» Merz Marisa  
1928
 

 

 
Ignoto - Tito Speri (1825-1853). 1852 circa - Musei Civici Milano  

Marisa Merz è nata nel 1928 a Torino dove vive tutt’ora. È artista come suo marito Mario Merz, di cui usa il cognome, da quasi quarant’anni. In un sodalizio eccezionale, a volte conflittuale per chi li conosce da vicino, Mario e Marisa, entrambi legati all’Arte Povera, rappresentano due destini poetici distinti ma sempre più dialoganti (rendendosi reciproci omaggi nelle loro recenti mostre).

A metà degli anni Sessanta Marisa cominciò a creare “cose”, per sé, rifiutando di scegliersi un ruolo. Ancora nel ‘75, mi rispondeva in un’intervista: «L’artista è un ruolo stabilito, come la moglie, il figlio. Ma io non ci sto mica in questi ruoli, ruoli separatori, elenchi [... ]. No, non c’è mai stata separatezza tra il mio lavoro e la mia vita». Quelle prime opere erano strani grovigli di lamiera d’alluminio rutilante, «sbocciati» come conchiglie, appese al soffitto in casa. C’erano anche ciotole riempite d’acqua salata, lasciate così finché, dopo la lenta evaporazione, rimaneva solo «il sale che trasuda» dalla ceramica sotto forma di cristalli... per cui, dice la Merz, «la scodella è tutto il mare». Inoltre creava “scodelle” fatte a maglia con filo di nylon o di rame, che diventavano scarpette da ballerina, da bambina. Infine altre pezzette lavorate a maglia, piatte e quadrate, venivano montate al muro, leggermente staccate, raddoppiate dalla propria ombra proiettata. Quell’attività multipla era tutta legata allo spazio domestico: “lavoro da casa”, diceva lei, sincera e provocatoria.

Come avviene in molte carriere di artiste donne, il suo tempo è discontinuo, per via dell’intreccio lavoro/vita e delle priorità di volta in volta spostate (sul “sistema nervoso”, sul silenzio). Ma queste interruzioni sono soprattutto apparenti, comunque mai rimpiante, anzi vissute come intervalli fertili. Nell’intervista già citata, raccontava della prima infanzia della figlia Beatrice: «Allora mi sono fermata. Seduta su questa poltrona, due anni seduta. Mi alzavo solo per Bea. Non facevo più lavori d’arte.

Ho imparato tanto da lei. In questi due anni, ferma, ho voluto vedere il mio “sistema nervoso”, il tempo di scoprire di essere “fuori tempo” e «così felice, finalmente». Per via di questo essere “fuori tempo”, le “uscite” della Merz sono state rare nel primo decennio, a parte alcune collettive.

In realtà, Marisa Merz lavora sempre, “crescendo” nuovi pezzi come ha cresciuto i cristalli di sale, spaziando oggi dal disegno alla scultura (cera, paraffina, argilla non cotta completata con foglio d’oro o rame o l’acqua).

Il critico Tommaso Trini evoca la loro condizione “prefigurale” (come si dice: prenatale). «Queste creature, tra bruco e farfalla, sono in effetti inclassificabili. La loro fisicità (particolarmente nelle testine di terra) è fragile e sfuggente, chiaroscurale: sembra di intravederle appena, senza incrociarne mai lo sguardo, segreto come la vista del cieco. Inoltre tra queste “prefigure”, che lei allestisce in punti improbabili nelle sale d’esposizione, passano invisibili linee di tensione, una rete di rimandi segreti... Nel contempo, sono degne della filiazione con le sculture più destabilizzanti del primo ‘900, Medardo Rosso e Boccioni, o con i disegni di Kupka».

A partire dal 1980, Marisa Merz ha tenuto mostre personali in luoghi di grande prestigio internazionale come il Centre Pompidou nel 1994, il Museo di Winterthur l’anno successivo. Ma dovunque esponga, rifiuta la retrospettiva cronologica: la temporalità di ogni pezzo si riattualizza ogni volta a seconda degli accostamenti nello spazio nuovo, e nei cataloghi le opere sono raramente datate. Tutto rimane in un presente bergsoniano, fatto di auto-generazione e impercettibili mutazioni nella ripetizione: «libero assestamento delle cose e grande turbamento dell’identità», come scrive Trini.

Quel “turbamento dell’identità” è l’ambigua fragilità, la forza creativa della Merz, esempio perfetto d’arte al femminile: schivando i due rischi – quello del genere “minore” indotto dalla tradizione e quello del mimetismo emancipatorio – ha reso significante un vissuto diverso, inventando tempi e modi di elaborazione inediti.

Anne Marie Boetti Sauzeau