» Fallaci Oriana  
1929 - 2006
 


 

 
Oriana Fallaci nel 1975  

Oriana Fallaci è la più grande giornalista italiana, e uno dei personaggi che hanno definito il secolo che si è appena chiuso.

Nessuna di queste due definizioni è oggi condivisa dall’establishment italiano. Ma anche questo “disconoscimento” è uno degli elementi definitori della biografia della Fallaci. Lei è stata uno dei primi cittadini del mondo globale, in cui il luogo di nascita fornisce la definizione culturale, ma è la società che si sceglie quella cui si appartiene. Nata in Italia, la Fallaci è infatti da decenni un personaggio il cui senso e la cui influenza sono totalmente al di là dell’Italia.

Il suo è un contraddittorio profilo: pur essendo uno dei personaggi che hanno rivoluzionato il linguaggio giornalistico e una delle donne che hanno ridefinito la modernità della identità femminile, Oriana Fallaci rimane un outsider. Un destino che, tuttavia, è quintessenziale del XX secolo.

In ogni giovane donna (e sicuramente in ogni giornalista) di questi ultimi trent’anni, c’è qualcosa delle treccine di Oriana che inseguita dalle fucilate vietcong corre a testa bassa sul ponte di Kien-Hoa. Qualcosa di quelle treccine oppure di quella scriminatura dritta come una spada tra capelli piatti, lisci, lunghi.

Portava i pantaloni quando persino in America una donna coi pantaloni non poteva entrare in un locale pubblico. In un mondo coperto di fondotinta, trasformò il trucco in un segno: il ben visibile rigo di eyeliner sugli occhi, due righe applicate «velocemente, tac, tac, tac» come racconta lei, cogliendo così la fretta della nuova vanità femminile. In un’epoca di capelli cotonati e cappellini a pillola, la Fallaci ha inventato per tutte il modello di chi non stava né con gonne, né con bigodini e tantomeno con lo chic forzato della moda.

Quello stile adottato per amore o per forza è stato non per questo meno glamour. Tutto meno che sciatto, tutto meno che un-sexy. Quella sua faccia pulita con rughe precoci è stato uno dei volti su cui, negli anni Sessanta e Settanta, si è costruita la New Wave del fascino, come illustra il libro Women del celebre fotografo Francesco Scavullo che inserisce la Fallaci nell’elenco delle quarantasei donne più affascinanti e straordinarie del mondo. Insieme alla Kennedy, la Callas, Ingrid Bergman, Margaret d’Inghilterra: le nuove eroine del Ventesimo secolo, gente che preferiva all’Olimpo la vita vera, finendo spesso per rompersi l’osso del collo.

«Non sono il tipo di persona che accetta regole solo perché sono regole» dichiarò una volta la Fallaci a Scavullo. Le regole erano quelle della moda, ma la battuta coniò un piccolo manifesto della indipendenza dal trucco come metafora. Un’affermazione che andrà giù molto bene alle assetate figlie della generazione successiva.

Donne di una generazione che a una guerra sono andate comunque – la guerra dell’emancipazione, fatta come mamme, come avvocati, come giornaliste, come operaie – e ci sono andate adottando il suo stile: pantaloni su scarpe basse, e niente trucco.

Dietro quel modo di portare un volto, un trucco, un corpo c’era ovviamente la sfida a cui il tutto alludeva: difficile immaginare una donna più moderna di questa che fin da giovanissima ha fatto ciò che a quel tempo si chiamava “un lavoro da uomo”, “una vita da uomo”. Il fulcro della identità pubblica della Fallaci è, infatti, ancora oggi, quello della giornalista di guerra; a lei è cioè legata, nell’immaginario collettivo, un’invasione doppia: la figura della giornalista di guerra simbolizza con estrema chiarezza l’appropriarsi da parte di una donna della professionalità e del coraggio. Due definizioni per eccellenza della virilità. Questo ribaltamento estremo degli schemi del maschile e del femminile è stato l’elemento davvero nuovo, davvero moderno che la Fallaci ha proposto all’identità comune delle donne.

L’invasione di campo, tuttavia, non basta ancora a spiegare l’impatto avuto dal modello Fallaci. Ad esempio, Fallaci non è stata la prima giornalista di guerra della storia del giornalismo. Martha Gellhom, Margaret Burke White, Janet Flanner, per dire solo i nomi delle più famose donne che hanno seguito la seconda guerra mondiale. Ma è solo la Fallaci a diventare un archetipo. Perché?

