» Kuliscioff Anna  
1854 - 1925
 


 

 
Cortesia Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (E 98038)  

Anna Kuliscioff visse più di quarant’anni in Italia da straniera, come persona “tollerata dalla polizia”, sotto la spada di Damocle di un mai revocato provvedimento di espulsione. Nonostante questa condizione di apparente precarietà, fu tra i maggiori protagonisti del socialismo italiano, priva di cariche ufficiali ma dotata di una autorevolezza senza confronti: una vera madre, tra tanti padri, del partito che contribuì a fondare nel 1892 e poi a guidare, dal retroscena, ma tuttavia in modo assolutamente pubblico e indiscusso. Non fu, insomma, una influente ninfa Egeria, ma una dirigente politica, il cui incerto status personale faceva parte della sua identità d’eccezione: populista russa, militante anarchica, rivoluzionaria internazionale.

Bellissima e dolce, la lunga treccia bionda, gli occhi cerulei che sembravano investigare l’anima dell’interlocutore, la figura minuta ed elegante, sempre vestita con cura, tra cappelli piumati e pizzi neri, sin dall’inizio della sua bruciante vicenda politica la giovane russa somigliava, più che ad una severa nichilista, all’eroina di un romanzo di Tolstoj. E in effetti aveva qualcosa di profondo in comune con la sua infelice omonima, la Karenina. Come lei – sebbene così diversa negli interessi, nelle attività, nelle scelte – malata d’amore, affetta da una nevrosi sentimentale che le dettava un bisogno d’affetto incolmabile, irrimediabile, che neanche la passione politica potè mai alleviare.

E anche lei incontrò il suo Vronskij, nella persona di Andrea Costa, socialista romagnolo, che l’amava sì ma in modo troppo prosaico e tradizionale per poter rispondere alla sua richiesta di amore assoluto, di totale e completa appartenenza delle anime, e insieme di intimo rispetto. La storia di questo amore e del suo tormentoso tramonto è consegnata ad alcune lettere che sono tra i più toccanti documenti del rapporto uomo-donna e della sua moderna nevrosi. Costa le fece l’offesa, per lei intollerabile, di comportarsi da maschio tradizionale, chiedendole di non dare scandalo, di non frequentare i compagni di lotta senza di lui. E forse non seppe reagire in modo sufficientemente maturo alla paternità, alla nascita di quella figlia che lei aveva voluto come compimento del loro amore, suscitando lo stupore, e financo la disapprovazione, di un’amica russa, compagna di cospirazione, che non voleva credere ad un sentimento cosi convenzionale, così contraddittorio con la scelta cospirativa e con la vita illegale. Ma Anna Kuliscioff non aveva bisogno di difendersi dai propri sentimenti per paura di diventare una donnetta. La sua forza fu proprio nel non negarsi alla vita e all’amore, e tuttavia conservare, a prezzo di grandi sofferenze e difficoltà, la sua identità di rivoluzionaria e di donna emancipata.

Poi (talvolta la vita può essere meno crudele di un romanzo) incontrò il suo Levin, ovvero Filippo Turati, che seppe amarla come lei voleva, proteggerla, accudirla, rispettarla come una sua pari, avvolgerla sempre di attenzione e di ammirazione, così che lei potè pensare - quando non cadeva in accessi di gelosia e di insoddisfazione - che davvero fossero un’anima sola. E anche di questo amore felice e maturo resta la traccia in un bellissimo epistolario, di grande importanza per la storia politica dell’epoca che i due condivisero e soffrirono insieme.

Anna conosce Andrea Costa nel 1877, tra Lugano e un congresso socialista a Verviers. Ha già una storia di cospirazione. Nata in Crimea da un facoltoso e illuminato mercante ebreo (il suo vero nome è Anna Rosenstejn), è arrivata diciassettenne a Zurigo per frequentare l’università, che in Russia è vietata alle donne. Viene subito attirata nell’ambiente anarchico, di cui porterà il segno a lungo, prima di passare al socialismo legalitario. Ben presto deve tornare in Russia, insieme ad un compagno di lotta che è diventato suo marito, perché gli studenti russi all’estero sono richiamati in patria dallo zar. In patria si unisce ad un gruppo di populisti vicini a Bakunin; in questi anni incontra Vera Zasulic, futura dirigente del partito socialdemocratico russo, che sarà tra le sue amicizie più durature. Coinvolta in un processo, nell’aprile 1877 riesce a fuggire e a riparare in Svizzera. Cambia nome e comincia la sua «carriera» di rivoluzionaria professionale. Dopo un viaggio a Londra con Kropotkin, la troviamo a Parigi con Costa, dove per i due inizia l’avvicinamento al marxismo. Arrestati entrambi, Anna viene liberata ed espulsa dopo un mese e mezzo di prigione, mentre Andrea resta dentro. Tornata a Ginevra, si sposta in Italia nel 1878, per iniziare il suo lavoro politico nel paese di Andrea.

