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«Per rappresentare la dialettica servo/padrone non c’è bisogno del Lager, per raccontare il Lager non c’è bisogno di inventare una storia d’amore tra carnefice e vittima» diceva Lidia Beccaria Rolfi, partigiana piemontese deportata nel campo nazista di Ravensbrück. Alla prima del Portiere di notte si era risentita di fronte alla rappresentazione del rapporto fra l’ex deportata Charlotte Rampling e l’ex SS Dirk Bogarde.
Non aveva dimenticato il suo ritorno, quando tanti pensavano che le donne fossero state deportate per lo svago dei soldati tedeschi, esempio estremo del sospetto che circonda sempre la prigionia femminile; e aveva in orrore il repertorio di fantasie sadiche cresciuto rapidamente intorno al binomio SS/prigioniere.
Maestra elementare di famiglia contadina, nel 1945 Lidia è una ragazza ardita e vulnerabile, un’antifascista esistenziale avida di cose fresche e nuove. Ma sui libri di testo rifatti in fretta e furia trova al posto dei balilla una schiera di orfanelli poveri, tristi e operosi, al posto delle storie di guerra storie di santi; negli uffici si scontra con i vecchi funzionari del regime. Non entra in nessun partito, frequenta tutte le riunioni politiche, lavora per 100 lire al giorno alla Camera del lavoro.
Riprende a insegnare. Al momento di partire per una scuoletta in cima alle Langhe, è «pronta a violare subito la nuova legge dell’Italia libera» – fraternizzando con i genitori degli allievi, leggendo troppi libri e giornali politici, trascurando le preghiere in classe. In più – bella, bionda, minuta, penetranti occhi castani – si trucca e porta i pantaloni, fuma, non va in chiesa, balla alle feste dei coscritti. Per la gente del paese è una persona cara. Per i benpensanti di campagna e di città, una strana ragazza che deve aver avuto una strana esperienza in Germania.
Presto si accorge che anche tra gli antifascisti di deportazione si sa poco, e quella femminile non interessa proprio. «Deportata? – la apostrofa un comandante della sua zona – le partigiane si fanno uccidere, non si fanno prendere prigioniere». Tempo qualche anno, impara a contrattaccare in vari modi. Insieme a Anna Maria Bruzzone scrive Le donne di Ravensbrück, la prima opera analitico/narrativa sulle deportate politiche, uscita nel ‘78 e all’indomani già un classico e un battistrada per altre ricerche; sull’atteggiamento con cui i suoi compagni di partigianato l’accolgono al ritorno da Ravensbrück, dice parole essenziali: «Quando tu tentavi di raccontare la tua avventura, tiravano sempre fuori l’atto eroico: “... però noi!” I tedeschi li avevano ammazzati loro, i fascisti li avevano fatti fuori loro... e noi eravamo prigionieri...» – dove l’ironia prende di mira, insieme all’autocelebrazione, i valori celebrati: orgoglio militare, enfasi sulla morte, primato del combattente in armi. Per Lidia, a qualificare la resistenza non sono gli strumenti con cui la si pratica.
Per quasi 30 anni si dedica a far conoscere la prigionia delle donne e a correggere il clima che l’ha tenuta ai margini. Grande disturbatrice, la battaglia contro fascismo e negazionismi non le impedisce di criticare l’equazione resistenza = lotta armata, che oscura ogni altra forma di opposizione antinazista, a cominciare da quelle attuate in Lager; di strapazzare gli amici deportati per il loro maschilismo; di imporre la presenza femminile nelle sedi più restie. Cuore vigile, prende posizione contro i crimini del presente, convinta che compito dei sopravvissuti sia testimoniare il Lager e insieme farsi portavoce di tutti gli oppressi, in primo luogo dei meno ascoltati.
Muore nel ‘96, subito dopo aver pubblicato il racconto del suo ritorno – non una parola sprecata né una mancata, nessun eufemismo linguistico e politico: era il suo modo di raccontare, che ha portato in tante scuole e in tante occasioni pubbliche. Lavorava da anni a un libro sull’infanzia sotto il nazismo, dove accanto ai bambini dei ghetti e dei lager dovevano trovare posto gli scolari e scolare tedeschi violentemente socializzati alla guerra e alla riproduzione, i bambini uccisi nella cosiddetta “Operazione Eutanasia”, quelli vittime dell’“Operazione Lebensborn”. Non riuscirà a completarlo; ma dopo il Lager – diceva – era stata tutta vita regalata.
Anna Bravo