» Schininà Maria (Madre Maria del Sacro Cuore)  
1844 - 1910
 


 

 
Maria Schininà (Madre Maria del Sacro Cuore)  

Maria Schininà, dei Marchesi di Sant’Elia, baroni del Monte e dei Duchi di San Filippo delle Colonne, nacque a Ragusa il 10 aprile 1844 da Giambattista e da Rosalia Arezzo, quinta di otto figli.

Il bel palazzo dove nacque e crebbe, donato alla diocesi di Ragusa, è oggi sede del vescovado e del seminario. Il casato, di cui si ha notizia a partire dal XVI sec., fu tra i fondatori della nuova Ragusa dopo il terremoto del 1693, che distrusse la Val di Noto. È al barone Mario Leggio Schininà, infatti, che si deve il piano urbanistico della nuova città, secondo il modello della capitale spagnola.

Durante la sua infanzia, Maria, come i suoi fratelli, fu istruita dal cappellano e precettore di famiglia, figura usuale presso le famiglie nobili del tempo, ma esclusiva degli Schininà a Ragusa. Condusse la vita delle ragazze delle famiglie aristocratiche siciliane: visite ai parenti, balli, festini, ricevimenti, studio del pianoforte; a 16 anni divenne l’animatrice della banda musicale della città e, in occasione dei festeggiamenti per l’Unità d’Italia, ebbe il privilegio, da parte del maestro della banda, di battere il tempo con la bacchetta nel concerto tenutosi nella piazza adiacente la cattedrale, non senza scandalo.

Maria era ammirata e invidiata per la ricercatezza nel vestire e il tenore di vita, tanto che lo stesso arcivescovo di Ragusa ebbe apertamente a riprovare il suo attaccamento all’eleganza, avvertito in stridente contrasto con le sue pratiche religiose.

Ricevette numerose proposte di matrimonio, sempre rifiutate. Nel 1871, ottenne la nomina ad Ispettrice scolastica, insieme alla poetessa di Noto Mariannina Coffa (1841-1878), stabilitasi a Ragusa dopo il matrimonio e divenuta presto sua amica, la quale parla di Maria in una lettera scritta al fidanzato di un tempo, definendola «buonissima giovane» e riferendo l’umiltà con la quale accettò l’incarico benché se ne ritenesse indegna. Nel 1865, morto il padre, prese a ritirarsi in casa cominciando a rifiutare le occasioni di vita mondana.

Quando anche l’ultimo fratello si sposò, rimase sola con la madre, dedicandosi interamente alle pratiche religiose. Per non lasciare sola la madre non si fece suora, come avrebbe desiderato, ma, spogliatasi dell’elegante vestiario, si vestì con quello delle popolane. Fu una radicale conversione di vita e una scelta scandalosa per la società del tempo, che infrangeva la secolare barriera tra nobiltà e popolo minuto. Si diede a servire, infatti, personalmente, nei loro tuguri i poveri e gli ammalati, che era solita chiamare “la pupilla di Dio”.

Sconosciuta per noi oggi è la molla che condusse Maria a questo cambiamento radicale di stile di vita, né ci è dato sapere quanto abbiano influito nella scelta i rapporti con il padre, la madre, il precettore o i fratelli, o l’insopportabile spettacolo delle miserie e delle ingiustizie sociali. Né forse tanto repentino e inaspettato dovette essere il mutamento, se ebbe a scrivere in seguito: «Mentre il mondo mi credeva felice e qualcuno chissà, forse anche mi invidiava, il mio cuore era immerso in una profonda amarezza. Tutto mi dava noia: il lusso, la musica, la società; e molto più mi riuscivano intollerabili i balli e le serate di una lunghezza senza fine».

Scelse un percorso a suo modo di realizzazione, tra i pochi possibili alle aristocratiche del tempo: quello di “fondatrice”, appunto, secondo un modello maschile che le derivava dall’appartenere ad una famiglia di padri “fondatori” della città, e un modello femminile familiare nel suo casato che annoverava, tra le sue glorie, un’antenata settecentesca fondatrice del Collegio di Maria per fanciulle nobili di bassa fortuna.

Ma scelse non senza coraggio, mentre parenti, amici e i suoi stessi fratelli la riprovavano aspramente, considerandola la vergogna della famiglia perché andava in giro come una stracciona e dilapidava il patrimonio familiare per soccorrere i poveri, gli ammalati, i carcerati. Il carmelitano Salvatore La Perla la nominò direttrice della nuova istituzione delle “Figlie di Maria”, attraverso la quale radunò intorno a sé molte giovani per soccorrere i poveri a domicilio.

Morta sua madre, nel 1884, espresse il desiderio di farsi suora di clausura, ma, consigliata dall’arcivescovo, rimase in città a continuare le sue opere filantropiche, sicché, l’anno dopo, si associò ad alcune compagne, formando un gruppo di apostolato che, nel 1889, diventò una comunità con le prime cinque giovani, l’Istituto delle Suore del Sacro Cuore, che si proponeva di offrire aiuto e ricovero alle povere, le orfane, gli anziani, gli invalidi, i carcerati, gli operai e i “carusi” che lavoravano nelle miniere di “pietra pece” in condizioni subumane. Scelse una vita dura con un mistico ardore di fede cristiana tale che, come si disse, si impresse sul petto col ferro arroventato il nome “Jesus”.

Nel 1892 diede inizio alla costruzione della prima casa del Sacro Cuore che, completata nel 1904, diventò la casamadre. In seguito, organizzò l’Associazione delle Dame di Carità, e, nel 1908, mise l’Istituto a disposizione dei senzatetto del rovinoso terremoto che distrusse Messina e Reggio Calabria.

Tra le prove che dovette affrontare e che le costarono non poca umiliazione vi fu quella di dover riscrivere più volte la Regola per conformarla alle direttive dell’autorità ecclesiastica nonché la difficoltà a trovare novizie. Dopo aver consolidato l’istituzione da lei fondata, morì a Ragusa l’11 giugno 1910; la sua salma è conservata in un’urna di cristallo. La sua opera si è estesa in Madagascar, Nigeria, Canada, Stati Uniti, Filippine. La fama di santità di cui era circondata già in vita si accrebbe dopo la sua morte: il 4 novembre 1990, Giovanni Paolo II la proclamava beata.

Marinella Fiume