» De Stefani Livia  
1913 - 1991
 


 

 

Una siciliana aristocratica, priva di ogni caratteristica bohémien-ne, elegante e straordinariamente bella anche quando, ormai anziana e libera dall’“handicap” della bellezza, si rifiutava di colorare la folta e curata chioma bianchissima: questo il ritratto della scrittrice che viene fuori dalle foto, dalle testimonianze e dalle interviste.

Figlia di ricchi proprietari terrieri, trascorre l’infanzia e la prima giovinezza al riparo di un ambiente privilegiato, conducendo privatamente la sua formazione culturale.

A 17 anni, si sposa e si stabilisce a Roma: una vita coniugale serena, se non felice, allietata dalla nascita di tre figli, un maschio e due femmine, insieme a un uomo gentile e tollerante, di tutt’altri interessi, che considera un simpatico capriccio l’attività letteraria della moglie, un salto, tuttavia, rispetto all’ostilità della sua famiglia siciliana, la cui atavica mentalità vedeva l’artista come una persona di facili costumi, demoniaca, da seppellire in terra sconsacrata.

La sicilianità è la sua cifra: la Sicilia, anzi, la Sicilia occidentale, quella contadina, come quella aristocratica, come quella borghese e cittadina, è presente in ogni suo romanzo e racconto. E “il culmine della sicilianità” è quella follia isolana, “l’originalità di pensiero sconfinante nella follia” che accompagna tanti suoi personaggi e storie e rende “mitica” questa terra.

Il mito ancestrale di una terra pagana e cattolica, quello tragico greco e quello ispano-cattolico, la colpa e il castigo, è l’inesauribile fonte della sua ispirazione narrativa vissuta con disciplina quasi maniacale, perché il romanzo è “una fabbrica”, l’artista “un artigiano”, la scrittura “un mestiere”. La vigna delle uve nere (1953, premio “Salento” – opera prima) è l’esordio narrativo che rivelò la singolare personalità di una scrittrice non disponibile al conformismo letterario, sottoprodotto del neorealismo postbellico.

È una storia di incesto tra fratelli, di solitudine e abbandono e di innocenza primordiale, destinato a culminare nella tragedia: i richiami alla Bibbia, alla tragedia greca e alla favolistica, le conferiscono l’inconfondibile intreccio tra realismo e magia, tipico della “favola di magia”. Da qui il destino letterario di Livia, insieme al successo, è segnato in direzione di quell’analisi della malsanìa (un termine coniato sul siciliano e che sostantiva l’aggettivo italiano “malsano”), da cui sono affetti i suoi personaggi e che pesa su di loro come una maledizione, esplodendo ora come manifestazione di morbosità nel suicidio, ora come manifestazione di narcisismo, orgoglio di sangue e di razza, nell’omicidio.

E lo si vedrà subito nella raccolta di racconti Gli affatturati (1955, premio Soroptimist), dove la De Stefani trasferisce il dramma sul piano della deformazione grottesca, esasperata fino alla caricatura, con una visione tragicomica della realtà e una costruzione marionettistica dei personaggi che fa pensare a Pirandello e Rosso di San Secondo e costituisce l’altro versante della medesima cifra della sua schiacciante, ossessiva “sicilianità”, anche quando le storie non sono ambientate in Sicilia.

Se anche nel romanzo, Passione di Rosa (1958), di ambiente nuovamente paesano e contadino, si può scorgere l’influenza de Le terre del Sacramento di Francesco Jovine (postumo, 1950 – premio Viareggio), la scrittrice ha sempre rifiutato di aderire a moduli e lezioni correnti, costruendo un suo linguaggio capace di passare dal tono fortemente drammatico, a quello diretto e scabro, all’ironia, al monologo interiore e di trattare con levità anche temi da umorismo nero.

Dopo i racconti Viaggio di una sconosciuta (1963), la raccolta La Signora di Cariddi (1971) segna in un certo senso una svolta nel senso di una conquista, tardiva ma piena, della propria identità femminile, sviluppando l’analisi della società patriarcale e dei contraddittori sentimenti femminili nei confronti del maschio, idolo e carnefice a un tempo, di cui la donna è schiava. Ma, più che una svolta, si tratta di un approfondimento, di un cerchio saldato, come si vedrà anche nel libro La mafia alle mie spalle (1991), dove il fenomeno mafioso è spiegato alla luce di un mondo patriarcale, autoritario e feroce. E se già nella Vigna il tema era stato affrontato con grande offesa dei siciliani, per cui la scrittrice non aveva potuto tornare più per molti anni nella sua terra, si riconferma che la De Stefani a buon diritto poteva menare il vanto di «essere stata la prima in Italia a parlare del potere mafioso come di qualcosa che comporta un carattere particolare dell’uomo: violento, chiuso, autoritario e protettivo, con il culto del proprio potere e della sottomissione degli altri».

Mentre La stella Assenzio (1985) è l’ultimo frutto della sua produzione narrativa che, significativamente, si chiude con il catastrofico annunzio di un’imminente fine del mondo, rimane invece ancora tutta da scoprire la produzione poetica della De Stefani – che cominciò a scrivere in prosa a 40 anni e compose la prima poesia a 8 anni (Preludio, la prima raccolta, uscì nel 1940) – per la gran mole di inediti che attendono di vedere la luce.

Marinella Fiume