Arrestata nell’ottobre a Firenze, resterà in carcere sino al processo, che si svolge nel novembre del 1879 e le dà un’immediata, e mai più spenta, notorietà: la stampa parla a lungo di lei, e L’ Illustrazione italiana pubblica il suo ritratto di «Madonna slava». Assolta, uscirà il 6 gennaio del 1880, accompagnata dal primo provvedimento di espulsione. Risale probabilmente a questo lungo soggiorno in carcere la tisi che la affliggerà tutta la vita. Pochi mesi dopo viene di nuovo arrestata e, dopo vari mesi di detenzione, di nuovo prosciolta e di nuovo espulsa. Nei mesi successivi è a Lugano, dove incontra Carlo Cafiero, col quale stringe un rapporto forse ambiguo, che certo fa innamorare l’anarchico pugliese e molto ingelosire Costa. «Io alla fine vedo una cosa: agli uomini come sempre è permesso tutto, la donna deve essere la loro proprietà», protesta Anna ai suoi rimbrotti.

Tra un congresso e l’altro, tra un arresto e l’altro, Anna e Andrea riescono a ricavarsi un periodo di convivenza a Imola, città natale di lui, che vi è condannato al soggiorno obbligato, dal febbraio 1881, sino al gennaio successivo. È l’anno della gravidanza di Anna, che vive in casa con la famiglia di Andrea, fa la «sposa romagnola», lavora di cucito, e si prepara alla prossima maternità. Forse scopre che vivere con Andrea non è il paradiso? Certo è che alla metà di gennaio Anna è a Ginevra, con la bambina di un mese, per riprendere gli studi universitari. Inizia a Berna gli studi di medicina, che proseguirà poi a Napoli, a partire dal 1884, in cerca di un clima migliore per la sua malattia polmonare. La sua vicenda universitaria sarà un calvario: senza soldi, sola con la bambina, ostacolata in tutti i modi dalle università perché donna, riuscirà infine a laurearsi nel 1886 o 1887.

Gli anni del rapporto con Costa sono anche gli anni del complicato passaggio di entrambi dal primitivo anarchismo al socialismo più o meno marxista. È difficile determinare le primogeniture e le reciproche influenze tra i due. Sembra probabile che sia stato Costa, anche per influsso del soggiorno parigino, a iniziare l’allontanamento dall’anarchismo, e il progetto di un vero e proprio movimento socialista, che espliciterà nella celebre Lettera ai miei amici di Romagna, dell’agosto 1878. Anna segue con alcune perplessità, rinforzate dal rapporto con Cafiero; ma, mentre il romagnolo è più rapido e più pragmatico nella sua evoluzione politica, lei segue una via più teorica, venendo in contatto, per il tramite dei suoi connazionali esuli, con il pensiero di Marx, nella versione datane dal russo Plechanov. Si forma così una base teorica - che ha al suo centro l’evoluzione storica della lotta delle classi - che non abbandonerà più, e che le consentirà di svolgere un ruolo importante nel socialismo italiano, poco incline alla teoria.

Nel frattempo il rapporto con Costa va definitivamente in crisi; con grande dolore Anna decide di troncarlo, anche se conserverà per tutta la vita una speciale tenerezza per l’uomo che ha amato e che è il padre di sua figlia. Nel 1885, a Napoli, incontra Filippo Turati, impegnato insieme a lei nell’organizzazione di una sottoscrizione per gli esuli russi. Inizia un sodalizio che durerà sino alla morte di lei, e che, grazie alla devozione di Turati, le darà una pace costante e profonda.

Laureatasi e specializzatasi in ginecologia, Anna si stabilisce a Milano con Turati e con la figlia Andreina, e inizia una nuova fase della sua vita. Respinta dall’Ospedale Maggiore di Milano perché donna, inizia la professione privata come “dottora dei poveri”: «Molte povere case della vecchia Milano la vedevano spesso salire, gracile e leggiera, fino a lassù in alto, al terzo o quarto piano», leggiamo in una testimonianza.

