» 30|Sarnico ed Aspromonte  
 


 

 
A. Gill - Caricatura di Giuseppe Garibaldi. Tratta da “Les Hommes d’Aujourd’hui” - febbraio 1879 - litografia a colori - Fondazione Spadolini - Nuova Antologia - Firenze  

Dopo il successo della spedizione dei Mille del 1860, Giuseppe Garibaldi era diventato il punto di riferimento più importante di tutto lo schieramento democratico italiano, nonostante fosse lacerato al suo interno dalle divisioni in molte correnti e fosse senza un capo riconosciuto.

Al tempo stesso era divenuto l’oggetto delle speranze dei democratici dell’Europa orientale che auspicavano una soluzione alle loro rivendicazioni nazionali sulla scia dell’impresa esemplare dei Mille.

La convinzione di fondo, diffusa anche in Italia, consisteva nella necessità di una spedizione nei Balcani – sul modello di quella siciliana del 1860 – che avrebbe messo in crisi l’Impero asburgico e avrebbe portato alla proclamazione della repubblica in Prussia.

 


 

  Bettino Ricasoli

Il governo di Bettino Ricasoli, che era divenuto primo ministro dopo la morte di Cavour, per cercare di ricomporre il conflittuale sistema politico del neonato Regno d’Italia, decise di istituire una Società di tiro a segno nazionale affidandone la presidenza al principe ereditario, futuro Umberto I, e la vicepresidenza al generale Enrico Cialdini e a Garibaldi.

Quest’ultimo, ormai attivissimo nella vita politica nazionale, il 9 marzo, assunse anche la presidenza dell’Assemblea delle associazioni democratiche e delle società operaie e, nello stesso mese di marzo, dopo che i garibaldini e i mazziniani erano confluiti nell’Associazione Emancipatrice Italiana che propugnava Roma Capitale, intraprese un lungo itinerario, accolto da un tripudio di folla, nelle principali città del Nord Italia – Monza, Como, Lodi, Parma, Cremona, Pavia, Crema, Brescia – per l’inaugurazione delle locali Società di tiro a segno.

Alla conclusione di questo percorso Garibaldi si fermò nella stazione termale di Trescore Balneario, vicino Bergamo, al confine con il Trentino, a casa di Gabriele Camozzi. Il motivo ufficiale consisteva nella cura dei reumatismi ma in realtà alcuni attivisti del Partito d’Azione iniziarono, sin da subito, a raccogliere divise e armi facendo presagire una nuova spedizione di volontari garibaldini, questa volta diretta oltre i confini dell’Impero asburgico.

La diplomazia europea si mise immediatamente in allarme, alcuni leader dell’Associazione Emancipatrice si dichiararono contrari ad un’azione rivoluzionaria e Crispi paventò addirittura il rischio che un azione fallimentare contro l’Austria si sarebbe conclusa drammaticamente con lo smembramento del neonato Regno d’Italia.

Nonostante ciò, il 14 maggio a Sarnico, sul lago d’Iseo, un centinaio di volontari si riunirono agli ordini di Francesco Nullo e dalla cittadina lacustre iniziarono a marciare verso il confine austriaco. All’altezza di Palazzolo, poco distante da Sarnico, però, l’esercito sardo bloccò immediatamente la marcia e arrestò tutti i volontari – e lo stesso Francesco Nullo –, poi rinchiusi nelle carceri di Bergamo e Brescia. Garibaldi si assunse immediatamente la responsabilità del tentativo insurrezionale e condannò l’azione dell’esercito regio che aveva arrestato i volontari.


 

 
Il Dr. Nélaton dichiara che non è necessario amputare la gamba del generale.  

Il fallimento della spedizione fece desistere da ogni azione nei Balcani. Tuttavia, dopo essere tornato in un primo momento a Caprera, Garibaldi si imbarcò il 27 giugno per Palermo, ufficialmente per andare a promuovere in Sicilia le Società di tiro a segno come in Lombardia. L’accoglienza a Palermo fu ancora più entusiastica di quella ricevuta nelle città del Nord Italia.

