» Romano Lalla  
1906 - 2001
 


 

 

Graziella (destinata a diventare Lalla in arte) Romano esordisce come poetessa a 34 anni: prima aveva studiato a Torino per diventare pittrice. Per anni il racconto e il romanzo non rientrano nei progetti artistici di una delle più note narratrici italiane: nata a Demonte, in provincia di Cuneo, la pittura è il suo primo grande amore e vi si dedica nell’atelier più all’avanguardia degli anni Venti, quello di Felice Casorati.

All’Università di Torino è allieva di Lionello Venturi (“cardo selvatico”, l’aveva battezzata il maestro), Annibale Pastore, Ferdinando Neri e ha come amici e compagni Cesare Pavese, «un giovane occhialuto, pallido, magro», Mario Soldati, Franco Antonicelli, Carlo Dionisotti, Arnaldo Momigliano. Si laurea in lettere e diventa bibliotecaria a Cuneo; poi insegna nella scuola media a Torino e a Milano.

Legata politicamente a Livio Bianco e al movimento Giustizia e Libertà, si impegna nei “Gruppi di difesa della donna” ma su questa esperienza decide di mantenere il riserbo: «Ai tempi della lotta partigiana partecipavo dalle retrovie», racconta la Romano, «ho corso qualche rischio, ho avuto qualche avventura, ma non ne ho mai scritto».

La prima raccolta di poesie, Fiore (1941), le viene rifiutata dalla casa editrice Einaudi e verrà pubblicata da Frassinelli. A dimostrazione del carattere riservato, chiuso, subalpino, severo ma anche molto determinato, la Romano farà omaggio della prima copia fresca di stampa all’editore Giulio Einaudi, dedicandola «a chi non ha voluto stampare questo libro». E questo suo tratto di leggerezza e di severità, di rigore e di reticenza, di scavo e di autoanalisi è destinato a diventare la sua stessa cifra letteraria, la sua impronta più specifica.

La sua prima opera di rilievo è costituita da Le metamorfosi (1951), una serie di brevi testi in prosa dedicati alla descrizione di sogni. La critica evoca subito per lei il nome di Marcel Proust. Eugenio Montale nei panni di critico letterario ne esalta l’unità stilistica e la profonda coerenza, sostenendo che «Lalla Romano ha una sensibilità nordica anche lei, ma i suoi quadri non sono ampi, tali da indurre in tentazione il sociologo. Il suo pittore potrebbe essere Vermeer, non Breughel. La sua poesia non è fluviale, ma contratta, ridotta all’osso».

La Romano conduce un’esistenza molto appartata, con scarsi contatti con il mondo intellettuale e letterario. Il materiale narrativo a cui attinge è spesso autobiografico, un viaggio nel tunnel di rapporti familiari non privi di asprezze, luoghi oscuri, reticenze e mezze verità della buona borghesia settentrionale.

Ne La penombra che abbiamo attraversato (1964) rievoca, con una tecnica ampiamente praticata di full immersion nel ricordo, l’infanzia vissuta nella campagna cuneese e la morte della madre. Il successo di questo libro (che però non conquista il premio Viareggio nonostante l’impegno di Norberto Bobbio, Roberto Longhi, Eugenio Montale, Natalino Sapegno, Giuseppe Ungaretti e altri) è preceduto da altre due opere di minor risonanza: Maria (1953), sul complicato rapporto serva-padrona (Pavese lo rifiutò perché non aveva voglia di leggere di «storie di donne di servizio»), uscì con il risvolto di copertina firmato da Elio Vittorini e fu salutato da Gianfranco Contini come «un piccolo capolavoro»; Tetto murato (1957) con la protagonista Ada che la critica definì «donna di forte moralità».

Il primo libro che la rivela al grande pubblico è Le parole tra noi leggere (1969) che ottiene il premio Strega. L’opera, il cui titolo è tratto da un verso di Montale, svolge un’intensa indagine sul rapporto tra madre e figlio, ragazzo difficile, ribelle, asociale, anticonformista. Il libro riscuote un notevole seguito poiché appare nel ‘68 e sembra anticipare tante tematiche proprie della rivolta giovanile. «Tutti i bambini sono poeti ma poi crescono», osserva la Romano che dichiara che a questo libro «si accompagna un gran senso di colpa per aver usato un essere umano [... ] nel mio caso c’è l’aggravante che la “vittima” è il mio stesso figlio». Anche ne L’ospite (1973) il protagonista è un bambino trascinato nelle complicazioni di un matrimonio fallito (a questo tema è dedicato Inseparabile del 1981).

Il suo linguaggio incisivo ed efficace entusiasma tanto Pier Paolo Pasolini che elogia senza riserve questa prosa «fatta di brevi lasse, leggere e assolute». Un’analoga scrittura segna la pagina de La villeggiante (1975) e di Lettura di immagini (1975) in cui antiche fotografie scattate dal padre della scrittrice all’inizio del secolo mettono in moto il meccanismo della memoria (sarà ristampato nel 1968 con il titolo Romanzo di figure).

Il disegno di personaggi tratteggiati in maniera essenziale, illuminati dalla luce dei suoi ricordi, la Romano lo persegue anche nella sua intensa produzione giornalistica sulle pagine de Il Giorno, del Corriere della Sera, de Il Giornale nuovo. È nel 1976 che compie la sua breve incursione nella vita politica, eletta consigliere comunale di Milano come indipendente nelle liste del PCI.

Si tratta di un rapidissimo approccio poiché l’anno dopo si dimette («mi annoiavo a morte nelle sedute. Quasi come nei consigli di scuola: anche lì mi portavo un libro da leggere sotto banco [... ]. Io sono aliena assolutamente dall’occuparmi di questioni politiche, sociali, economiche: soltanto conservo la convinzione che sono da combattere le risorgenze fasciste»).

Al centro dei suoi interessi letterari vi sono, in questo periodo, i «misteriosi anni Venti»: questo avrebbe dovuto essere il titolo del libro che invece si chiamerà Una giovinezza inventata, una specie di ideale continuazione de Le parole tra noi leggere. Ancora una volta, procede a ritroso nel tempo e racconta la propria giovinezza, la malinconia, l’amore, i disagi, le difficoltà legate alla condizione femminile nel romanzo «più autobiografico e più romanzesco», così lo definisce Cesare Segre (in Opere, Milano, Mondadori, 1991, p. XLVII).

È la storia dell’educazione sentimentale (non a caso la Romano fu traduttrice del celebre romanzo di Gustave Flaubert) di Lalla che racconta l’intellettuale travolgimento per la pittura, i rapimenti sentimentali per Antonicelli, la fatica di crescere, l’attrazione per il sesso, le amicizie femminili. Nel 1986 inizia una nuova “vita” letteraria per l’infaticabile, tenace e anticonformista Lalla: dopo la scomparsa del marito, Innocenzo Monti, alto funzionario della Banca Commerciale, si lega al giovane Antonio Ria con cui pubblica, primo di una serie di volumi con fotografie, La treccia di Tatiana.

Nei Mari estremi (1987) rievoca poi la sua vita coniugale a cui fa seguire Un sogno del Nord (1989) e Le lune di Hvar (1991). Sono opere destinate a rafforzare l’immagine della Romano narratrice della “penombra” della borghesia italiana, romanziera impietosa, a volte crudele, che si riscatta dai perduranti sensi di colpa tra mite aforismi e stilemi essenziali.

Mirella Serri