» Occhipinti Maria  
1921 - 1996
 

 

 

Povera, combattiva, di sinistra, la giovane ragusana Maria Occhipinti non si capacitava che a chiuderla in galera in quel gennaio 1945 fosse la nuova Italia democratica e antifascista. Lei figlia di un muratore e di una cucitrice, costretta a lasciare la scuola a dispetto dell’amore per libri, lei con la sua storia di sofferenze e riscatto, dall’infanzia difficile alla guerra, da una gravidanza di stenti alla morte della bimba appena nata, dalla ripresa degli studi all’approdo al comunismo, alle grandi speranze all’arrivo degli americani, alle lotte contro il carovita.

Quasi un prototipo di biografia militante da portare a esempio ma solo fino all’inverno ‘44-’45, quando il governo Bonomi emana i bandi di leva per un contingente da affiancare alle truppe alleate: al nord partigiano si addice il volontariato, al sud toccano le cartoline rosa.

Di fronte alla renitenza generalizzata in tutto il centro-sud e nelle isole, si passa ai rastrellamenti casa per casa e alle retate, e ne nascono scontri violentissimi con migliaia di arresti, decine di morti e feriti. È la rivolta chiamata dei “non si parte”, che cambia segno alla vita di Maria.

Sulla provinciale di Ragusa il 4 gennaio 1945 avanzava un camion carico di ragazzi catturati nel popolare quartiere “Russia”; e tra la piccola folla di donne disperate c’era lei, incinta di 5 mesi, che 4 anni prima aveva visto partire il marito e ora, decisa a non sopportare più che lo Stato si impadronisca dei giovani, si stende davanti alle ruote, dando il via alla fuga dei rastrellati.

Comincia così la breve epopea della città, e comincia la repressione giudiziaria. Identificata come leader, Maria è portata al confino a Ustica, dove partorisce la sua seconda bambina e rischia di perderla per mancanza di cure, poi al carcere di Palermo.

Quando esce per amnistia, il 7 dicembre 1946, scopre che il marito l’ha abbandonata, peregrina per molte città, in Svizzera incontra un mondo diverso, che le sembra più adulto, più rispettoso e equilibrato nei rapporti uomo-donna e che le fa apparire gli uomini siciliani «piccini, quasi balbettanti». Resta fuori d’Italia per molti anni, mentre sulla lotta dei “non si parte” c’è un generale silenzio.

All’estero lavora duramente, ma trova il tempo di scrivere Una donna di Ragusa, metà autobiografia metà cronaca della rivolta. Racconta i protagonisti, studenti, donne, contadini, reduci da tutti i fronti, molti socialisti e comunisti. Spiega che semplicemente nessuno voleva più saperne di fare la guerra, tanto meno per Vittorio Emanuele e Badoglio; che nessuno credeva più sulla parola a chi prometteva un esercito diverso, epurato dalle vecchie ingiustizie e gerarchie.

Mostra quanto abbiano avuto torto le forze politiche, compreso il suo partito di riferimento, il PCI, che hanno liquidato la rivolta come frutto di manovre separatiste o di un rigurgito fascista.

La calda simpatia di alcuni intellettuali, in primo luogo di Enzo Forcella, non basta a creare consenso intorno a un testo scomodo e a una figura come Maria, antifascista che disobbedisce agli ordini dell’antifascismo, comunista dal cuore anarchico.

Una donna di Ragusa resta a lungo un libro per pochi, mentre nell’autrice si vede soprattutto l’erede delle donne di ancien régime tante volte insorte a difesa degli interessi della comunità. In parte è così. Ma Maria è anche una moderna ribelle che fa un gesto imprevisto: molto prima che nascano l’interesse per la storia “dal basso” e il mito della spontaneità popolare, rivendica per sé il diritto di parola e di giudizio disconoscendo a politici e specialisti il monopolio dell’interpretazione.

Dal suo racconto esce male la nuova Italia, nordcentrica, sprezzante verso il sud, incapace di riconoscere le proprie aporie e incline a vedere in ogni lotta “irregolare” un anacronismo o un complotto; ne esce esaltata l’iniziativa personale, senza capi né organizzazione.

Ancora oggi, che abbiamo imparato a distinguere i diversi dopoguerra e le diverse reazioni popolari, della difficilmente catalogabile eroina di Ragusa nei convegni sulla Resistenza spesso ci si dimentica di parlare.

Anna Bravo