla e gli scritti su di lei si susseguono con rarefazioni e addensamenti ma senza vuoti.

Ciò che invece dispiace è il fatto che il mercato e il tipo di fama che ne consegue non abbiano mai premiato adeguatamene l’artista, pur apprezzata e incoraggiata da colleghi come Cagli, Capogrossi, Licini o Melotti, un fatto che sembra, in ultima analisi, doversi attribuire proprio alla sua coerenza, a quella lucida umanità che le impedì sempre di assumere atteggiamenti squilibrati su un versante o sull’altro del processo di elaborazione dell’opera.

Dal punto di vista dei cicli di ricerca linguistica posti in essere dalla Lazzari possiamo egualmente porre al centro del discorso la coerenza del suo percorso che la portò, dopo la ripresa di cui sopra, da un astrattismo venato di poesia, ma mai dimentico del proprio interrogarsi strutturale, ad una impennata informale che ebbe anche un suo momento materico fino ad una astrazione più complessa e rarefatta che infine sfociò in uno studio delle strutture primarie vicino alle correnti più mentalistiche degli anni ‘70, ma non disponibile nei confronti di una riduzione spersonalizzante e parascientifica degli elementi articolatori e sintattici isolati.

Paolo Balmas