La risposta è nel discorso che si anticipava: dietro il simbolo e la moda, c’è un’operazione culturale totalmente innovativa. Oriana Fallaci è protagonista di una radicale trasformazione del mestiere giornalistico. Un cambiamento che arriva ai lettori in maniera molto chiara e diretta. Dietro la passione per la giovane italiana con le treccine che arriva in Vietnam c’è la percezione da parte del pubblico che quella immagine è il segno di un nuovo modo di fare giornalismo. E, come spesso accade, è il pubblico a capire prima di altri un cambiamento cui l’establishment italiano fa resistenza.

Quella di Oriana Fallaci è una sorta di rivoluzione copernicana dentro il mestiere. Il giornalista – secondo convenzione – è ai lati della storia, la vede scorrergli davanti e la racconta, cercandone quell’ideale e impossibile punto di perfezione che si chiama equilibrio giornalistico. Il modello – che per pigrizia ancora si insegna nelle aule delle facoltà di giornalismo (a dispetto del fatto che il giornalismo viene insegnato spesso da chi non lo ha mai fatto) – ha prodotto secoli di sciatta prosa, di rispettose articolesse, di pomposi lavori senza unghie, all’insegna del “da una parte” e “dall’altra”. Fallaci straccia le convenzioni: si mette saldamente piantata al centro della storia; il suo “io” diventa addirittura il punto centrale del racconto. Con il risultato che, con lei, il giornalista si mette allo stesso livello della storia e/o del personaggio che racconta. Attuando così uno straordinario cambiamento di approccio.

Spesso, parlando del giornalismo fallaciano, se ne sottolinea soprattutto l’effetto della personalizzazione, della narrazione in prima persona. C’è anche questo: ma è un effetto non primario del suo modo di lavorare. (E, comunque, il giornalismo in prima persona è sempre esistito: basta pensare a Hemingway).

Quella della Fallaci è una innovazione che ha a che fare con la distanza che essa stabilisce con la storia di cui parla. E qui forse val la pena di fare un esempio. Prendiamo la sua forse più famosa intervista, quella ad Henry Kissinger, allora segretario di Stato americano, nel periodo della guerra in Vietnam. La Fallaci lo intervista rimbalzandogli continuamente la sua (della Fallaci) opinione politica sulle questioni internazionali, fino a che uno spazientito (o divertito?) Kissinger entra nella sua trappola e si definisce un “cowboy”, confermando così l’immagine critica che una buona parte dell’opinione pubblica internazionale si era fatta di lui. Quel “cowboy” fu un danno per Kissinger, e la sua ammissione fece il giro del mondo. E chi aveva fatto quell’intervista divenne un personaggio insieme a lui: il personaggio di un giornalista-persona, non solo una firma.

La Fallaci tirava fuori i suoi umori e le sue opinioni, si batteva, si scontrava con l’intervistato: tagliava così in un colpo solo il velo di perbenismo e di reverenza che avvolgeva i potenti. Il suo era un giornalismo personale, schierato. Vivo. In questo consisteva il suo coraggio. Quello che poi mostrava sul campo di battaglia ne era solo la conferma fisica.

Con Oriana Fallaci nasce un nuovo modo di lavorare e un nuovo genere: le interviste. Da allora, in ogni giornalista, in ogni parte del mondo, che fa una domanda a una conferenza stampa c’è oggi un pizzico di quella arroganza e di quella vita che lei ha immesso nel giornalismo.

Considerato tutto ciò, come meravigliarsi dell’immensa popolarità di cui ha sempre goduto? Per il pubblico questa operazione culturale era forte, comprensibile e identitaria.

L’io narrante di Oriana è diventato così il medium attraverso cui milioni di persone si sono interessate a storie e uomini che altrimenti non avrebbero mai né capito né voluto capire. Tutte le crisi internazionali degli ultimi cinquant’anni hanno avuto in lei il più popolare narratore e interprete.

I suoi libri sono dei long seller. Quello sulla guerra in Vietnam uscito nel 1971, Niente e così sia, si vende ancora e molto. Lettera a un bambino mai nato, uscito nel 1975 è ormai un classico in tutto il mondo. Un uomo uscito nel 1979, lo stesso. Inshallah, il romanzo centrato sul contrasto fra il mondo occidentale e quello islamico, idem, ambientato nel Libano del 1983, dopo la tragedia dell’11 settembre, è tornato nelle classifiche dei libri più venduti.