Ma non potè praticare a lungo la professione medica. La tisi si era tramutata in tubercolosi ossea; quei piani di scale erano troppo pesanti per lei, che comincia ad avere problemi di deambulazione e che passerà gli ultimi anni della sua vita senza più uscire di casa. Del resto, la medicina ha svolto la sua funzione essenziale, che era quella di allontanarla da Costa e di renderla indipendente da lui. Ora, finalmente sicura accanto a Turati, con una nuova maturità di pensiero, Anna può tornare a pieno tempo all’impegno politico. Che del resto non è più quello della cospirazione.

Nel 1892 nasce il Partito dei lavoratori, poi Partito socialista; nel 1891 Turati e la Kuliscioff hanno assunto insieme la direzione della Critica sociale, rivista che si propone di dare spessore culturale al socialismo e di attrarre gli intellettuali democratici. La rivista, che nelle lettere Anna chiama “la nostra figlia di carta”, diventa il suo lavoro principale. Mentre Turati è spesso a Roma per impegni parlamentari, Anna si dedica alla rivista, scrive, traduce, cura gli aspetti editoriali; legge cumuli di giornali nelle sue cinque lingue, dando un contributo incalcolabile a sprovincializzare il giovane socialismo italiano. Direttamente scrive poco, più che altro sulle questioni russe e su quelle femminili. Ma molti articoli compaiono con la duplice sigla TK, e dall’epistolario sappiamo come Anna influisca sui discorsi e gli scritti di Turati. La Critica sociale vivrà la vita di Anna e morirà con lei.

Complice il lavoro editoriale, e ancor più la salute precocemente declinante, Anna passa sempre più tempo nell’appartamento in galleria, che divide con Turati, e che diventa un luogo celebre del socialismo europeo. Mentre nel partito italiano prosegue senza mai veramente concludersi la lotta tra massimalismo e riformismo, Turati e la Kuliscioff sono in rapporto politico con i maggiori esponenti della socialdemocrazia europea, da Engels a Kautsky, da Bebel alla Zetkin.

Chiunque venga a Milano, va a trovarla nel suo salotto sotto le guglie del Duomo. Così anche i giovani socialisti e le donne. La sua vita matura è ricca di amicizie, di affetti, di rapporti politici e personali. Tra tutti, centrale quello con la figlia Andreina, ragazza fragile, forse segnata dall’infanzia difficile, che, disinteressata al socialismo e all’emancipazione femminile, ha idee e desideri tutti diversi dai suoi. Quando Andreina deciderà per amore, e anche per convinzione, di fare un matrimonio religioso con un giovane della buona e cattolica borghesia milanese, Anna la difenderà dal padre, irritato e deluso: «Sì, hai ragione è una gran malinconia di dover convincersi che noi non siamo i nostri figli, e che essi vogliono far la loro vita, astrazione fatta dai genitori, come l’abbiamo fatta noi ai nostri tempi [...]. D’altronde come buoni e convinti socialisti dobbiamo rispettare anche la volontà e l’individualità dei nostri figli».

Il matrimonio, scandaloso alla rovescia, tanto da finire sui giornali, fu in verità un sollievo per Anna, che era tormentata dai sensi di colpa, per aver esposto la figlia, a causa delle proprie scelte, ad essere rifiutata dalla società.

Il segno politico lasciato dalla Kuliscioff è relativo alla questione femminile; anzi al legame tra questione femminile e movimento socialista. Rispetto a questo problema aveva una netta impostazione teorica, e una strategia politica conseguente. Con ispirazione marxista ortodossa, pensava che la questione femminile fosse un aspetto di quella sociale, che si sarebbe risolta con l’emancipazione del proletariato. Il suo pensiero è espresso in una conferenza tenuta nel 1890 al Circolo filosofico di Milano, e intitolata Il monopolio dell’uomo, e in numerosi altri scritti. Le donne sono, nella società moderna, gli ultimi paria, tenuti in uno stato di dipendenza che provoca un parassitismo morale. L’indipendenza economica è l’unica via per superare questa situazione e per conquistare libertà, dignità, rispetto. Senza di essa anche i diritti resterebbero lettera morta. Con ciò la Kuliscioff rifiuta la priorità della lotta per i diritti, differenziandosi dal femminismo “borghese”: «la questione femminile non è antagonismo dei sessi, ma questione ancor essa essenzialmente economico-sociale»; l’emancipazione femminile è quindi da assimilare alla rivoluzione proletaria, che, «sopprimendo le differenze di classe, porrà un termine eziandio alle leggi eccezionali contro la donna».

