» Contessa Lara (Cattermole Evelina)  
1849 - 1896
 


 

 

Erano le sette di sera di martedì 1 dicembre 1896. La notizia fece subito il giro di tutta Roma. Per giorni, in città, non si parlò e non si scrisse d’altro: la bellissima e inquieta Contessa Lara, famosa per le sue liriche lievi, eleganti e sensuali, per le tante rubriche femminili, per i racconti, per i romanzi, e per i delicati libri per bambini, era stata barbaramente assassinata. Uccisa a 47 anni da un colpo di pistola sparato dal suo giovane amante, Giuseppe Pierantoni, detto Bubi.

I più informati sapevano che Bubi lo aveva fatto per denaro. Anche se al processo il suo avvocato, Cesare Lombroso alla mano, sostenne che era stato per gelosia: lei era una donna priva di qualsiasi freno morale, disse. Era isterica, bugiarda, ipocritamente pietosa, sessualmente instabile, lo provava il fatto che aveva sempre amato più le bestie degli uomini e che solo a loro aveva saputo esser fedele. Altri dissero invece che lui, giovane pittore squattrinato, amava il lusso e le belle cose senza potersele permettere, e che l’aveva sempre sfruttata approfittando della sua vulnerabilità e del suo desiderio d’essere amata. E raccontarono come lei per due anni gli avesse concesso tutto – o quasi – e come poi si fosse finalmente decisa a farla finita con quell’amore malato. Per questo ora era morta. Sola, e ricordata da tutti con un nome non suo. Lei, che non era né contessa, né Lara.

Era Eva Giovanna Antonietta Cattermole, o più semplicemente Evelina. Ma da più di vent’anni aveva deciso di non esserlo più, e di dimenticare lo scandalo che era stato legato al suo nome. Dal 1883, quando era apparsa la sua seconda raccolta di poesie, aveva scelto di firmarsi con lo “pseudonimo romantico” – come lo definì Benedetto Croce – di Contessa Lara. La sua prima raccolta di versi (Canti e ghirlande, 1867) risaliva a un tempo lontano, e di tutti i suoi scritti fu il solo a portare il suo vero nome.

Autrice di numerose poesie (alle due prime raccolte si aggiunsero E ancora versi, 1886 e Nuovi versi, pubblicata postuma nel 1897), di novelle (Cosi è, 1887, Storie d’amore e di dolore, 1891 e Storie di Natale, novelle per fanciulli, pubblicato un anno dopo la sua morte), e di romanzi (Una famiglia di topi, romanzo per fanciulli, 1886, e L’innamorata, 1892), la Contessa Lara fu anche, e soprattutto, una popolarissima giornalista: di grande talento, e a tutto tondo.

Cronista, redattrice, titolare di rubriche femminili (di moda, di costume, di bon ton, di arredamento, di cuore, tra cui “Lettera aperta alle signore”, “Il Taccuino femminile”, “Il Galateo della Signora”), fu tra le poche donne italiane ad essere iscritte all’Albo della Stampa. Come alla sua morte ricordò Olga Ossani, amica e collega, «ella volle guadagnarsi la vita, guadagnarsela colla dura professione del giornalismo, mal retribuito, insidiato, sospettato. In una decina d’anni [scrisse] centinaia e centinaia di articoli, per tutti i giornali, su tutti gli argomenti, chiedendo lavoro a quanti poteva incontrare, non mercanteggiando mai, rassegnata a quel che le era dato, pur di vivere».

Lei, che non aveva mai lavorato, nel 1876 aveva deciso di trasformare il suo amore per la scrittura in uno strumento di lavoro, ed era riuscita ad espugnare quella roccaforte maschile che era il mondo dei giornali sostenendo il diritto di ogni donna ad essere giudicata professionalmente, e trattata economicamente, al pari di un uomo. Estranea alle rivendicazioni del movimento emancipazionista femminile, la Contessa Lara, di fatto, ne divenne interprete per bisogno. Fu questo, accanto ai suoi tanti amori e alle sue scelte di vita cosi diverse da quelle che allora ci si aspettava da una donna, a far di lei una delle tante “donne nuove” che proprio in quegli anni cominciavano ad affacciarsi sulla scena, e di cui tanto si cominciava a parlare. Per lei, parlò sempre la sua vita.

