» Levi Montalcini Rita  
1909
 


 

 
© Farabolafoto  

Negli anni Trenta una giovane e timorosa matricola – una delle sette donne iscritte alla Facoltà di medicina di Torino – varca le soglie dell’Istituto di anatomia, regno del terribile professore Giuseppe Levi, e osserva distrattamente nel museo dell’Istituto il cervello, conservato in formalina, di un altro celebre docente di anatomia che aveva insegnato nella facoltà.

L’immagine di quel cervello, oggetto all’epoca di commenti per lo più scherzosi da parte degli studenti, riaffiorerà alla sua memoria tanti anni dopo, nel 1986, quando Rita Levi Montalcini, la matricola di un tempo, si ritrova a settantasette anni, d’improvviso, celebre in tutto il mondo grazie al conferimento del premio Nobel per la medicina.

Tra questi due momenti è racchiusa la vita di Rita Levi Montalcini, tutta dedicata allo studio dello sviluppo del sistema nervoso e ai fattori specifici della sua crescita, in anni in cui il problema del cervello emerge e passa da area di interesse periferico a tema centrale degli orientamenti e degli interessi della ricerca biologica.

Alla fine degli anni Ottanta, l’Italia è un paese molto diverso dalla nazione misogina che aveva visto nel 1926 premiare Grazia Deledda con il Nobel della letteratura: una scienziata è ben vista, e l’inserimento della neurobiologa italiana tra i grandi precursori a livello mondiale dell’innovazione scientifica è accolta con eccezionale giubilo. In realtà, le ricerche che le hanno fatto conquistare il Nobel sono il frutto della lunga permanenza di studio e di lavoro fatta nella Washington University di Saint Louis, negli Stati Uniti, tra gli anni Quaranta e Sessanta. Assai meno lusinghiero è stato invece il rapporto tra la scienziata e le istituzioni di ricerca italiane.

Dopo il conferimento del Nobel, inizia, comunque, per questa donna dal fisico fragile, ma dotata di una tenacia che rivendicherà come la qualità base dei ricercatori, una nuova stagione di intensa attività in Italia, contrassegnata da numerosi riconoscimenti – prima donna ad essere nominata presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, che guiderà dal 1993 al 1998, e senatore a vita – e da altrettante nuove cause, la principale delle quali sarà dedicarsi a smentire l’immagine della vecchiaia che l’italiano medio coltiva.

Le ricerche della Levi Montalcini avevano mostrato infatti il ruolo attivo delle componenti proteiche sulle cellule del sistema nervoso e sarà proprio grazie alla sua persona e all’opera di divulgazione da lei intrapresa “sulla galassia mente” che la vecchiaia verrà riscoperta come ricca di nuove potenzialità ed opportunità.

Per lei, che si era sempre mostrata aliena dalla notorietà, questa età è anche la stagione della celebrità, degli inviti a cerimonie pubbliche e a trasmissioni televisive: la sua figura minuta, i capelli bianco-azzurri perfettamente acconciati, le camicette ricercate, diventano familiari a tutti gli italiani. È anche il tempo della scrittura di sé, della rievocazione degli uomini e degli incontri più significativi.

Scrittura che inizia con un’autobiografia (originariamente pubblicata in inglese) Elogio dell’imperfezione che, partendo dalla Torino inizio Novecento, dal suo ambiente familiare e dalle prime significative esperienze universitarie, arriva al suo apprendistato americano e alle relazioni con i diversi collaboratori e assistenti scientifici che l’affiancano nelle ricerche. È il ritratto di un’epoca, ma soprattutto il ritratto del suo lavoro di scienziata.

A questa seguiranno Senz’olio e senza vento, (termini marinari per indicare condizioni avverse), una raccolta delle esperienze di vita di amici e parenti scomparsi, simili per la capacità di affrontare la morte a testa alta, lasciando un messaggio, si tratti di Primo Levi o di Simonetta Tosi, una allieva impegnata nel movimento delle donne precocemente scomparsa. Infine, Un universo inquieto, suo personale omaggio alla ricerca artistica della sorella Paola e al dialogo ininterrotto che ha unito durante la vita le due sorelle.

