» Zevi Tullia  
1923 - 2011
 

 

 

Non sarebbe difficile immaginarla nei panni di quel mestiere che un tempo desiderava diventasse il suo per sempre.

E vi s’incamminò anche, prima alla Juillard School of Music di New York e al Radcliff College (Cambridge, Mass. ), poi nell’orchestra dei giovani di Boston e nella New York City Simphony, fra le cui file Tullia Zevi suonava l’arpa. I suoi tratti minuti, la voce cadenzata e la chioma saggia raccontano ancora oggi, fra le pieghe del tempo, di questa vocazione che la guerra, la Shoah e il terrore interruppero così come hanno troncato milioni di altre cose.

Tullia Zevi era un’adolescente in una Milano ebraica illusa d’essersi finalmente integrata con l’Emancipazione dalla seconda metà del XIX secolo in poi, quando tutto crollò: la chiama una «partenza senza addii», quel giorno in cui, all’indomani delle leggi razziali – siamo nell’estate del 1938 – suo padre (un avvocato affermato) raggiunge la famiglia in vacanza in Svizzera e annuncia che non sarebbero più tornati in Italia.

Scelta provvida e lungimirante la sua, che non molti ebrei italiani seguirono, convinti quali erano che le leggi razziali sarebbero sfumate chissà come, senza fare troppi danni. Dalla Svizzera a Parigi, e poi verso l’America con l’ultima nave che partì prima dell’arrivo dei tedeschi.

Alla fine della guerra, Tullia torna in Italia sposata a Bruno Zevi (la cerimonia s’era svolta nella sinagoga spagnola di New York) e senza più l’arpa: la realtà vissuta le ha imposto quel mestiere che lei stessa definisce «cotto e mangiato», quello del giornalismo.

Fra le sue prime corrispondenze ci furono quelle dal processo di Norimberga. Ha lavorato per il quotidiano israeliano Maariv (dal 1960 al 1993), per il Jewish Chronick di Londra negli stessi anni, per il Religious New Service di New York, dal 1946 al 1976: «Dopo la Shoah volevo stare più vicino alla vita e all’Europa». In seguito ha scritto anche per L’Espresso e La Voce Repubblicana. Era tutto iniziato quasi per caso con il lavoro a una radio locale italoamericana, e fors’anche frequentando i circoli antifascisti di New York: la vernice di ragazza italiana di buona famiglia dal destino comodo e sicuro lasciò via via spazio a un senso dell’impegno che mai più si dissipò.

E certo l’esperienza dell’esilio è cosa indelebile, che ti segna per la vita. La lontananza da casa e la consapevolezza acquisita a poco a poco di quel che in Europa stava avvenendo, determinarono le sue scelte negli anni a venire.

Tullia Zevi è figlia di un ebraismo fondamentalmente laico, progressista, proteso al futuro assai più che al passato. Le è stata a volte persino rimproverata, questa distanza dalla declinazione religiosa dell’ebraismo. Che non ha impedito però, il fatto che Tullia Zevi sia divenuta la signora per antonomasia dell’ebraismo italiano.

Del resto, per un ventennio ne è stata la guida: vicepresidente dell’“Unione delle comunità ebraiche italiane” dal 1978 al 1983, e presidente dal 1983 al 1998 – unica donna ad avere mai assunto questa carica. Nel 1992 il presidente della Repubblica le ha conferito il titolo di “Cavaliere della Grande Croce”, la massima onorificenza italiana. I riconoscimenti che ha avuto occupano una lunga, variegata lista.

Piuttosto che elencarli, è giusto ricordare che testimoniano di quel suo ruolo di rappresentante dell’ebraismo italiano a tutto tondo: voce di una comunità radicata in Italia da più di due millenni, ma con una storia e una specificità religiosa, etica, sociale.

Tullia Zevi non si è mai sottratta, e lo ha fatto con slancio e serietà, a questo impegno di rappresentanza, anche quando fu nominata membro della commissione parlamentare d’inchiesta sul comportamento del contingente italiano durante la missione di soccorso in Somalia (1993-1994). O come quando opera in veste di membro della commissione italiana dell’Unesco, o prende parte ai lavori del Comitato italiano per la bioetica.

Ha una naturale propensione al dialogo, esercitata nei tanti anni alla guida delle comunità ebraiche – in cui non sono mancati i momenti difficili o particolarmente delicati. E in lei la disponibilità verso il futuro s’intreccia sempre con quella fertilità dei ricordi tipica di chi, nella sua vita, ha visto tanto e pensa valga la pena di raccontarlo, stemperando tutto in un sorriso gentile.

Elena Loewenthal