» Fioroni Giosetta  
1932
 


 

 

La vita dell’artista si scrive nell’opera, sì che la biografia d’artista coincide con la progressione o inversione, sviluppo o regressione dei motivi e modi della sua ricerca.

Nel caso di Giosetta Fioroni (nata a Roma da una famiglia di artisti), pur nella metamorfosi dei temi e delle immagini e nella variazione della materia e dei materiali – carta, tela, penna, pennello, argilla, terracotta – si impone una straordinaria fedeltà a se stessa. Alla propria femminile “mutabilità”.

La donna, si sa, è “mobile, qual piuma al vento”, specie quando sia per natura leggera, libera, capricciosa, come è Giosetta Fioroni, curiosa e pronta alla sperimentazione, sempre in credito verso la vita che non cessa di entusiasmarla, tanto che lei sempre la insegue e sempre ne aspetta i doni, quando non li anticipi con la sua preveggenza di artista dalle antenne mobili.

L’opera di Giosetta Fioroni è un contrappunto di ritorni e variazioni; sempre l’opera si rinnova, eppure identica è la forma (nel senso di matrice, di stampo), in cui la fantasia si versa prendendo certe ripetute immagini, immagini che sono visioni fiabesche.

Negli anni Sessanta realizza gli “Argenti” – grandi tele con vernice alluminio, su cui affiorano volti, paesaggi, figure. Unica donna, con Angeli, Festa e Schifano fa parte della Scuola di Piazza del Popolo. Alla Galleria Tartaruga di Roma tiene le prime personali nel ‘61 e nel ‘64. Intanto, scopre Parigi, dove passa lunghi periodi. Nel ‘68 inaugura il Teatro delle Mostre alla Tartaruga con la performance la spia ottica. Fa anche le prime esperienze di fotografia (“Foto da un atlante di medicina legale” e “Fototeca” sono le mostre in cui conclude), e dopo il 70 inizia un ciclo di opere dedicate alle fiabe di magia, al mondo folclorico e fantastico. Tiene mostre personali in numerose gallerie da Milano a Roma a Venezia a Mantova, e partecipa ad altre collettive, alla Biennale di Calvesi a Venezia nel ‘64. È a Berlino, a Parigi, a Bologna, di nuovo a Roma. Nel ‘90 un’ampia antologica riassume le sue opere su carta alla Calcografia Nazionale di Roma. Nel ‘93 è di nuovo alla Biennale di Venezia, dove tornerà nel ‘95 per la mostra “Percorsi del Gusto”.

Intanto, nella Bottega Gatti, a Faenza, ha cominciato a lavorare la scultura in ceramica. Realizzerà lì diversi cicli di opere: i Teatrini, le Sedie, i piccoli Teatri Shakespeariani, i piatti, le formelle. Mentre l’incontro d’amore con Goffredo Parise, l’amicizia con scrittori e poeti da Arbasino a Ceronetti a Zanzotto a La Capria le intona l’orecchio a cogliere le vibrazioni segrete della parola e dell’immagine. Nell’itinerario di costruzione della sua identità di artista, la conoscenza e l’amore della parola poetica è tappa fondamentale. Giosetta fa l’amore con le parole del poeta e dello scrittore; le contempla, le ama, le invidia, le afferra nel vortice della sua capacità trasformista, le fonde, le anima l’una con l’altra, finché dalla copula celeste nasce un nuovo segno che si fa gesto, movimento, moto, commozione, emozione.

Congenito alla sua natura d’artista è il gesto del trickster che grazie al talento metamorfico svuota il grande, immenso potere nell’esistenza umana del Tempo. Il Tempo domina le cose umane, le sovrasta, le regge, le governa, e le guida con crudeltà alla decadenza. O meglio, farebbe così, se non ci fosse l’artista, che osserva nelle cose la gioia della metamorfosi. E ce la comunica.

È la gioia che letteralmente palpita sulla parete di venticinque metri alla Galleria comunale d’Arte contemporanea di Roma, dove nel 1998 Giosetta espone una serie di bassorilievi policromi, 100 Alberi, che uno per uno e tutti insieme lievitano in una visione magica. E lo stesso effetto che raggiunge nella Madonna multietnica dai tre volti (europeo, africano e asiatico) che sempre nello stesso anno svela nella chiesa Regina Mundi di Roma.

E nella mostra del febbraio 2003 al Borghetto Flaminio, dove duecentoventiquattro formelle in terracotta ripetono variandola all’infinito l’immagine della casamatta. Grazie alla leva della memoria e della fantasticheria onirica, la forza di gravità della casa – in particolare della casamatta – si solleva, finché la parola stessa si spezza e la casa è matta, nel modo in cui è matto il fool, o più spesso che no l’artista.

È stato spesso osservato come la pittura di Giosetta sia una rappresentazione dinamica della memoria e dell’immaginazione. È stato spesso notato il tratto errabondo e vagabondo del suo segno. E così: il carattere apparentemente svagato, en flânerie, del suo segno, tramuta in un movimento che è quasi un battito d’ali, un palpito, una tenue spinta di risalita. Il ritmo in levare è proprio dell’arte di Giosetta; è il tempo della sua composizione.

La stessa memoria in lei è in levare, non in battere. È cosa che torna, ma non insiste; mescola, rinnova. Come ogni composizione che viva di memoria, la sua è soffusa di nostalgia, ma non è nostalgica; è piena di sentimento, ma non è sentimentale. Tutto è lieve e se c’è un velo, un velo appena di sentimento del passato, non è tale da permettere al tempo del rimpianto di insediarsi coi suoi toni lugubri, perché tutto è mosso da un dinamismo incoercibile, da una incontinente vitalità.

V’è come un’aria, un respiro, un vento, nel mondo di Giosetta, che spazza via ciò che nell’emozione umana tende al ristagno. La statua su cui conclude la teoria di immagini di Giosetta scattate dal fotografo Marco Delogu per la mostra intitolata “Senex”, (Ala Mazzoniana della Stazione Termini, 2002) è in questo senso emblematica: due figure di altezza diseguale si tengono per mano in piedi sullo stesso basamento. Giosetta adulta tiene per mano Giosetta bambina: non sono una prima e una dopo, una avanti, una indietro sul vettore del Tempo. Sono insieme qui e ora e sempre, come è giusto che sia per Giosetta artista, aeterna puella.

“La Beltà” è il titolo dell’ultima (in ordine di tempo) mostra, con cui la città di Roma ha omaggiato Giosetta a compimento dei suoi settant’anni. Compongono la mostra un ricco itinerario di opere che trattengono passo dopo passo quella bambina e insieme dimostrano il misterioso, tenace lavoro della donna adulta che, se è riuscita a tenere in vita quella bambina tirannica e meravigliosa, è perché ha saputo accettare di crescere e di soffrire.

Nadia Fusini