Coerentemente, fu polemica con il femminismo, che poteva essere inteso solo come un sintomo di una nuova fase della questione sociale: «Socialismo e feminismo [sic], se possono essere correnti sociali parallele, non faranno però mai una causa sola». Il socialismo infatti, «pur ammettendo l’inferiorità sociale di tutte le donne, non può far propria la loro causa astraendo da ogni distinzione e antagonismo di classi».

Alla questione teorica delle classi si accompagnava però una motivazione del tutto politica. La Kuliscioff pensava che le donne avessero un enorme potenziale di lotta: il Partito doveva legarle a sé inserendo i loro obiettivi nel suo programma. E su questo criticava ferocemente il Partito socialista italiano, che a differenza di quello tedesco tardava a capire che le donne erano la metà del proletariato.

Emblematica la «polemica in famiglia» che la oppone a Turati nel 1910, a proposito del voto alle donne. È in corso il dibattito che porterà alla legge istitutiva del suffragio universale maschile, nel 1912. La Kuliscioff sostiene che il Partito socialista deve avere come obiettivo il suffragio universale dei due sessi («il voto è la difesa del lavoro e il lavoro non ha sesso», è la sua lapidaria affermazione); ma Turati non è convinto, obietta che le donne tacciono, non sono politicamente attive, e che agitare una prospettiva del genere potrebbe indebolire e ritardare il suffragio maschile. Anna risponde che il Partito, rinunciando alla mobilitazione delle donne per il suffragio, dimezza da solo le sue forze, e si priva di una iniezione di giovinezza che potrebbe venirgli da una campagna di massa tra le donne. Inoltre, teme che scegliendo un approccio gradualista piuttosto che di principio si dia spazio a soluzioni inaccettabili, come quella di un voto limitato ad alcune fasce di donne. Infine, al congresso di Modena nel 1911 riesce a fare inserire nel programma del Partito il voto alle donne, conquistando finalmente l’appoggio di alcuni importanti dirigenti. È la sua più importante vittoria politica.

L’epistolario ci mostra una dirigente convinta nella sua adesione al riformismo, ma insieme poco propensa a vedere assorbita la politica nella tattica parlamentare, e pronta a rimproverare per questo Turati (che fu per molti anni presidente del gruppo socialista alla Camera).

Sempre autonoma nelle sue idee e spesso più rapida a cogliere i punti essenziali, Anna scriveva, rimproverava, consigliava, talvolta ordinava. E non solo Turati era l’oggetto di questa intensissima attività, ma anche gli altri leader riformisti: Treves, Bissolati, Bonomi. Poco portata ai giochi di potere o di corridoio, non approvò mai i cedimenti del gruppo riformista, che lo portarono in una posizione di debolezza e infine all’espulsione dal Partito. Consigliava una linea politica più chiara e più flessibile insieme. Si batteva per un maggiore impegno culturale e dell’organizzazione di massa. Era molto sensibile - più di quanto mediamente fosse il gruppo riformista - agli specifici problemi della società italiana: la debolezza delle classi dirigenti, la presenza di una massa di contadini in condizioni di grande arretra tezza.

Il massimo della sua sensibilità politica - ma anche la sua sostanziale impotenza - si manifestò in occasione della guerra. Senza essere proprio interventista (non avrebbe mai potuto prendere una posizione così dirompente), Anna non approvò il neutralismo socialista, sentendo la necessità di uno schieramento a favore dell’Intesa, e sentendo vivamente la necessità di sostenere, anche da socialisti, la difesa della patria. La irritavano le acrobazie parlamentari dei socialisti, stretti tra la destra di Bissolati (e di Giolitti) e la sinistra rivoluzionaria, pacifista senza riserve: «Mentre sul confine francese si decide forse della sorte stessa della guerra, come vuoi che possano non dico appassionare, ma interessare, le vostre scaramucce pro e contro Salandra?». Dopo la rivoluzione del febbraio 1917, che eliminava l’imbarazzante presenza del l’autocrazia russa nel campo delle democrazie, la sua convinzione fu ancora più forte, e tentò, invano, di portare i riformisti ad appoggiare i quattordici punti di Wilson.

Ma era ormai la stagione del declino: per lei, per il socialismo, per la libertà degli italiani. I suoi ultimi anni furono amareggiati dalle scissioni del Partito, dall’avvento del fascismo, dalla morte di Matteotti, uno dei “suoi giovani”.

Il suo funerale, il 30 dicembre del 1925, fu una delle ultime manifestazioni politiche socialiste. Non mancò, tra la commozione degli amici, degli operai, delle donne, l’attacco squadrista dei fascisti, che strapparono nastri e corone e fecero ondeggiare la bara, portata a spalle al Cimitero monumentale.

Claudia Mancina