» Brin Irene (Maria Vittoria Rossi)  
1914 - 1969
 


 

 
Irene Brin nel 1951 fotografata da Karin Rodkai per Harper’s Bazaar  

Un pomeriggio del 1950, Irene Brin passeggiava tranquillamente per Park Avenue a New York con indosso un cappello di Fath e un tailleur di Fabiani. «Dove l’ha preso, di chi è?» le chiese un’anziana signora fermandola, con aria distaccata e una certa sfacciataggine. Era Diane Vreeland, direttrice di Harper’s Bazar.

Fu così che cominciò la fortuna della moda italiana negli Stati Uniti e l’ironica collaborazione di Irene Brin, giocatrice di talento e coraggiosa scommettitrice sulla vita, a quella rivista le cui firme erano – tra l’altro – Truman Capote, Carson McCullers, Cartier Bresson e la cui influenza era decisiva per la mescolanza dell’alta moda con l’avanguardia culturale, tra costume elitario e innovazione anticonformista. Le sue recensioni sulle sfilate di Federico Forquet («È il Dior Italiano») di Emilio Pucci e delle Sorelle Fontana, in un periodo dove il concetto del made in Italy era inesistente poiché la moda era solo francese, servirono come trampolino di lancio per il famoso defilé del 1951 in casa del marchese Giovanni Battista Giorgini, che diede inizio alla tradizione fiorentina a Palazzo Pitti.

Cattolica praticante, socialista, appassionata divorzista, leggeva almeno un libro al giorno «con la voglia di identificare l’aria del proprio tempo nelle cose marginali o mediocri che sono esperienza di tutti più che negli eventi storici, teatro dei leaders». L’arroganza e l’allegria erano la sua divisa. Parlava cinque lingue e viaggiò molto seguendo anche il marito nella guerra in Jugoslavia e durante il bombardamento in Sicilia.

Lavoratrice instancabile, scriveva ovunque buttandoci anima e corpo; anche a letto, in tassì e nella vasca da bagno come la fotografò Karin Rodkai nel 1951 per Harper’s Bazar e come la ritrasse, scherzosamente, Steinberg.

Lo stile di Irene Brin era famoso, deplorato dal moralismo marxista, irriso dal populismo dell’epoca, imitato negli anni Sessanta della sprovincializzazione italiana: un linguaggio asciutto, condensato, esatto e insieme brillante, eccentrico, spiritoso; una scrittura chiara, bella, nervosa con riferimenti culturali precisi. Un’informazione non provinciale, cosmopolita e lo sguardo analitico capace di cogliere nelle persone e nei detta gli l’eloquente esemplarità del tempo, di conservare il costume per la Storia.

Irene Brin era lo pseudonimo di Vittoria Maria Rossi, datole da Leo Longanesi all’inizio della sua collaborazione con la rivista Omnibus. Divenne quasi la sua vera identità anche se i nomi d’arte scelti saranno numerosi quanto le molte facce della sua personalità che dominavano e sbaragliavano tutti con opinioni a sorpresa (1932 Marlene, ‘34 Odane, ‘36 Mariù, ‘38 Marina Turr e Geraldine Tron, Maria del Corso, ‘40 Vida, Ortensia, Contessa Clara, Madame d’O, Cècil Alighieri). Nata nel 1914 a Sasso, una cittadina vicino a Bordighera, era figlia di un generale dell’esercito italiano e di una madre ebrea austriaca che le insegnò ad amare profondamente l’arte e la letteratura.

Di grande bellezza, elegante, eccentrica, aristocratica, formidabile lettrice, lavoratrice instancabile preferì la stampa alla produzione letteraria. «Al narcisismo egotista della letteratura il servizio altruista del giornalismo, alla presunzione d’immortalità la certezza della contemporaneità, all’espressione romanzesca di sé il romanzo dei personaggi della realtà».

Ad un ballo all’Hotel Excelsior di Roma aveva incontrato un giovane ufficiale nato in Eritrea, Gasparo del Corso. In seguito a una conversazione su Marcel Proust e dopo solo quattro incontri, decisero di sposarsi. Lui era un appassionato d’arte, gran collezionista, lettore curioso e viaggiatore entusiasta.