La sua è una popolarità che negli anni ha raggiunto livelli riservati solo ai divi. Esistono associazioni di boy-scout intitolate a lei. Nel 1981 gli studenti della Law School di Harvard le affidarono il commencement speech dell’anno accademico, rifiutando il generale Haig allora segretario di Stato, designato dalla università. Negli stessi anni, a Belgrado, il teatro nel quale presentava Un uomo venne preso d’assalto dalla folla che voleva sentirla.

La più antica università americana, la Boston University, le dedica da quarant’anni una Oriana Fallaci’s Special Collection che raccoglie tutti i suoi manoscritti, tutte le traduzioni dei suoi libri, tutto il materiale che riguarda il suo lavoro. In America ha ricevuto prestigiose lauree ad honorem.

Nel volume The Italians – Storia degli Italiani Illustri, edito dalla Library of Congress, vi sono soltanto due fotografie di celebri donne italiane: Eleonora Duse e Oriana Fallaci. Della Fallaci la didascalia dice: «I suoi scritti hanno portato il giornalismo politico a un nuovo livello. Le sue interviste con i leader e i potenti del mondo sono stupefacenti per il coraggio e l’intelligenza indagatrice».

E in questo senso si può davvero attribuire a Oriana Fallaci il definitivo e più perfetto segno delle modernità: essa è fra gli inventori e gli antesignani del giornalismo come star-system.

A fronte di questa grande popolarità mondiale, la Fallaci non è mai divenuta parte dell’establishment giornalistico italiano. Questa parte della storia della sua vita non è un dettaglio e non è un aspetto secondario, per capire il personaggio.

Tra il giornalismo italiano e la Fallaci i rapporti sono stati sempre tempestosi. Un esempio vale forse a raccontare il clima di questo confronto: una delle voci più ripetute per anni nell’ambiente giornalistico è che le famose interviste ai capi di Stato del mondo siano in realtà frutto di fantasia. Si dice persino che l’incontro con Komeini non sia mai avvenuto, così come quello con Gheddafi, con Kissinger, con Golda Meir, Indira Ghandi, Deng Xiao Ping.

Il contrasto tra la reputazione internazionale della giornalista e gli scarsi riconoscimenti italiani sono tali da costituire un vero caso su cui riflettere. In maniera rovesciata questo scontro racconta infatti bene i limiti culturali di un establishment che ha vissuto sempre con gli occhi al di qua delle Alpi; e rivela anche quanto a lungo sia stato (stato?) maschile e mafioso il mondo giornalistico del nostro paese.

Un nuovo capitolo della biografia fallaciana sembra infine essersi aperto di recente, con la pubblicazione di un altro best seller internazionale, La Rabbia e l’Orgoglio, scritto dopo quasi dieci anni di silenzio, ispirato dall’attentato alle Torri Gemelle di New York.

Il tradizionale conflitto che i suoi lavori suscitano – tra immensa popolarità di vendite e l’establishment culturale – questa volta sembra aver preso un nuovo aspetto. Nonostante il milione di copie vendute solo in Italia, la tesi del libro ha suscitato divisioni e critiche anche in un settore di pubblico, quello della sinistra e dei giovani, che finora ha sempre guardato a lei come a un modello.

Nel libro la Fallaci definisce la natura del conflitto tra il mondo occidentale e il mondo islamico. E lo fa senza concessioni ai “se” e ai “ma”; senza galleggiare nel mare del tutto – è - possibile, quello stato d’animo che indica come uno dei più gravi difetti dell’Italia. Per lei lo scontro in atto è semplice: siamo diversi, dice. E a questo punto, incompatibili. Dietro questa guerra, insiste, c’è una scelta: quella fra la nostra civiltà e la loro religione. Cioè la scelta fra noi e loro.

Questa posizione si scontra direttamente con ogni tentativo di dialogo con il mondo musulmano: bisogno molto sentito in un paese come il nostro piantato dove inizia il Sud del Mondo, cresciuto nell’equilibrio precario della Guerra Fredda, con ancora alta la passione ideologica e molto bassa la capacità di gestione politica delle crisi. Mai come stavolta, dunque, la Fallaci ha venduto libri e diviso: rischiando di perdere una parte di consenso presso chi l’ha sempre amata.

D’altra parte, se questa sua biografia qualcosa ci racconta, è che proprio questo è l’effetto e il metodo Fallaci: scontrarsi con ciò che è politically correct. Che una volta questo attacco abbia preso di mira Henry Kissinger e oggi invece il relativismo etico della sinistra, non va interpretato come una evoluzione politica. È semplicemente il modo di Oriana di esercitare il “mestiere delle armi”.

Lucia Annunziata