» Abba Marta  
1900 - 1988
 


 

 
 Foto cortesia Archivi di Teatro Napoli - Bibilioteca Nazionale di Napoli-Sezione Lucchesi Palli  

Quando si incontrarono, Marta non aveva ancora 25 anni e Pirandello doveva compierne 58. Il Maestro l’aveva scritturata senza conoscerla, perché la giovane attrice, che si era distinta tra gli allievi dell’Accademia dei Filodrammatici, era stata lodata da Marco Praga, il più difficile dei critici: «Io arrivai a Roma accompagnata da mia madre. Era il primo viaggio verso una compagnia con la quale avrei poi dovuto fare una tournée. Sul palcoscenico vidi alcune persone nel semibuio. E una con i capelli d’argento, il pizzetto bianco, piuttosto curvo. Io entrai in palcoscenico e qualcuno disse: è Marta Abba. Pirandello allora scattò dalla poltrona e mi venne incontro con quella sua stupenda vitalità: non pareva vecchio! Mi strinse ripetutamente la mano e mi disse: benvenuta, signorina, siamo contenti che sia arrivata». Qualche giorno prima, il 7 febbraio del 1925, Pirandello le aveva inviato una lettera di poche righe. E fu la prima di 560 noiosissime lettere che le scrisse sino al 1936, sino alla morte. Marta gli rispose 238 volte.

E diciamo subito che non sono lettere d’amore, «muojo perché non so più che farmene della vita», «in questa atroce solitudine non ha più senso vivere, né valore né scopo», insomma non sono lettere che appartengono al raffinato genere di Kafka a Milena o di Majakovsij a Lili Brik, ma sono i poveri sfoghi di un grandissimo letterato, «non trovo più requie e sento che mi manca il respiro», sono i fantasmi sessuali di un protagonista del Novecento che ora immagina Marta “a letto” ora vorrebbe sapere la musica «per esprimere questo tumulto di vita che mi gonfia l’anima e il cuore», sono il suo desiderio deviato, sono il suo seme sublimato.

Murata nella memoria di Pirandello, Marta Abba gli permise di scrivere per lei e secondo lei, ma non divenne mai la sua amante. E nessun dottrinario del sesso potrebbe sul serio dimostrare che se Marta lo avesse amato davvero, Pirandello non avrebbe scritto i Giganti della montagna e le tante preziose opere che prima in vita le donò, e poi le lasciò in eredità. È vero che Marta divenne l’arcigna e avidissima custode di tutto quel ben dell’intelletto, opponendosi a ogni rappresentazione teatrale che non le fosse ben pagata, frequentando i tribunali fino alla morte, il 24 giugno del 1988, alla vigilia del suo ottantottesimo compleanno, cinquantadue anni dopo la morte del Maestro. Ma perché non avrebbe dovuto approfittarne?

Donna pratica e concreta, Marta non fu mai la diva moderna e carnale o una di quelle futuriste che già promuovevano il diritto all’orgasmo e che aveva conosciuto da ragazza. Anzi, più il Maestro si rivoltava in quel suo “petrarchismo”, più egli subiva ed esibiva i turbamenti del corpo frustrato, l’insubordinazione del desiderio, la fame di lei, e meno Marta gli dava retta. Più la sua passione diventava affettata e teatrale e più lei diffidava e si allontanava, più lui si disperava più lei capiva che dietro tutte quelle parole Pirandello non amava nessuno, cercava il rapporto di testa con se stesso e mai con una donna vera.

