» Casati Luisa  
1881 - 1957
 


 

 

«Voglio essere un’opera d’arte vivente» aveva dichiarato la marchesa Casati. E ci riuscì. Il suo corpo diventò una statua. Il suo viso un quadro. La sua conversazione una recitazione. Non ebbe abiti, ma costumi.

Come un’opera d’arte la marchesa era equidistante dallo sguardo meravigliato dell’oscuro mondano come da quello complice di Boldini o di Balla. Fu lei a trasformare Man Ray in un artista, specchiandosi nella sua macchina fotografica. Quando Ray le aveva fatto vedere la foto venuta male, la Casati ne era stata entusiasta. La carriera di fotografo surrealista di Man Ray era cominciata.

Diventare un’opera d’arte non era facile. Con una tenacia infinita adattò al suo obiettivo il modesto materiale umano di cui disponeva: un corpo magro e ossuto, un viso asimmetrico, i capelli disordinati.

Soltanto i larghi occhi verdi erano quasi all’altezza del compito, ma non abbastanza. La marchesa li aureolò di bistro e sottolineò la bellezza delle mani con giganteschi anelli.

I dati terreni della sua biografia sono marginali come la carta rispetto al libro che viene scritto su di essa. Luisa Amman era nata a Milano nel 1881 da una ricca famiglia di industriali tessili. Sposare il marchese Camillo Casati Stampa era stato per lei essenziale e irrilevante come per un attore salire sul palcoscenico su cui potrà recitare. Era uscita dalle pagine di uno dei tanti romanzi contemporanei come Minerva dal cervello di Giove. Incarnava la femme fatale di fine secolo, lucida e nevrotica, frigida e libertina, semplice e misteriosa. Non faceva visite o passeggiate, ma apparizioni.

Alternava periodi di castità a periodi di dissipazione. Si concesse a D’Annunzio, ma non fu mai sua succube. Piuttosto una collega nell’arte di affascinare la propria epoca. La “piccola amica dorata”, notavano stupiti i contemporanei, era l’unica donna di cui il Vate parlava con rispetto, «l’unica donna che mi ha sbalordito».

Nel Ritratto meduseo Alberto Martini fissò il suo paradigma estetico; immensi occhi su un viso bianco di cipria sotto il casco disordinato dei capelli. Fu lei ad assicurare nell’era iconoclasta delle avanguardie la sopravvivenza del mito della donna fatale. Van Dongen e Bakst, Cocteau e Beaton rimasero impressionati come lastre fotografiche dalla sua immagine. La sua eccentrica mise, sovraccarica d’erotismo e di mito, era il flash con cui si imprimeva nella memoria dei contemporanei. Marinetti riconobbe in lei «la più grande futurista del mondo», Cocteau «il bel serpente del paradiso terrestre».

Gli animali che la scortavano, dal tranquillo ghepardo al pitone, dal pappagallo nero al levriero verniciato di blu in pendant col cappello della padrona, rientravano tutti nel repertorio letterario e artistico della grande seduttrice.

Non bisogna però lasciarsi ingannare dalla messa in scena. Luisa Casati interpretò magistralmente la femme fatale, ipnotizzò gli uomini dosando audacemente l’abisso nero del suo sguardo e quello bianco della sua nudità. Però non rovinò nessun amante. Nessuno si suicidò davanti alla sua porta. A parte quello mai concluso con il Vate, i suoi amori rimasero al margine della sua eccezionale esistenza.

I suoi balli in maschera erano dei trionfi. Una notte scelse come salotto tutta Piazza San Marco. Lei poteva apparire travestita da Cagliostro o da serpente o passeggiare nuda in giardino, spiegando candidamente: «Io sono la Verità!». Ma anche il nudo era per lei un costume. Persino le messe nere che organizzava erano solo degli spettacoli e i lacchè neri semisvestiti o coperti di vernice dorata erano comparse nella sua incessante messa in scena.

Si spostava spesso con l’immenso bagaglio foderato di pelle di leopardo o di velluto nero. I camerieri degli alberghi di lusso dovevano fornire carne fresca per i felini e topi per i serpenti che la seguivano dappertutto, come la statua di cera gemella che si era fatta fare da una scultrice. Alle sue cene la copia, vestita con gli stessi abiti e gli stessi gioielli, sedeva vicino all’originale.

Posò a lungo nel Palais Rose, la cornice di pietra in cui aveva a lungo posato il precedente inquilino, il dandy Robert de Montesquiou, anche lui personaggio nella vita, prima che nelle pagine di Proust. Luisa fece dipingere le pareti di nero. Il ghepardo era stato sostituito da una pantera meccanica, in grado di ruggire e di roteare gli occhi, la testa e la coda. Quella fiera artificiale era la bestia araldica della marchesa, la radiografia della sua artificiosa arte di sedurre.

Gli ultimi vent’anni della vita della Casati si snodano sotto il segno della rovina fisica e finanziaria. Dissipate in follie e festeggiamenti le sue ragguardevoli sostanze, venne soccorsa da un caritatevole inglese, nel cui castello ritrovò il suo splendore e la sua aria altera. La Casatimorì povera nel 1957, dopo avere coscienziosamente sperperato il denaro che tanto disprezzava. Cecil Beaton colse, con un trabocchetto, le ultime patetiche immagini della primadonna, ormai vecchia e segnata, sotto la spessa veletta e la pelliccia di leopardo tarlata.

In realtà solo Man Ray aveva saputo cogliere il suo segreto nel ritratto «magico» del 1922. Il viso della marchesa aveva due serie di occhi sovrapposti. I primi erano fatti per essere guardati. I secondi, affioranti più in basso, servivano per controllare gli spettatori della sua parabola di cometa decadente. «O Coré» aveva scritto D’Annunzio «inafferrabile come un’ombra dell’Ade».

Giuseppe Scaraffia