» Vivanti Annie  
1868 - 1942
 


 

 

Attualmente è una scrittrice dimenticata ma nel primo ventennio del ‘900 Annie Vivanti fu autrice di best seller come Divoratori (1911), Circe (1912), Vae victis (1917), Naja tri pudians (1920), Mea culpa! (1927). Rappresentò un vero fenomeno letterario, una delle narratrici più note e capaci di conquistarsi un ampio seguito, letta e seguita da un pubblico in larga parte femminile.

La Vivanti era nata a Londra nel 1868 da padre italiano, il patriota e garibaldino Anselmo, esule in Inghilterra, e da madre tedesca, Anna Lindau. Cresciuta in Gran Bretagna, imparò prima l’inglese e il tedesco e poi l’italiano.

Giosuè Carducci diventò il suo nume tutelare, quando, essendo arrivata in Italia in cerca di fortuna letteraria, la introdusse negli ambienti culturali della penisola e presentò le sue prime poesie. Facendo riferimento alle radici familiari, il Vate sosteneva che per lei «l’inglese era la lingua delle sgridate e il tedesco quella dei sogni». Per prima cosa la Vivanti tentò la fortuna nel mondo dello spettacolo.

Aspirava a diventare attrice (fu anche autrice di teatro con La rosa azzurra) ma la sera prima del debutto, alla Fenice di Venezia, non ce la fece a reggere l’emozione e fuggì. Racconterà questa sua esperienza in romanzi autobiografici come Marion (1891) e Zingaresca (1918). Fu nel dicembre 1889 che incontrò Carducci, monumento vivente della poesia italiana. Dopo uno scambio incrociato di lettere, in cui l’autore delle Odi barbare diede giudizi positivi sui componimenti della Vivanti, il poeta firmò una piccola prefazione per il volume Lyricae che uscì nella primavera del 1890.

Da quel momento un turbinio di pettegolezzi seguì la coppia costituita dallo scrittore (le dedicò il componimento Ad Annie) e dalla «dolce fanciulla», come lui chiamava la ventiduenne autrice. «Loquace e pettegola», scrive il critico Pietro Pancrazi, fu la cronaca sui due intimi amici. I loro rapporti apparentemente erano molto formali, e lei in pubblico gli dava del Voi. Nell’intimità lo chiamava il mio caro Orco. Proprio l’Orco, detto anche il Selvaggio nei racconti della Vivanti, diventerà il protagonista dei Divoratori, il primo romanzo di gran successo.

Quale il segreto dell’enorme affermazione della scrittrice che inaugura in Italia un tipo assai particolare di best seller? Il pubblico la segue appassionato dalle sue storie romantiche che, però, spesso sono integrate da un pizzico di umorismo, con cui si guarda al mondo della belle époque, tra ville inglesi, spiagge italiane, artisti bohémiens, mercanti corrotti, spacciatori di droga. A garantirle un largo ascolto fu la miscela di ambienti cosmopoliti, che la Vivanti ben conosceva per averli frequentati in gioventù, e di un’ottica abbastanza spregiudicata sui temi sociali, come la prostituzione, la corruzione delle giovani ragazze, l’uso della cocaina negli ambienti d’élite.

Con sensibilità la narratrice metteva in scena il conflitto tra il ruolo dell’artista, o comunque della donna che decide di non sacrificare tutta la sua vita alla famiglia, e quello di madre e di moglie, spesso rappresentati in profonda opposizione tra di loro. Un tema la cui osservazione la Vivanti trae proprio dalla sua autobiografia. Nel 1892 la narratrice sposa il giornalista e patriota irlandese John Chartres e con il marito si trasferisce in America. Ma torna di frequente in Italia, plaude alla presa del potere da parte del fascismo.

Aderisce, tra l’altro, alla campagna per l’uso del Voi come espressione del “perfetto stile fascista” con altri scrittori tra cui Elsa Morante, Walter Binni, Antonio Baldini, Ada Negri, Vasco Pratolini, Salvatore Quasimodo, Tommaso Landolfi. La scrittrice viene considerata come una delle massime divulgatrici del darwinismo applicato al campo degli studi sociali, che rilegge e riadatta all’immagine femminile.

Se all’inizio del secolo uscirono opere come Sesso e carattere di Otto Weininger, tradotto in Italia nel 1903, e L’inferiorità mentale della donna di Paul Julius Moebius del 1904, la Vivanti mette in circolazione tra le sue lettrici una nuova forma di determinismo biologico e naturale, quello strettamente pertinente alla condizione della donna il cui destino, nell’evoluzione della specie, è segnato. Non a caso uno dei romanzi più interessanti della Vivanti, Naja tripudians, si apre proprio con una situazione che rivela come la natura non sia per nulla benigna con la specie “donna”.

A renderla gradita al pubblico sarà anche la “conversione”, ovvero il capovolgimento della sua figura pubblica. Da “ragazza” bionda ed eterea a fianco di Carducci, diventa madre esemplare che rinuncia a tutto (sua figlia Vivien diventerà una famosa violinista) in nome della maternità, come racconterà nei Divoratori. E per vent’anni la Vivanti non scriverà quasi nulla, tutta presa dal suo ruolo privato (ritornata sulla scena letteraria compone due drammi, L’invasore e Le bocche inutili e racconti per bambini, Sua altezza).

La critica, comunque, anche in anni successivi alla sua scomparsa, ha sempre trattato piuttosto severamente la Vivanti, occupandosi però più che della sua letteratura del suo personaggio pubblico, dell’essere stata giovane accompagnatrice a fianco del suo Orco.

Renato Serra la chiama «quella singolare Vivanti», Cesare Garboli la definisce donna «generosa e sventata». E ancora, lo stesso critico nella sua introduzione a Naja tripudians (Oscar Mondadori, 1970) riporta la leggenda che negli anni di guerra, poco prima della morte, era finita in povertà, viveva come una clochard, mangiando «un cartoccio di fichi secchi». E commenta: «La cicala che aveva cantato a gola spiegata nei mesi caldi si era dimenticata ancora una volta della vecchiaia». La sua morte in estrema povertà non era dovuta alle sue follie né alla sventatezza. La Vivanti scompare nel ‘42, in piena seconda guerra mondiale. L’anno prima le era giunta la notizia che la sua adorata figlia (per cui aveva per anni rinunciato al suo lavoro) era perita a Londra sotto i bombardamenti.

Suddita inglese ed ebrea, la Vivanti dopo le leggi razziali era stata privata di tutto (suo marito era scomparso parecchi anni prima). All’inizio del conflitto era stata costretta ad abbandonare Torino dove si era stabilita. Vi tornerà proprio nel ‘42 per morirvi in solitudine, senza che nessuno dei suoi amici o estimatori spendesse una parola per ricordarla.

Mirella Serri