» Cutuli Maria Grazia  
1962 - 2001
 


 

 
Foto cortesia Fondazione Maria Grazia Cutuli Onlus, Catania  

Fu un’ondata di commozione autentica quella che scosse l’Italia in morte di Maria Grazia Cutuli.

Era il 19 novembre del 2001, poco più di due mesi dall’orrore delle Twin Towers, a pochi giorni dall’intervento contro l’Afghanistan talebano. C’erano tutti gli elementi perché quell’assassinio sulla strada verso Kabul colpisse il cuore e la fantasia.

Quattro giornalisti trucidati senza una ragione precisa (un furto, una delle tante manifestazioni antioccidentali, un’esplosione di violenza improvvisa e gratuita?), mentre tentavano avventurosamente di raccontare una guerra e un paese disperato.

Fra questi, una donna giovane e bella, 39 anni, appassionata del suo lavoro: Maria Grazia. Sarà lei a diventare il simbolo dell’inviato speciale di guerra, anzi di quella sorta di “valanga rosa” di nuove croniste che sfideranno i rischi di un conflitto.

Anche prima erano esistite le giornaliste al fronte, basti fare il nome della più famosa di tutte, Oriana Fallaci, ma con l’esordio del 2000, non erano più casi isolati e un po’ mitici, erano diventate una presenza numerosa e smitizzata.

La Cutuli con la sua morte finì col simbolizzare la crescita di un gruppo, la fine di un tabù. Fu per tutti una persona da piangere, di fronte alla quale inchinarsi. Produceva un fastidio collettivo persino il dubbio sulle possibili imprudenze compiute, o la messa in discussione dell’ideologia che la sosteneva.

Anzi, il suo essere terzomondista ma antitalebana, contro il burqa in nome delle ragioni del burqa, fu probabilmente il secondo elemento che la fece diventare un simbolo: in fondo non era quello uno stato d’animo molto diffuso in Europa? E questo impasto di femminilità che combatte per arrivare, di avventura spinta al limite, di ideologismi “gauchiste” non la legava in fondo a Ilaria Alpi, un’altra figura di giovane donna divenuta simbolica? Perché per lei e per la Cutuli tanta partecipazione, mentre per il povero Antonio Russo, cronista di Radio Radicale, ucciso nel Caucaso, solo stentate parole di condoglianza?

Nella vita di Maria Grazia la morte assume un ruolo dominante nel definirne ed esaltarne la personalità. Era nata a Catania nel 1962, nella sua città aveva studiato e si era laureata in filosofia. E lì aveva mosso i primi passi da giornalista: la collaborazione col quotidiano La Sicilia e con la tv Telecolor.

Poi il grande balzo: i grandi reportage per il settimanale Epoca dai luoghi più rischiosi del mondo: dalla Bosnia, dalla Cambogia, dal Congo, dalla Sierra Leone. Una professionalità costruita pezzo per pezzo con tenacia, con passione, rischiando sempre qualche cosa. Infine l’approdo più ambito nel 1997: il Corriere della Sera.

Da via Solferino volava in Ruanda e a Gerusalemme, in Sudan per raccontare i Nuba, e in Pakistan. Ed è forse da qui che ha scritto i suoi articoli più belli. I colleghi le chiedevano scherzando: «Maria Grazia pensi solo al lavoro, sempre in giro per il mondo, e l’amore come va?» E lei secca con un tono che non ammetteva replica: «Un disastro».

Infine l’Afghanistan: il suo giornale voleva che rientrasse rapidamente per passare il compleanno in Italia e lei che rispondeva: «Volete farmi felice? Fatemi restare». E restò sino a quel 19 novembre, sino a quelle jeep, a quelle strade polverose, a quelle urla, e a quell’esplosione di violenza che se la portò via insieme ai suoi tre compagni di avventura: lo spagnolo Carlos Fuentes, inviato del Mundo, il fotografo afghano Azizullah e l’operatore australiano Harry Burton, entrambi dell’agenzia Reuters. La portò nell’Olimpo degli inviati speciali, lei che in vita era stata solo un redattore ordinano.

Gabriella Mecucci