Evelina era nata a Firenze nel 1849. Suo padre Guglielmo era di origini scozzesi. Prima di trasferirsi a Firenze con i figli avuti da due differenti matrimoni era vissuto a Cannes, dove aveva rivestito un modesto incarico consolare. A Firenze aveva trovato impiego come insegnante di inglese e di francese, e aveva sposato una giovane pianista di origini russe, Elisa Sandusch. Da questo nuovo matrimonio era nata Evelina.

Tre figli, da tre diversi matrimoni, per un uomo sempre pieno di debiti che amava di pingere acquerelli per turisti firmandoli Kattermole, con la kappa, per darsi un tocco di esotico. Da lui la piccola Evelina aveva imparato il disegno e le lingue straniere, dalla madre a suonare con grazia il pianoforte, mentre lo studio della letteratura e della grammatica italiana, scoperta la sua precoce passione per la poesia, era stato affidato a Marianna Giarrè, figlia di un noto maestro di calligrafia. Grazie a Marianna, che scriveva versi ed era un’assidua frequentatrice di letterati e di poeti, Evelina era stata introdotta da adolescente nei migliori salotti fiorentini. Si racconta che fosse una giovane bellissima, con un corpo esile e perfetto, una nuvola di capelli biondi che incorniciavano l’ovale del viso, e che avesse dei profondi occhi scuri, resi ancor più misteriosi da un’accentuata miopia.

Romantica, colta e raffinata, era divenuta presto l’assidua e richiestissima ospite di casa Giarrè, del rinomato salotto dei Rattazzi, dei prestigiosi salotti di Emilia Peruzzi, della principessa Elisa Poniatowska, e di Laura Beatrice Oliva, moglie di Pasquale Stanislao Mancini. Fu lì che Evelina conobbe Eugenio, il bell’ufficiale, e che tutto ebbe inizio.

Quella sera si festeggiava il compleanno della padrona di casa. Era il 17 gennaio del 1867. A Evelina era stato chiesto di anticipare la lettura di alcune poesie del suo Canti e Ghirlande, prossimo alle stampe. E lei aveva pregato il figlio della festeggiata di recitarne una, accompagnandolo al piano. A tutti fu subito chiaro che Eugenio si era perdutamente innamorato di lei, e che i Mancini non ne erano affatto felici. Evelina era certo d’animo nobile e sensibile, ma restava pur sempre una ragazza di origini modeste, che portava in dote soltanto la sua bellezza. Da quanto sembrò da quella sera, e nei giorni successivi, lei tuttavia non pareva per nulla interessata a incoraggiare Eugenio, e presto quella di lui sembrò esser stata solo una sbandata passeggera. Tutt’altro. Quattro anni dopo quel loro primo incontro, morta Laura Beatrice Oliva e vinte le resistenze del padre, ormai senatore, l’aitante tenente che aveva partecipato alla presa di Roma e la bellissima poetessa si sposarono.

Seguendo il destino del marito Evelina lasciò Firenze, e si trasferì prima a Napoli e poi a Milano, dove i due si stabilirono dal 1873. Ben presto si aprirono loro i migliori salotti della città: lui rappresentante perfetto degli ideali risorgimentali, figlio di uno dei più noti esponenti politici del tempo. Lei, raffinata interprete della vena romantica così tanto alla moda, ammirata da tutti per il suo talento e per la sua bellezza: «Lieve nel passo e sottile come silfo, magnetica nello sguardo, ammaliante nel fine sorriso [...] quando si presenta alla Scala i cannocchiali s’appuntano verso di lei. Quando arriva nel salotto Maffei nel suo abito trasparente di velo rosso, i crocchi tacciono: ognuno l’ammira. È una poetessa, sposa felice, Evelina Cattermole, ed è accompagnata talora dal marito».