Insieme, girarono il mondo con occhi anticonformisti, aperti ad ogni diversità culturale per poi fermarsi a Roma nel 1943. Gasparo, in fuga dall’esercito per evitare di fare la carriera militare, aveva portato a casa trentasei persone, tutte latitanti per varie ragioni. L’unico sostentamento per quelle trentotto persone erano le traduzioni d’Irene, che però diminuivano man mano che lei interrompeva i rapporti con gli editori passati sotto il controllo dei tedeschi. Per incassare qualcosa, decise di vendere i regali di matrimonio. Oltre a una bellissima borsa di coccodrillo, mise in vendita anche qualche disegno di Picasso, Matisse, Morandi e una grande collezione di libri d’arte.

Imparò il mestiere di gallerista d’arte alla scuola di Federico Valli, che negli anni della guerra ne aveva aperta una di fronte all’attuale cinema Fiamma: “la Margherita” mentre Gasparo, aiutato da Alberto Savinio che gli aveva procurato nel frattempo una falsa identità, la sosteneva trovando materiale e compratori. Un giorno passò di lì un ragazzo che le offrì dei bellissimi disegni, venduti in giornata.

Si chiamava Renzo Vespignani. Dal quel giorno, Irene si manifestò non solo una brillante scrittrice ma anche una straordinaria donna d’affari. A guerra conclusa, ideò insieme al marito la galleria d’arte romana al 146 di Via Sistina, “L’Obelisco”, che attirò le avanguardie culturali del momento bersagliando le retroguardie e divenne, in poche parole, una delle più eccezionali imprese artistiche e culturali del Ventesimo secolo. Contribuì ad aprire la via a quella che oggi chiameremmo “mondo dell’arte”, ai nuovi media, agli artisti emergenti e a sistemi inediti e anticonvenzionali di valutazione. Con lo stesso entusiasmo riservato agli artisti di punta italiani, importò le opere di Robert Rauschenberg, Francis Bacon, David Hockney, Alexander Calder, Saul Steinberg nonché molti dell’avanguardia brasiliana tra cui Flavio de Carvalho e Sergio Camargo.

Irene Brin scrisse per una quantità incredibile di quotidiani e riviste. Per citarne alcuni: Il Lavoro, Il Tempo (1939), Il Messaggero (1949), Il Mattino (1951), il Corriere della Sera (1952), Omnibus (diretto da Longanesi, 1937-38), Il Secolo Illustrato (1938 La Posta dei Timidi), Domus (1950), La Settimana Incom (diretta da Luigi Barbini jr. dove Brin si firmava Contessa Clara), L’Europeo, Annabella, Harper’s Bazar (1950), Bellezza (1950-60). Nonostante schivasse il mondo letterario scrisse alcuni libri fantastici, recentemente ripubblicati da Sellerio.

Il più divertente è Usi e costumi (1920-1940) che raccoglie come in un dizionario, sotto le voci più varie, le sue annotazioni sulle manie femminili di quegli anni con uno stile veloce, ironico, e osservazioni puntuali, capaci di illuminare un’epoca. Donne con monocamere o case cariche di tendaggi in mezzo all’odore di saponette, di gin e di whisky.

“Le ragazze” è una delle voci: «Davvero un malinconico furore di vita animò le adolescenti del 1920 in una confusione dove il coraggio delle Crocerossine, la futilità delle madrine, l’indipendenza delle americane guidatrici di ambulanze, la frivolezza o la desolazione delle madri, si accordavano per creare inquietudini dense di fretta, d’insolenza... Un impiego possibilmente pittoresco, segretaria di attore cinematografico, giornalista, disegnatrice di figurini, manichina, grafologa, rappresentante di commercio, ballerina, anche; una stanza con ingresso sulla scala, e possibilmente a Parigi, o a Londra, o a New York, con bagno e cucinino confinati negli armadi; un’automobile o una moto, utilitarie; la possibilità di bere dello champagne appiccicoso e del whisky di legno, ogni sera, in qualche locale notturno frequentato da negri e tempestato di palline in cotone e di coriandoli; ecco tutto, e solo per fraterna tenerezza non nominiamo le illusioni d’amore che completavano questo sogno di ragazza moderna. Le mode eccessive le trovavano pronte all’imitazione e all’esagerazione, ebbero il sarcasmo facile, e la riflessione difficile. Marie Claire, il loro organo ufficiale diffondeva, inutilmente, esortazioni alle marmellate o al ricamo: anzi le provviste in scatola di latta e i collettini di organdi in serie furono parte principale dei loro sogni, e i film americani accrescevano la falsità di un costume sproporzionato tra le apparenze, e la realtà della vita quotidiana».

