» Proclemer Anna  
1923
 

 

 

Negli anni della Dolce Vita, quando, secondo cronache spesso esagerate, gioia e follie regnavano nella romana via Veneto, l’attrice Anna Proclemer si annoiava molto. Amici la portavano fuori a cena, nei famosi ristoranti e caffè della strada, ma di rado le rivolgevano la parola, perché erano di quegli uomini che non parlano con le donne, che lasciano le mogli a casa, che si contentano di guardare le signore di passo, che presto spariscono.

Ma chi erano questi uomini, questi “cattivi”? «Ma sì, il solito gruppo storico di via Veneto: Brancati, Flaiano, De Feo, Patti, Pannunzio, Bartoli, Talarico. Erano persone di prim’ordine, ma io mi annoiavo. Non capivo la loro frivolezza. Dopo una giornata di lavoro, erano come ragazzini in libera uscita. Si divertivano a parlare di diete, di strampalati igienismi, finocchietti prodigiosi, mai di letteratura. Né mi interessavano i loro aneddoti, sempre gli stessi. Così stavo zitta, anche per sei ore», ha dichiarato una volta Anna Proclemer.

Che si annoiasse, si vedeva. Mangiava poco, beveva meno, si carezzava i capelli, si lisciava i vestiti, che non avessero una piega, esibiva i bellissimi piedini calzati in sandali capresi, in scarpette esilissime. Amava i propri piedi, amava i propri occhi sempre drammatici, mai sereni. Aveva un’aria ispirata. Come chiamata da un destino, come ascoltasse Voci. Presero a chiamarla “la miracolata”.

Nata nel 1923 a Trento, aveva sposato il siciliano Vitaliano Brancati nel ‘46. Lo aveva conosciuto nel teatro dell’Università di Roma, recitando un atto unico dello scrittore intitolato Le trombe di Eustachio. Lei aveva 19 anni, lui 35. Lui si era innamorato, lei si era lasciata amare. Fu così per tutto il matrimonio, da cui nacque la figlia Antonia, e che durò sette anni. Sette anni non facili. Lei recitava, e dunque era sempre impegnata in qualche tournée, mentre la figlia era affidata a cameriere e a Brancati. Poteva durare?

Gelosissimo era il temperamento dello scrittore, e quella bella moglie proveniente dal teatro di Bragaglia, e a cui mai mancavano le scritture (le più varie, dal Gabbiano a Beatrice Cenci, e via via tutti i possibili autori in repertorio, Ibsen, e D’Annunzio, Faulkner, Schiller, Genet, Camus, Verga, Pirandello, Strindberg... ) non era certo fatta per dargli quiete.

Era una brava attrice, non del tutto, forse, apprezzata, per una certa scontrosità, anche per certe manie un po’ fanciullesche, come quella di portarsi sempre con sé una fotografia di Lawrence Olivier, ma non di lui tutto intero, solo dei suoi occhi. «Sono la luce che illumina la mia strada», disse una volta, e tutti risero, con un po’ di imbarazzo: ma aveva paura, lei timida come spesso sono i trentini, ad esporsi.

Morto Brancati, molto presto, la si seppe vicina ad altri uomini, soprattutto a Giorgio Albertazzi. Ma si sapeva di altri amori, anche lui vivo: il bellissimo Tommaso Landolfi, per esempio, scrittore raffinato e tenebroso, che della tenebrosità si compiaceva, facendola diventare una virtù.

La vita l’ha acquietata, forse rasserenata. Anna Proclemer ha del resto sempre creduto in tutto quello che faceva, ma ciò che faceva spesso non l’appagava.

Ha lavorato molto, e bene, ma non al punto di dare di sé un’immagine precisa. Attrice drammatica? «Come figura fisica, faccia, voce, lo ero. Ma mi sono piaciute, e riuscite, anche le parti comiche». Forse le è mancata quella che è una caratteristica del potere, ma anche una qualità: la prepotenza.

Vive a Roma. Vede molto la figlia Antonia, che un tempo vedeva poco. Abita, come sempre, nella sua vita, in un quartiere di Roma Nord.

«Non ho più amori, sono una single felice – racconta – a Pasqua, me ne sono stata da sola a casa, regalandomi un disegno di rose fatto col computer, mia grande e recente passione». Ha ancora scritture, sta preparando la regia di una commedia della figlia Antonia, intitolata Safari. Non legge molto, perché la letteratura di oggi non le interessa, semmai rilegge qualcosa. «Del resto, solo dieci anni fa ho scoperto, e amato, Proust».

Esce molto, viaggia, va molto a teatro. Lavora: per esempio, con giovani musicisti, ai “monologhi”, cioè parole e musica. «A ottant’anni, mi sento serena, quasi felice». Ha ancora una bella voce. «Certo, perché fumo». Più spiritosa, ora, di quando era giovane.

Giulia Massari