E infatti nel loro famoso epistolario Marta non risponde mai, neppure ad uno solo dei languori mortali di Pirandello. Egli fa la cronaca della sua disperazione, canta la felicità dell’infelicità, l’avvilimento dell’anima umiliata e Marta, sempre dandogli del Lei e chiamandolo Maestro, risponde elencando mille questioni pratiche: soldi soprattutto, ma anche attori, compagnie, viaggi, raffreddori... E non è una prova d’amore alla Stendhal quella di Marta, non è una maniera di spingerlo a rinunziare al desiderio per meglio corrispondervi, la sua è una vera indifferenza. Marta non lusinga e non eccita, non gioca, come si dice, al gatto e al topo, semplicemente ignora l’erotismo di quell’innamorato infelice e premuroso. Ma vi intravede dei tesori, diventa la padrona del suo teatro, e dunque della sua vita, gli impone di scritturare sua sorella Cele, gli ordina modifiche, è rigorosa e dispotica: «[... ] l’ho letta due volte. Finale primo atto qualche lievissima modifica e anche nel finale del secondo, più rapido. Terzo atto a me pare giusto. Tuda non ha espressioni felici e chiare soprattutto per essere così tronche; a mio avviso andrebbe più svolta l’ultima battuta, (la rileggerò ancora)».

E va bene che la critica letteraria italiana è autoreferenziale e spesso gratuita, ma è davvero ridicola l’idea che su una sola, piccola frase di un lettera scritta da Pirandello nell’agosto del 1926 si sia costruito il mistero di un rifiuto del corpo in nome dell’immagine, di un trauma, di un evento drammatico, di un fiasco, di avances respinte in una camera d’albergo, più alla Feydeau che alla Pirandello, e tuttavia pretesto per interminabili, complicatissimi, pirandellismi psicoanalitici sulla donna e la letteratura, sul romanzo d’amore tra il Maestro e la sua Musa. Ecco la frase: «Non domando più altro tempo, oltre a quello che mi bisogna per finire i lavori che ancora mi restano da scrivere; perché sento come obbligo imperioso della mia coscienza che debbo scriverli. Senza questo chissà dove sarei a quest’ora, fin da una atroce notte passata a Como». Ebbene su questo unico accenno alla “atroce notte” sono stati scritti chilometri di sapienti scempiaggini. Sino all’idea che nell’atroce notte di Como sarebbe stata lei a provarci e lui a respingerla, lui puritano al punto da negare il saluto alle donne adultere, lui fedele a un moglie che lo accusava di infedeltà.

Pirandello fedele a una moglie che lo vedeva infedele era dunque pirandellianamente infedele? Come si sa la moglie, pazza di gelosia, si ammalò gravemente di nervi. Aveva scritto Pirandello all’amico Ugo Ojetti il 10 aprile 1914: «Ho la moglie, caro Ugo, da cinque anni pazza. E la pazzia di mia moglie sono io – il che ti dimostra senz’altro che è una vera pazzia». Il Gengé di Uno, nessuno e centomila si inginocchierà davanti alla pazzia, battendo tre volte la fronte sul pavimento: «Tu, non io, capisci, davanti a tua moglie, capisci? dovresti star così! E io, e lui, e tutti quanti, davanti ai così detti pazzi, così!».

Molto sagacemente il grande comico Ettore Petrolini portò in scena il seguente dialogo, parodia del pirandellismo: «Tradendo te non ho tradito te perché quel che di me tradiva te era il me che tradiva un altro te, non te dunque bensì un te diverso da quel me che amava te perché infine io ero un altro io e non credo più d’essere io, io». «Ferma pupa! Vallo a raccontare a Pirandello, per me restano corna».

Persino Leonardo Sciascia sposò l’idea che nell’atroce notte fosse stato Pirandello a respingere una presunta Abba mangia-uomini della quale non esiste alcuna traccia biografica, neppure sotto forma di pettegolezzo. Della Abba non si conosce infatti nessuna storia sentimentale negli anni in cui fu vicina a Pirandello. Morto il Maestro, Marta sposò nel 1938 un ricchissimo petroliere americano dal quale divorziò dopo 14 anni di matrimonio, quasi tutti trascorsi a Cleveland. Di questo matrimonio non volle mai parlare, e quando, durante le interviste, le chiedevano del divorzio, si limitava a rispondere portandosi la mano sul viso, con un gesto d’orrore, benché quel divorzio le avesse fruttato un enorme patrimonio finanziario.