Ma è anche e soprattutto l’età del pieno coinvolgimento nel dibattito sulla bioetica e sul futuro della ricerca, dove Rita Levi Montalcini difende, in accordo al suo credo scientifico, le ragioni della clonazione animale e della sperimentazione sulle cellule staminali. Un coinvolgimento che, nonostante i grandi riconoscimenti, si rivelerà per lei faticoso e deludente, come riconoscerà più tardi, ricordando la depressione che questi anni le hanno procurato, che l’ha costretta a ricorrere ad un aiuto psichiatrico.

Alle spalle di questa stagione vi è l’essenziale della biografia della scienziata: il legame con la sorella gemella Paola, una pittrice allieva di Casorati, all’origine della continua interrogazione sui rapporti tra arte e scienza di cui testimonia la loro corrispondenza, un’infanzia e un’adolescenza trascorse a Torino in un clima “vittoriano” il giudizio è della stessa Montalcini – in una famiglia «satura di affetti» e dove grazie al padre si respirava un clima laico e «da liberi pensatori», lontano dalla rigidità degli ebrei osservanti.

Nel 1930, la decisione di iscriversi alla facoltà di medicina e la prima prefigurazione del suo progetto di vita, cui mal si accompagnano l’idea del matrimonio e della maternità. Precocemente matura, la giovane Rita attraversa gli anni universitari con determinazione e con uno scarso interesse, che non sia di tipo scientifico, per i compagni di studio che la contornano. Molti di loro l’accompagneranno più tardi nel percorso americano, altri, come lo scienziato Renato Dulbecco, se li ritroverà al fianco nelle prese di posizione dell’età adulta.

Le leggi razziali prima, la guerra in seguito, la costringono a rinunciare all’impegno universitario, ad emigrare e a nascondersi, ma continuerà a scrutare la struttura e le funzioni del sistema nervoso negli embrioni di pollo, in laboratori di fortuna allestiti nella sua camera da letto.

Nel 1947, l’invito da parte di Victor Hamburger, che ha letto una sua pubblicazione, rappresenta la svolta decisiva. Per la giovane che ha sempre amato i treni, lo “Spirit of Saint Louis”, che la porta a destinazione da New York a Saint Louis, è rimasto nella memoria «come il treno più lussuoso sul quale abbia mai avuto la ventura di viaggiare». Un benessere ignoto a chi è reduce dai carri bestiame sprigiona dai sedili di velluto azzurro, un benessere che allontana le traversie della guerra e attutisce dubbi e perplessità sul futuro.

Il clima informale del laboratorio, la meritocrazia priva di affettazione che vige nell’accademia americana, i primi stimolanti contatti con lo scenario della ricerca in America e gli scienziati, “i futuri premi Nobel”, fugheranno le perplessità residue. Partita per quella che doveva essere nei suoi progetti l’esperienza di un semestre, Rita Levi Montalcini si ferma in America vent’anni.

Per i familiari rimasti in Italia, la vita in America di Rita, i numerosi viaggi che la vedono protagonista sono oggetto di ammirazione e stupore, come i pacchi pieni di meraviglie che lei saltuariamente invia. Rita viaggia inseguendo la sua passione – fondamentale, nell’individuazione del Ngf che le darà il Nobel, un soggiorno di ricerca all’Istituto di biofisica di Rio de Janeiro – ma anche per vedere le antiche civiltà precolombiane.

Anche se Rita Levi Montalcini ha, secondo la sorella Paola, «l’animo di Cristoforo Colombo» nel 1961, la nostalgia di casa – «gli imperativi degli affetti» secondo le sue parole – si fa sentire. Grazie ad un accordo con la Washington University, torna in Italia per creare un’unità di ricerca a Roma, preso l’Istituto di Sanità. Da quel momento, la scienziata comincia a pendolare tra due continenti e tra due laboratori, ma soprattutto tra due modi di intendere il lavoro dello scienziato.

Non solo la vita del laboratorio di Roma è continuamente minacciata dall’aleatorietà dei magri finanziamenti, ma su di lei gravano le incombenze amministrative e il lavoro burocratico. La trasformazione dell’unità di ricerca, nel 1969, in un Laboratorio di Biologia cellulare del Cnr non migliora di molto la situazione. «Molte volte mi chiesi in quegli anni se non fosse giunto il momento di desistere» ricorderà più tardi.

La tenace ricercatrice però non desiste, e anche dopo il 1979, allorché per raggiunti limiti di età lascia la direzione del Laboratorio di Biologia cellulare, continua a sperimentare e informarsi. Il Nobel, infine, la trasformerà in un’autorevole madrina di «un tempo di mutamenti».

Marina D’Amelia