» Messina Maria  
1887 - 1944
 
 

Se togliamo l’episodico, autorevole interesse mostrato dal critico Giuseppe Antonio Borgese per la produzione letteraria della scrittrice palermitana, che aveva già al suo attivo una discreta produzione di romanzi, racconti e letteratura per ragazzi, la memoria letteraria è stata piuttosto avara nei confronti di Maria Messina.

E come trovò non poche difficoltà ad affermarsi nel panorama letterario del secondo ventennio del Novecento, così si è dovuta attendere la pubblicazione postuma del romanzo La casa nel vicolo (1982) e la ristampa di alcune sue opere da parte della Casa editrice palermitana di Elvira Sellerio negli anni Ottanta (Casa paterna è rieditata con una nota di Leonardo Sciascia) perché si rompesse il silenzio che per tanti anni gravò su di lei.

La marginalità della provincia siciliana, i frequenti spostamenti per l’Italia a causa della professione del padre ispettore scolastico, il non aver potuto seguire studi regolari malgrado di famiglia facoltosa, la reclusione tra le mura domestiche, il precoce insorgere della malattia – la sclerosi multipla diagnosticatale a vent’anni e causa, poi, della sua morte – non le impediscono di pubblicare, a soli 22 anni, la prima raccolta di novelle (Pettini fini, edito dalla palermitana Sandron), né le vietano l’ardire di inviarne copia al “Grande Catanese”, col quale avvierà quello che è stato definito un “idillio letterario”, in realtà un rapporto di patronage, in una corrispondenza decennale (23 lettere e una cartolina postale scritte tra il 1909 ed il 1919) tra «la piccola amica lontana», «la scolara» e il grande maestro, il modello vivente, quel Giovanni Verga, al quale dedicherà la successiva raccolta di racconti, Piccoli gorghi (1911).

E come le vicende biografiche le impediranno di abitare i luoghi extradomestici degli uomini se non attraverso le figure del padre e del fratello, che la avviano alla conoscenza del mondo esterno e alla scoperta della lettura, così sarà il rapporto col Verga a cui si aggrapperà per trovare una guida nei luoghi sociali del linguaggio letterario e della scrittura. Grazie a lui potrà pubblicare la novella Luciuzza sulle pagine della Nuova Antologia (1914) e la raccolta di novelle Le briciole del destino (1918), con introduzione di Ada Negri, nella collana «Le Spighe» della milanese Treves, che ospita gli scritti di Luigi Pirandello e Matilde Serao.

Ma lo schermo attraverso cui è filtrato il suo rapporto con il reale conferisce al suo “verismo” la cifra tipica di una donna che la vita la osserva ma non la vive e ricalca nei tratti scritturali minimali lo stile del Maestro, mentre bisognerà attendere la prima matura prova, il primo romanzo, Alla deriva (Treves, 1920) perché irrompa da protagonista nella sua produzione quella sua società provinciale emarginata, perbenista, passiva, rassegnata, stagnante, anonima, che rende la donna una “vinta” tra i “vinti”, inchiodandola in una condizione di muta e drammatica subalternità, e che costituisce la cifra originale della sua ispirazione narrativa.

La consapevolezza della diversità femminile cui la famiglia patriarcale siciliana nega ogni riconoscimento fuori dall’autorità maritale e da cui pretende un’obbedienza cieca, spinta fino alla rassegnazione al rapporto incestuoso, è la conquistata coscienza che emerge dalle pagine del romanzo La casa nel vicolo (1921), dove, però, i contraddittori sentimenti di odio e pietà che covano tra le mura domestiche non esplodono nella ribellione, ma la quiete che ripiomba sulla casa è metafora dell’immutabilità di una condizione fatale, la cui cifra è il silenzio, il “linguaggio delle donne”. È qui la vena più autentica della scrittrice, che, affrancatasi dall’ossequio al modello (nel 1919 si interrompe la sua corrispondenza col Verga il quale morirà, ottantaduenne, nel 1922), ha maturato infine un suo universo narrativo, un suo linguaggio.

Se leggiamo anche solo i titoli delle opere successive, Un fiore che non fiorì (1923), Le pause della vita (1926), L’amore negato (1928), ci rendiamo conto dell’urgenza di dire la negazione di ogni autonomia per la donna e l’impossibilità di esistere pienamente, che si esprime in una poetica che traduce l’impossibilità di dirsi compiutamente: da qui la passione e il dolore trattenuti, i sentimenti soffocati, la voce strozzata, una sorta di eccesso di sobrietà, fino al silenzio. E ciò proprio mentre la coscienza acquisita della diversità cova in profondità e brucia l’esistenza col desiderio di autodistruzione e annientamento che trova gli esiti più consueti nella pazzia e nel suicidio, segni di una lacerazione ormai non rimarginabile.

La “pupattola di cencio” può salvarsi solo estraniandosi da sé con lucida follia e guardandosi vivere, irritata «contro tutti, contro se stessa specialmente, perché le pareva di non essere proprio lei, con la sua volontà, a reclamare i diritti della vita, ma un’altra persona, fusa nella sua, che guardava con implacabile desiderio una vita differente». E il sogno di una vita diversa è in quella corsa di Vanna, la protagonista di Casa paterna, verso il mare che bagna i suoi piedi, mentre il vento le spettina i capelli.

Marinella Fiume