» Canino Elena  
1898 - 1957
 


 

 
Archivio Fotografico Fondazione 3M, Milano  

Elena Zegretti nacque a Roma nel 1898, proprio nel palazzo della Fontana di Trevi. Il padre, nativo di Anagni era un funzionario dello Stato, la madre era di Sassuolo. Visse fino a dieci anni nel rione Parione, il rumore della fontana accompagnava le sue giornate. Vicini di casa erano gli Ojetti, con cui i Zegretti, adulti e bambini, ebbero stretti rapporti d’amicizia.

Nel 1907 il padre fu trasferito a Spoleto, l’ambiente chiuso e severo della città è descritto nell’inedito Arco di Druso. Due anni dopo, un altro trasferimento, a Napoli. Il cambiamento fu radicale. La madre si lamentava, tirandosi su le gonne per proteggersi dalla polvere delle strade ripeteva «Affrica, Affrica», il padre penò ancora di più perché fu minacciato dalla camorra per avere avuto la pretesa di mettere ordine nella pretura di Napoli. Elena, invece, si ambientò facilmente (era una delle poche “licealiste” del Liceo Genovesi), adorò la città. Ancora un trasferimento, a Genova. Di Genova, dopo molti anni, Elena Canino ricordava di aver conosciuto Giovanni Ansaldo e le sue sorelle e gli otto nei temi d’italiano, invece dei dieci cui era avvezza a Napoli.

Nel 1915, quando la famiglia ritornò a Napoli, si iscrisse alla facoltà di lettere dove si laureò con il massimo dei voti. La tesi in archeologia le aveva valso un invito alla scuola archeologica di Atene, invito declinato, perché era all’orizzonte il matrimonio con Marcello Canino, già noto architetto napoletano. Dal 1924 visse a Napoli, dove abitò in Piazza San Domenico Maggiore, poi al Vomero Vecchio, a Villa Salve che durante la guerra fu requisita dagli inglesi per farne la sede dell’Intelligence Service. La famiglia Canino si trasferì a Sorrento. Elena imparò l’inglese e tradusse Robert Nathan, Fitz Gibbon, Kenneth Walker. Racconta la figlia Isabella che la traduttrice debuttante si era rivolta a Bompiani con lettere patetiche: «Volevo tanto entrare nel suo areopago e fregiarmi della sua stella». Allora le risposero picche (in seguito pubblicarono).

Fu Giovanni Ansaldo a presentarle Leo Longanesi. Un colpo di fulmine. Per Longanesi, nel 1952, scrisse La vera signora, pendant femminile del Vero Signore, galateo di grande successo che Ansaldo, con lo pseudonimo di Willy Farnese aveva scritto nel 1947. La coppia di piccoli capolavori fronteggia il cambiamento delle buone maniere, sgominate, disfatte, travolte dalle guerre e dalle rivoluzioni del ‘900. «Impossibile costituire repubbliche che durino, con popolazioni di sguaiati e di scamiciati», assicurava Farnese-Ansaldo. Anche Canino la pensava così.

Fermamente, credeva nell’emancipazione femminile non esagerata. La corroborò con la sontuosa parata di detti memorabili pronunciati da ave nobilissime senza sussiego, come sfilandosi dal piede una scarpina. Dal capitolo “Lettere d’amore”, incipit: «Sono per gli uomini niente altro che sofferenze. Raramente le donne sanno limitarsi ad una letterina dove l’amore guizzi qua e là come una vispa mascheretta che salti fuori a capriccio e la penna con cui scrive ora se l’infili sul cappello e ora le serva per fare il solletico al gatto». Il quesito, stabile nei secoli – «Richiederle o lasciarle in mani ormai divenute indifferenti o nemiche?» – meritava la risposta senza transazioni di Madame du Deffand a Walpole: «Bruciatele e vi ci riscalderete tutto un inverno». La regalità della “vera signora” caniniana è di sostanza spirituale e di apparenza medita ta. Dalla testa ai piedi.

Ci si può chiedere se l’Elogio del cappello (L’Eva di Cranach inaugurò il cappello nel paradiso terrestre ancor prima di pensare alla foglia), voglia auspicare la sua diffusione verso il basso e dunque la sparizione dell’arcaico fazzoletto («perché lo si continui a portare non si capisce»). Canino soffre o esulta, caso per caso, capo per capo, della democratizzazione italiana delle apparenze. Lei che a Capri fu primadonna in pantaloni, applaudì al nuovo, purché adottato con prudente misura, indossato con bennato pudore, sempre dosato dal salvifico «Bello, bellissimo, ma non adatto a me».

Dalla fine degli anni Quaranta aveva cominciato a collaborare al Giornale di Napoli diretto da Carlo Zaghi che con un minimo compenso (quaranta sterline) l’aveva inviata in Inghilterra per scrivere di costume, cultura e società dal paese vincitore. Scrisse anche per Giornale d’Italia, per La Fiera Letteraria, per Il Gazzettino di Genova, ma soprattutto per Il Borghese. «Urgemi articolo», telegrafava Longanesi, entusiasta delle sue corrispondenze dall’America, nei primissimi anni Cinquanta. Fu Longanesi a suggerirle di pubblicare il romanzo in forma di diario che aveva cominciato a scrivere durante lo sfollamento a Sorrento. Clotilde fra due guerre è uno dei rarissimi romanzi femminili di formazione della letteratura italiana del Novecento.

A buon diritto sta accanto a Cosima di Grazia Deledda e a Nessuno torna indietro di Alba de Céspedes. Clotilde, la protagonista, scrive il suo diario dal 1915 al 1943. Due guerre e il regime fascista. Famiglia, amori, amicizie, liceo, università, borghesia, aristocrazia, popolo, i Nitti, gli Ansaldo, Starace, il Duce, Ghita Carrel, il costo di un paio di scarpe, di un filetto sospirato, di una permanente contrastata, il salario di una domestica fascistizzata. Un grande ricordo letterario, scarno, mai immobile, che raccoglie la quintessenza della giovinezza di una ragazza borghese. Nata tardi come scrittrice, Elena Canino, morì a Napoli nel 1957, proprio nei giorni in cui usciva il suo primo romanzo.

Michela De Giorgio