Così scrisse di lei Raffaello Barbiera. Sposa felice, ma accompagnata solo talvolta dal marito. Il capitano Mancini, soldato senza guerra, col passare dei mesi sembrava sempre più infastidito dalla vita sociale, e da una moglie sempre al centro della scena. Meglio le carte, le serate tra amici, e donne meno ammirate di Evelina. All’inizio il fatto che lei comparisse in pubblico anche senza il marito non destò alcuno scalpore. Spesso al suo fianco vi era l’affascinante Giuseppe Bennati di Baylon, un giovane veneziano segretario capo del Banco di Napoli, e intimo amico di Eugenio.

Fu di lui che Evelina si innamorò perdutamente, e ricambiata. Del loro amore proibito era consapevole solo Giuseppina Dones, la sua cameriera personale. E fu proprio lei a condurre un giorno Eugenio all’appartamento dove i due amanti si incontravano. Alla scoperta, seguì l’inevitabile duello. Giuseppe restò gravemente colpito.

Il primo giugno del 1875, mentre lui ancora lottava tra la vita e la morte, Evelina firmò un patto di separazione dal marito. L’adultera avrebbe ricevuto un modesto assegno, e doveva lasciare immediatamente Milano. Cosa che fece l’indomani. La vicenda, vista la notorietà dei protagonisti, fu subito sulla bocca di tutti. Più scandalosa di quella di Madame Bovary, la definirono nel salotto di Clara Maffei.

Lasciata Milano per Firenze Evelina scoprì di non aver più una casa in cui tornare. Dopo la morte di sua madre Guglielmo Cattermole si era infatti risposato, e aveva avuto altri figli. Lo scandalo, ampliato dai piccanti resoconti dei cronisti, lo aveva già raggiunto. Evelina era una disonorata, indegna di far parte della sua nuova famiglia. Ma c’era Giuseppe, si diceva Evelina, che “era quasi guarito”, come le aveva assicurato un amico comune, e che l’avrebbe presto raggiunta. Così non fu: solo pochi giorni dopo il suo arrivo a Firenze Evelina seppe che non era sopravvissuto. Disperata, fece ritorno a Milano in gran segreto: sul treno che la riportò a Firenze, indossava un turbante: i suoi lunghi capelli biondi erano rimasti sulla tomba di Giuseppe, avvolti in una ghirlanda di rose.

Tornata in città vagabondò da un appartamento all’altro con Miss e Ilarin, i suoi due topolini bianchi, e le sue bambole. Erano come dei figli, per lei che mai ne poté avere. Passati alcuni mesi Evelina si trasferì a vivere dalla nonna. Ora aveva un posto in cui tornare, questo sì, ma non di che vivere: come liquidazione aveva ricevuto dal marito poche cose, e l’impegno di un ancor più misero vitalizio mensile. A ventisei anni, sola, doveva reinventarsi una vita. Fu allora che si decise. Molti uomini si mantenevano scrivendo sui giornali. Perché non avrebbe potuto provarci anche lei? Sapeva cavarsela con le parole e conosceva bene l’animo femminile: avrebbe scritto una rubrica per le donne.

L’occasione non tardò a presentarsi. Eugenio Torelli Viollier aveva da poco fondato il Corriere della Sera e cercava collaboratori e idee nuove. Evelina aveva conosciuto sua moglie Maria a Milano, nel salotto della Maffei. Si erano subito piaciute, Lara e la futura Marchesa Colombi, e lei sembrava esser stata tra le poche ad aver capito quanto le era accaduto. Inviò dunque all’amica la sua proposta. Aveva pensato anche ad un titolo, per la rubrica, e vi aveva aggiunto un testo. Le sue speranze non andarono deluse. Il 28 marzo del 1876, solo tre settimane dopo la prima uscita del nuovo giornale, apparve la prima delle sue tante lettere alle signore, che Evelina firmò con lo pseudonimo La Moda. La rubrica piacque molto. Evelina cercò altre testate disposte ad ospitare i suoi scritti, e le trovò: al Corriere della Sera si aggiunse il Pungolo, La Tribuna Illustrata, Il Fieramosca. Si firmava allora Lina de Baylon, in memoria dell’uomo che aveva amato. E a queste, se ne aggiunsero via via molte altre, in ogni città.

