» Foa Lisa  
1923 - 2005
 


 

 
Lisa Foa a Roma, fine anni Sessanta  

Lisa Giua Foa ha sempre avuto una figura snella e quasi scarna, che la rende molto elegante.

Quando era ragazza frequentava persone assai più grandi di lei, e spesso dall’aura prestigiosa, Elvira Pajetta, Ada Gobetti, e i grandi nomi della Torino antifascista.

Quando era una signora, fu soprattutto frequentata da persone più giovani, che avevano per lei un’affettuosa soggezione, ed erano fiere che la loro avventura rivoluzionaria fosse rassicurata e nobilitata da quella sua eleganza, oltre che dalla sua autorevolezza intellettuale.

Avendo una distratta e radicale noncuranza per le cose costose, e una simpatia per l’oriente estremo, si è vestita di preferenza con tailleur e pantaloni semplici e quasi severi, se non con le casacche di tela che la facevano sembrare un monaco cinese o una portatrice d’acqua vietnamita.

E siccome aveva, dalle sue vite precedenti o da qualche versante di quella attuale, abiti e accessori davvero eleganti (cioè, costosi), li regalava alle ragazze che le erano compagne, purché fossero oltre che spiantate abbastanza snelle, e poi, quando quella larga comunanza si diradò, a profughe ruandesi o bosniache e suore della Caritas: abitudine di cui il biografo si accorse per caso.

Questa doppia immagine, di ragazza – la “Lisetta” raccontata da Natalia Ginzburg in Lessico famigliare – frequentatrice di persone grandi e importanti, e poi di signora attorniata di ragazzi orgogliosi di lei, sembra sottrarla a quella zona d’ombra che coincide spesso con l’età adulta, e a volte inghiotte le esistenze.

Ebbe tre figli, Anna, Renzo e Bettina, con Vittorio Foa, di cui fu moglie per parecchi anni. Ne prese, come allora si usava, il cognome, a preferenza del suo paterno, Giua, che si mostrava di difficile comprensione da parte di postini e redattori. In realtà si tratta di un diffuso cognome di ebrei deportati da Roma antica in Sardegna. Il padre di Lisa, Michele, fu professore di chimica ed esperto di esplosivi, benché socialista e persona mitissima (anche Nobel del resto fondò il suo premio per perdonarsi l’invenzione della dinamite).

Autore di testi universitari importanti, il professor Michele ebbe una carriera ostacolata, a Sassari e al Politecnico torinese, e nel 1935 fu senz’altro arrestato e condannato. Uscì dal carcere nel 1943, e scrisse un libro di memorie che vale ancora la pena di leggere. La madre di Lisa era emiliana, socialista e sobria. Dopo la condanna del marito a 15 anni spedì ai figli un telegramma: «Condanna grave – state sereni».

Un fratello maggiore di Lisa, Renzo, fu arrestato e processato già nel 1932, a 17 anni. Nel 1934 scampò a un nuovo arresto, quello che toccò a Leone Ginzburg, scappando con gli sci in Francia, e nel 1936 si arruolò per la Repubblica spagnola, prima con Durruti, poi con gli internazionali: morì nel 1938 dopo tante battaglie e tante ferite, alla vigilia della fine di quella guerra antenata della resistenza europea, in cui fu anche ucciso il sogno di un antifascismo libertario. Dopo l’espatrio Lisa lo aveva visto solo una volta, oltre la frontiera francese, e passarono un giorno a sciare.

Nata a Torino, Lisa studiò al famoso liceo D’Azeglio, e interruppe l’università perché c’era la guerra, e tante cose da fare per una ragazza magra e capace di parlare un po’ di tedesco: trasportare stampa, e anche armi.

Nell’estate del 1944 a Milano, insieme a un’amica, tutte e due incinte, è catturata dalla banda Koch. Riescono a farsi ricoverare in ospedale e di lì a scappare grazie a un gruppo di partigiani, scalze e in camicia da notte. Nonostante quello e altri repentagli, avrebbe sempre ricordato quegli anni anche come “divertenti”, e pieni di una meravigliosa amicizia. Divisa, abbastanza spensieratamente, fra socialismo, azionismo, e comunismo, nel dopoguerra si iscrisse al Pci, che sembrava a lei come a tanti altri la parte più fattiva e determinata. Andò a vivere a Roma, si mise a studiare il russo e i paesi socialisti, specialmente quella economia pianificata che passava per la vera preziosa discriminante fra comunismo e capitalismo.

Fece dei viaggi, molto ufficiali, poco eccitanti, in Urss, con l’associazione Italia-Urss in cui lavorò a lungo, fino a esserne allontanata per manco di entusiasmo, per passare a Rinascita, diventata nel 1962 settimanale con la direzione di Togliatti. Impresa non priva di entusiasmo, che le lasciò, al di là di ogni ripensamento politico, un solidale ricordo umano di Togliatti, e della frase con cui si accomiatò da lei prima dell’ultimo viaggio a Mosca e a Yalta: «Beata te che vai a Cogne». Benché il suo cuore di studiosa e non solo battesse piuttosto per il fiero e assassinato Bukharin, Lisa restò nel PCI oltre il ‘56 ungherese, persuasa che anzi fosse il tempo per battersi e cambiare, e fino al ‘68 di Praga e Polonia, che però le parve abbastanza.

Di tutti quegli anni – la soggezione comunista alla “forza”, il manicheismo della Guerra Fredda, l’esperienza travolgente del crollo del colonialismo – il rimpianto più profondo le sembra riguardare l’oltranzismo con cui si negava ogni spazio a chi non stesse da una parte, condannato inesorabilmente come eretico o rinnegato.

Nel 1972, quasi fortuitamente – una richiesta di solidarietà contro degli arresti – aderì a Lotta Continua, i cui provvisori giovani ne furono prima lusingati, poi guadagnati a un affetto che nessuno scioglimento successivo ha scalfito. Dalla fine degli anni Settanta il suo impegno si è volto a essenziali sfide sui diritti umani, nella Russia dei dissidenti, nella Polonia di Solidarnosc, e in Africa, dove ha viaggiato. Ha pubblicato libri e articoli di peculiare competenza e franchezza, e tanti altri ne ha patrocinati col proprio consiglio e aiuto.

Titolare di un leggendario e caustico riserbo, è di quelle persone che un numero sorprendente di conoscenti considerano miliari per la propria storia personale, e per la generale storia del nostro paese.

Adriano Sofri