Ebbene, la misoginia di Sciascia, un grande autore siciliano che non è riuscito a creare una sola figura femminile di rilievo, si spinge al punto da negare la bellezza della Abba. Racconta infatti di averla vista in un film e di non aver capito come Pirandello avesse potuto descriverla così: «È giovanissima e di meravigliosa bellezza, capelli fulvi, ricciuti, pettinati alla greca, la bocca ha spesso un atteggiamento doloroso, come se la vita di solito le desse una sdegnosa amarezza; ma se ride ha subito una grazia luminosa, che sembra rischiari e ravvivi ogni cosa». E in effetti basta un’occhiata alle fotografie per capire subito che Marta era davvero molto bella, molto solare, pochi feticci e molta normalità, l’italiana bella e tradizionale, educata per un uomo e per l’amore, e non per un genio che mentiva, esagerava, pirandelleggiava, e che nel luglio del 1928 ancora le scriveva da Nettuno il suo schifo per la carne: «Poi sono sceso un po’ alla spiaggia. Che carnajo. Certe donne... Pigiati tutti – uomini e donne – in quel po’ di rena sporca, pasticciata. Certe scene! Certe esposizioni! Me ne sono risalito alla mia terrazza, stomacato».

Probabilmente se l’avesse amato, fisicamente amato, di Marta Abba nella memoria collettiva non ci sarebbe traccia. Anche se è probabile che abbia rimpianto di non averlo amato. Di sicuro, dopo la morte del Maestro, si convinse che l’amore disperato al quale non aveva creduto e ceduto era invece fatto di poesia e di verità. Perdeva così tutte le sue sicurezze di donna e infatti, senza Pirandello, perse anche la grandezza di attrice. Ogni tentativo di tornare in teatro divenne patetico e, ridotta su una sedia a rotelle all’età di 86 anni, si esibì per l’ultima volta su un palcoscenico leggendo brani scelti di quelle lettere, vendendo dunque come amore le febbri divoranti e le crisi di follia erotica che saggiamente aveva respinto.

Ma avrebbe potuto amarlo? Solo se non fosse stata così perfettamente italiana, figlia di un commerciante milanese tanto prudente e abile nel coltivare il reddito quanto sprezzante per le bizzarrie del genio, diffidente verso quel vecchio tormentato che “impegnava” sua figlia, e insofferente per qualsiasi forma di pirandellismo. Solo se non fosse stata la perfetta borghese italiana, educata a non darsi se non per amore, a non cadere nelle trappole del maschio, a riconoscerne gli eccessi retorici e dunque a diffidare di tutto quell’armamentario dello strazio che in realtà nega l’amo re proprio mentre lo grida: «Tutta la mia vita sei tu», «senza di te, Marta mia, sento che muojo».

Ecco come Luigi Capuana descrisse Pirandello: «Biondo, con barbetta da Nazareno, capelli un po’ lunghi e, spinti all’indietro sotto un cappello da castoro a larghe tese, aveva nella svelta, signorile persona e nella espressione del viso quasi pallido, qualche cosa che non faceva indovinare in lui un siciliano». Ebbene, se non fosse stata la donna italiana che va al sodo e si nega al sesso, Marta Abba avrebbe riso del vecchio ma affascinante Pirandello, del suo sguardo spiritato e della sua magniloquenza, del suo presunto moralismo e della sua pretesa castità etica. E una bella sera d’agosto, ironica e seducente come negli anni Trenta furono appunto le dive di Hollywood sue contemporanee, avrebbe “preso” il suo inagrissimo Maestro; come in uno spot della Campari gli avrebbe fatto saltare con due dita il cappello da castoro a larghe tese, e tutto sarebbe finito lì, in una di quelle due camere comunicanti che negli alberghi l’attrice divideva con lui.

Francesco Merlo