Col passare del tempo Evelina incontrava sempre meno problemi a farsi accettare. A Firenze come altrove. Ricominciò ad essere accolta nei migliori salotti e a frequentare feste e teatri, richiestissima, come ai tempi di Milano, quando era l’ammirata signora Mancini. Nonostante non lo fosse più restava bellissima, e il suo scandaloso passato da feuilleton la faceva ancora più affascinante, sollecitando le fantasie di molti uomini e la curiosità delle sue fedeli lettrici. Vennero allora nuovi amori e furono tanti, più o meno noti, chiacchierati e tormentati.

Mentre scriveva le sue rubriche, Evelina continuava a comporre poesie, nella speranza di poter trovare un giorno un editore disposto a pubblicarle. Infine, lo trovò: nel 1883 per Angelo Sommaruga venne alla luce la raccolta Versi, un libro «ardente in cui l’amore, la passione sfida le ipocrisie, e spezzando le catene delle convivenze sociali, ne getta i frantumi in volto alla società», come recitava la recensione di Raffaello Barbiera sull’Illustrazione Italiana. Fu proprio Barbiera il primo a scoprire chi si celava sotto lo pseudonimo con cui il volume era stato dato alle stampe, Contessa Lara. Ora la storia di amore e di morte raccontata in quei versi aveva trovato un volto. Il che aiutava le vendite. Le prime mille copie della raccolta andarono esaurite in pochi giorni. La Contessa Lara stava diventando famosa. Da allora, quello divenne il suo nome. «Vi prego - diceva Lara ai suoi giovani colleghi - non scrivete più in corsivo Contessa Lara, come se fosse uno pseudonimo perché, voi sapete, io non ho altro nome nel mondo».

Poco dopo l’uscita di Versi, la Cattermole aveva lasciato Firenze per Roma. E lì, dopo tanti amori inutili, si era scoperta di nuovo innamorata. Lui aveva undici anni in meno, era Giovanni Alfredo Cesareo, e come lei amava scrivere. A quei tempi Giovanni non era ancora un poeta conosciuto, e collaborava come cronista al Nabab. Era un uomo serio, pacato e gentile. Vissero insieme per più di dieci anni. Anni intensi per Evelina, anni in cui tutto sembrò aver preso la piega giusta. Poi, nel novembre del 1894, lui la lasciò. Le disse che l’aveva sempre amata e che l’amava ancora, ma che proprio per questo non poteva più tollerare i suoi tanti tradimenti. Nonostante tutto, erano continuati.

La Contessa Lara tornò dunque sola, proprio come sola era stata a lungo Evelina. Da allora, si disse, cominciò a lasciarsi andare, e a farsi vedere in giro sempre meno. Questo senza però mancare mai ai suoi tanti impegni di lavoro. La Vita italiana le aveva affidato una rubrica di moda che chiedeva delle illustrazioni, e queste erano state commissionate a un giovane pittore, Giuseppe Pierantoni, che da poco si era trasferito da Napoli a Roma e lavorava al giornale come figurinista. A Lara fu chiesto di incontrarlo per concordare insieme i figurini da disegnare. E lei accettò. Quello che accadde in seguito lo conosciamo. Se Evelina scontò il suo primo amore con l’esilio, la Contessa Lara lo fece con la vita.

Alla sua morte un’ondata di commozione scosse tutti, e furono versati fiumi di retorica. Anche coloro che un tempo avevano ridicolizzato il suo modo di far poesia ora la trovavano eccelsa. Chi meglio di altri allora sembrò capirla fu Raffaello Barbiera: «Non sempre i versi della Contessa Lara, presi uno a uno, sono modelli supremi come fattura, no; ma nel loro insieme rispondono a parte della vita sociale, della vita moderna sia pur ipocrita, peccaminosa; hanno le nostre miserie; qualche palpito nostro, qualche nostro fremito».

Simona Trombetta