Irene presenta anche lei nel libro una galleria di donne, sotto il titolo “Le protagoniste”. Si tratta di donne dell’alta società, eccentriche, ricche, di cui si parlava allora, l’equivalente delle attuali attricette, che in fondo incarnavano i miti delle ragazze di cui si è parlato prima: La Regina di Romania, Lady Mendl, la contessa Dorothy Dentice di Frasso (pigmaliona – se si può dire – di Gary Cooper), Amalia Guglielmetti (poetessa), madame Martinez de Hoz, Lucienne Boyer, Greta Garbo, Odette Pannetier (giornalista di Candide), Anne de Noailles (nata principessa Bibescu-Bassaraba de Brancovan), «di grande famiglia quasi orientale per nascita, di gran famiglia francese per matrimonio, scandalizzò deliziosamente il Faubourg, dimenticandosi le sue sottovesti, e apparendo splendida fra i tulle trasparenti; citava Platone invece di dire buongiorno.

Un’estasi piacevolmente comprensibile raggiava da lei, dai suoi amori, dalla sua poesia. Faceva l’amore, faceva i sonetti: il primo sembra, le importò meglio dei secondi, ed incontrando un giorno un amica, davanti all’ascensore di casa chiese, con gravità “Que ferons nous, ma bonne, lorsque nous ne pourrons plus faire l’amour? C’est bien simple, nous ferons kara-kiri”, e in ascensore si librò pronta verso il cielo. Purtroppo non fece kara-kiri: divenne cavaliere della legione d’onore, divenne vecchia, ed ansiosa di giovinezza, lasciò decorare il suo castello di lettucci sospesi in ferro, di seggiole a tubo, si tagliò i capelli, scrisse, morì».

Marta Palmer, Marie Laurencin, Manette Lydis, Paola di Ostheim, principessa di Sassonia Weimar (scrittrice che conobbe D’Annunzio), Chanel, Marta Abba, Gertrude Stein, Elsa Maxwell, Andrée Caron (Odette), Muriel Philipps Pawley, Clara Bow: «Nei suoi film impersonava sempre una ragazza piacente anche troppo, e, per colpa dei suoi capelli e del suo sorriso, costretta a difendersi dalle insidie dei vilains temibili. Alla fine, la virtù trionfava sempre, e si supponeva che la sua vita privata, nonostante i divorzi, le fughe, gli abiti audaci avesse sempre conclusioni rassicuranti.

Invece la sua segretaria, per ricattarla, pubblicò lettere, diari e documenti che la rivelarono interamente corrotta. Ninfomane, lesbica, alcolizzata: dovette intervenire Hearst, il custode del Buon Costume Americano, per imporre il silenzio, e Clara, ufficialmente salvata e coperta, finì la sua carriera di attrice. Ebbe naturalmente la domestica a mezzo servizio, negra, le piatte bottiglie di whisky falsificato, la miseria, grassa, cardiaca, solitaria». Amy Mollison «la dattilografa volante, vinse una quantità di primati, e sposò un aviatore. Ma dovette divor ziare, quando ebbe battuto un record di suo marito, che non le perdonò di aver compiuto il raid Londra-Città del Capo in tempo minore. Divenne poi collaudatrice di apparecchi militari, e, durante la seconda guerra mondiale, si fece fotografare spesso ai fini della propaganda».

Mrs. Massie violentata da un chitarrista durante una vacanza a Honolulu, il marito e la madre si vendicarono uccidendo il colpevole e verranno condannati a un’ora di carcere da trascorrere in casa del governatore; Sophie Tucker (cantante), Isa Miranda «dattilografamilanese [...]. Il suo nasetto irregolare è divenuto per pura forza di coraggio, il tratto più ammire vole e toccante di un viso ormai celebre tra le folle», Catherine Mansfield, Mae West, Jane di San Faustino che pubblicò le sue memorie su Omnibus mettendo in apprensione tutta l’aristocrazia, la baronessa Kaiser, Ludmilla Pitoeff «la massima attrice del nostro tempo», Frieda Lawrence, l’attrice Costanza Bennet. Sono le donne irragionevoli, impulsive, assolute di Irene Brin.

Gaia de Beaumont