Gran parte delle aspettative della popolazione siciliana riguardavano, però, le difficili condizioni economiche dell’isola ma Garibaldi interpretò quell’accoglienza come una spinta per completare l’Unità d’Italia. Durante gli incontri visitò i luoghi siciliani dell’impresa del 1860, lanciò accuse di fuoco contro Napoleone III che, proteggendo il papa, era diventato, secondo Garibaldi, un «capo di briganti» e «d’assassini». Dai numerosi bagni di folla siciliani risuonò, inoltre, il grido “Roma o morte” che, ripreso subito da Garibaldi, suggellò simbolicamente la nuova impresa.

Se la stampa garibaldina esaltava l’impresa siciliana comparandola a quella del 1860, Crispi si dimostrò subito contrario alla spedizione che dalla Sicilia sarebbe dovuta risalire fino a Roma, mentre il fronte moderato, seppur contrario, sembrava disorientato di fronte all’evolversi repentino degli avvenimenti.

Certamente, però, rispetto all’impresa del 1860 si riscontravano almeno tre grandi assenze: mancavano comandanti esperti come Bixio, Medici, Cosenz e Sirtori diventati ormai ufficiali dell’esercito; scarseggiava l’appoggio dell’opinione pubblica al di fuori della Sicilia e, soprattutto, mancava l’appoggio alla spedizione da parte di uno Stato sovrano. Inoltre, in caso di attacco ai territori dello Stato pontificio, la Francia di Napoleone III avrebbe difeso la Città Eterna con il corpo di truppe che aveva lasciato a protezione del papato.

 

 
Garibaldi ferito sull’Aspromonte - 1870 - litografia acquarellata - Fondazione Spadolini - Nuova Antologia - Firenze  

Nonostante queste difficoltà, l’organizzazione della nuova spedizione era ormai partita. A Misterbianco, nei pressi di Catania, il 19 agosto, Garibaldi venne accolto da una folla in delirio, mentre il 24, lanciò un proclama agli italiani accusando il governo di voler la guerra civile.

Infine, dopo aver raccolto armi, munizioni e vettovaglie, s’impadronì di due piroscafi, il Dispaccio e il Generale Abbatucci, con i quali, eludendo la sorveglianza, sbarcò la mattina del 25 a Melito, in Calabria, come nel 1860, al comando di circa 2 mila uomini.

Il governo italiano, come a Sarnico nel maggio precedente, decise di intervenire prima che le truppe garibaldine avessero passato il confine e inviò il generale Cialdini a fermare Garibaldi. Cialdini, il 26 agosto, si incontrò a Napoli con il generale La Marmora per organizzare un corpo militare che si opponesse agli insorti. Dai numerosi reparti dell’esercito dislocati nel Mezzogiorno continentale venne formata una colonna di 7 battaglioni agli ordini del colonnello Emilio Pallavicini di Priola che si diresse verso la Calabria per bloccare i volontari garibaldini.

La risalita della penisola si era rivelata subito ben più difficile del previsto. La città di Reggio Calabria, infatti, era ben presidiata dall’esercito mentre sulla costa i volontari erano stati sorpresi da un bombardamento della flotta regia che li aveva costretti a muoversi nell’entroterra calabro. Garibaldi fu obbligato a risalire verso l’Aspromonte dove, dopo due giorni di marce estenuanti, venne avvistato da alcuni reparti del colonnello Pallavicini.

Lo stesso giorno, la mattina del 29 agosto, si svolse un rapido scontro a fuoco nel quale morirono una dozzina di militi, 7 soldati regi e 5 volontari, e si registrarono poco più di trenta feriti, tra cui Giuseppe Garibaldi. Alla notizia che Garibaldi era stato ferito, il combattimento ebbe immediatamente fine.

Colpito ad un malleolo, dopo una difficile discesa dall’Aspromonte, venne trasportato dalla pirofregata Duca di Genova nel forte di Varignano, presso La Spezia, un antico lazzaretto e uno stabilimento penitenziario dove venne alloggiato insieme alla famiglia e ai suoi ufficiali.

La convalescenza di Garibaldi fu lunghissima perché la ferita al malleolo non si cicatrizzava e solamente a distanza di circa un anno riuscì a riprendere una normale capacità di movimento.