» Coffa Mariannina  
1841 - 1878
 


 

 

La poetessa siciliana, definita “la capinera di Noto” per alcune somiglianze delle sue vicende biografiche con l’eroina dell’omonimo romanzo verghiano, fu una bambina sensitiva e precocemente ispirata che il padre, noto avvocato e patriota frammassone, impegnato in ruoli di primo piano nelle rivoluzioni del 1848 e del 1860, si compiaceva di fare esibire nei salotti e nelle accademie con le sue poesie improvvisate su temi dettati in modo estemporaneo. Dopo qualche anno di collegio laico per signorine, nel quale imparò versificazione e un po’ di francese, mentre – com’ebbe a lagnarsi in seguito – solo ai suoi fratelli fu fatto studiare anche il latino, le fu messo accanto come precettore un canonico dotto e zelante, Corrado Sbano, allo scopo di istruirla e disciplinare insieme gli slanci del carattere malinconico e dell’estro focoso.

A 14 anni, cominciò a prendere lezioni di piano dal venticinquenne Ascenso Maceri, diplomato al Conservatorio di Napoli, vicino all’ambiente del ministro Matteo Raeli – l’estensore della Legge sulle Guarentigie – e autore di drammi storici che saranno rappresentati alla Fenice di Venezia. E fu subito innamoramento tra queste due giovani promesse, questi due figli del secolo ammalato di byronismo. Malgrado la differenza di età e anche di status, il bell’Ascenso, alto, biondo, dai modi aristocratici, l’aria sofferta da bohémien, era un intellettuale di sicuro avvenire, pupillo del ministro e cicisbeo delle donne di casa Raeli, nel salotto più esclusivo della città, sicché la famiglia Coffa acconsentì in un primo momento al fidanzamento, sottoscrivendo la promessa di matrimonio. Ma, a un certo punto, impose alla figlia di troncare quel fidanzamento e sposare, a 18 anni, un partito più vantaggioso: un ricco proprietario terriero di Ragusa, tal Giorgio Morana, che la recluderà nella casa del padre, un vecchio, rozzo e avaro despota, il quale le impedirà persino di scrivere, ritenendo che «lo scrivere rende le donne disoneste» (Lettera di Mariannina ad Ascenso, Ragusa 17 gennaio 1870). Sarà costretta a scrivere le sue poesie di notte, nella sua camera da letto, alla flebile luce di una candela, mentre il suocero aprirà e distruggerà gran parte della corrispondenza a lei indirizzata.

Intanto, tra le continue gravidanze che tormentano il suo gracile corpo, il dolore per la morte di due figlie in tenerissima età, la cura dei figli e i pesanti lavori di casa, la malmariée intreccerà una relazione epistolare con l’orgoglioso fidanzato di un tempo, che non le perdonerà mai la supina resa al volere dei genitori e il rifiuto della “fuitina” (la fuga a scopo di matrimonio) da lui propostale a suo tempo, e non si presenterà nemmeno all’appuntamento che lei, già donna sposata e più volte madre, gli darà, disposta a tutto. Mariannina sarà così costretta a vivere una vita sdoppiata, iscrivendosi nascostamente ad associazioni ed accademie italiane e straniere e pubblicando a volte con uno pseudonimo, per riviste nazionali, come La donna e la famiglia di Genova. L’amicizia con un dotto e geniale medico siciliano, Giuseppe Migneco, detto dai nemici “Cagliostro il piccolo”, originario di Augusta e poi residente a Catania, omeopata e magnetista, famoso per le efficaci cure prestate in occasione delle epidemie di colera, ma più volte esiliato per “esercizio di arte diabolica” e “spiritismo”, la introdurrà agli arcani del sonnambulismo e del magnetismo animale o messmerismo, anatemizzati dal Papa e coltivati all’interno di élite massoniche democratiche.

Saranno questi i sistemi, prodromi della successiva psicanalisi, ai quali la poetessa ricorrerà per cercare di curare le malattie e i disagi del suo corpo e della sua psiche. Si iscriverà a diverse Società occultiste e teosofiche italiane e straniere e, attraverso lo stesso Migneco e un suo discepolo netino, il dott. Lucio Bonfanti, medico omeopata e democratico del 1860, sarà introdotta con ruoli probabilmente di primo piano in logge massoniche swedenborghiane, misticoteosofiche e magnetiste. Ne nascerà l’ultima straordinaria, purtroppo breve, stagione poetica, fitta di riferimenti simbolici al “gran concetto” e improntata alla “protesta metafisica”, dopo la prima giovanile poesia patriottica di maniera e l’intermedia fase intimista tardoromantica. Prostrata dalle emorragie, probabile conseguenza di un cancro all’utero, abbandonerà la casa ragusana del suocero rifugiandosi a Noto, nella casa dei genitori, che non esiteranno a cacciarla via perché non ricada su di loro il disonore della separazione dal marito e dai figli, e finirà i suoi giorni tra la fame e gli stenti, assistita solo dall’anziano medico: nessun familiare vorrà pagare le prestazioni di un chirurgo catanese il cui intervento avrebbe potuto probabilmente salvarle la vita.

Pochi mesi prima di morire, quando la famiglia ragusana le porta via il figlio che alleviava la sua solitudine e confortava i suoi ultimi giorni di vita, grida in alcune lettere la sua ferma volontà di divorziare, mentre quello del divorzio è un istituto ancora molto di là da venire. La sua rassegnazione si trasforma in odio verso quei genitori i cui voleri ha supinamente eseguito, la sua obbedienza filiale si tramuta in desiderio di vendetta e giunge a invocare Dio perché le conceda ancora qualche giorno di vita per rendere pubbliche le violenze, le manomissioni, le subornazioni, le umiliazioni subite che la conducono alla morte.

Tra le sue ultime volontà, affidate al medico curante, c’è che si ordinino le sue poesie secondo “L’immortal concetto”, tenuto avvolto in una serie di allegorie e di simboli, non oscuri solo agli iniziati e fraintesi da una critica per lo più locale, incapace di scorgere al di là della facile chiave di lettura di stampo tardoromantico. Malgrado la fama di “pazza”, spiritista e sonnambula diffusasi negli ultimi tempi della sua vita, la sua città, memore di quanto da lei fatto quando fu tolto a Noto il capovallato in favore di Siracusa, dichiarò il lutto cittadino e il Comune si assunse le spese dei solenni funerali e le fece erigere la statua in marmo di Carrara sita ancora ora in Piazzetta d’Ercole, mentre i “Fratelli” della Loggia Elorina, che parteciparono al funerale della poetessa portando le insegne solenni, si prendevano cura di farne imbalsamare il corpo. Nessuno della famiglia seguì il feretro, ma una folla di autorità e gente comune accorsa a rendere l’estremo commosso omaggio alla “Saffonetina”, che sfilava per l’ultima volta tra le strade e i monumenti del “giardino di pietra”, la sua città barocca.

Marinella Fiume