» 1820-1847  
 
Il giuramento di Pontida
 

di Giovanni Berchet

L'han giurato li ho visti in Pontida
convenuti dal monte e dal piano.
L'han giurato e si strinser la mano
cittadini di venti città
Oh spettacol di gioia! I Lombardi
son concordi, serrati a una Lega.
Lo straniero al pennon ch'ella spiega
col suo sangue la tinta darà.
Più sul cener dell'arso abituro
la lombarda scorata non siede.
Ella è sorta. Una patria ella chiede
ai fratelli, al marito guerrier.
L'han giurato. Voi donne frugali,
rispettate, contente agli sposi,
voi che i figli non guardan dubbiosi,
voi ne' forti spiraste il voler.
Perchè ignoti che qui non han padri
qui staran come in proprio retaggio?
Una terra, un costume, un linguaggio
Dio lor anco non diede a fruir?
La sua patria a ciascun fu divisa.
E' tal dono che basta per lui.
Maledetto chi usurpa l'altrui,
chi il suo dono si lascia rapir.
Sù Lombardi! Ogni vostro Comune
ha una torre, ogni torre una squilla:
suoni a stormo. Chi ha un feudo una villa
co' suoi venga al Comun ch'ei giurò
Ora il dado è gettato. Se alcuno
di dubbiezze ancora parla prudente,
se in suo cor la vittoria non sente,
in suo cuore a tradirvi pensò.
Federigo? Egli è un uom come voi.
Come il vostro è di ferro il suo brando.
Questi scesi con esso predando,
come voi veston carne mortal.
- Ma son mille più mila - Che monta?
Forse madri qui tante non sono?
Forse il braccio onde ai figli fer dono,
quanto il braccio di questi non val?
Su! Nell'irto increscioso allemanno,
su, lombardi, puntate la spada:
fare vostra la vostra contrada
questa bella che il cel vi sortì.
Vaghe figlie del fervido amore,
chi nell'ora dei rischi è codardo,
più da voi non isperi uno sguardo,
senza nozze consumi i suoi dì.
Presto, all'armi! Chi ha un ferro l'affili;
chi un sopruso patì sel ricordi.
Via da noi questo branco d'ingordi!
Giù l'orgoglio del fulvo lor sir
Libertà non fallisce ai violenti,
ma il sentier de' perigli ell'addita;
ma promessa a chi ponvi la vita
non è premio d'inerte desir.
Giusti anch'ei la sventura, e sospiri
l'allemanno i paterni suoi fuochi;
ma sia invan che il ritorno egli invochi,
ma qui sconti dolor per dolor.
Questa terra ch'ei calca insolente,
questa terra ei morda caduto;
a lei volga l'estremo saluto,
e sia il lagno dell'uomo che muor.

Il Brigidino
 

di Francesco Dall'Ongaro

E lo mio damo se n'è no a Siena,
M'ha porto il brigidin di due colori.
Il bianco gli è la fé che c'incatena,
Il rosso l'allegria de' nostri cuori.
Ci metterò una foglia di verbena
Ch'io stessa alimentai di freschi umori.
E gli dirò: che il rosso, il verde il bianco
Gli stanno bene con la spada al fianco.
E gli dirò: che il bianco, il verde, il rosso
Vuol dir che Italia il suo giogo l'ha scosso.
E gli dirò: che il rosso, il bianco il verde
Gli è un terno che si gioca e non si perde!

All'armi! All'armi!
 

di Giovanni Berchet

 

Su, Figli d'Italia! su, in armi! coraggio!
Il suolo qui è nostro; del nostro retaggio
Il turpe mercato finisce pei re ;
Un popol diviso per sette destini,
In sette spezzato da sette confini,
Si fonde in un solo, più servo non è.

Su, Italia! su, in armi! Venuto ò il tuo di!
Dei re congiurati la tresca finì!


Dall'Alpi allo stretto fratelli siam tutti!
Su i limiti schiusi, su i  troni distrutti
Piantiamo i comuni tre nostri color!
Il verde, la speme tant'anni pasciuta;
Il rosso, la gioia d'averla compiuta;
Il bianco, la fede fraterna d'amor.
Su, Italia! su in armi! Venuto è il tuo dì!
Dei re congiurati la tresca finì!

Gli orgogli minuti via tutti all'oblio
La gloria è de'forti. - Su, forti, per Dio,
Dall'Alpi allo stretto, da questo a quel mar!
Deposte le gare d'un secol disfatto,
Confusi in un nome, legali a un sol patto,
Sommessi a noi soli giuriam di restar.
Su, Italia! su in armi! Venuto è il tuo dì!
Dei re congiurati la tresca finì!

Su, Italia novella! su, libera ed una!
Mal abbia chi a vasta, sicura fortuna
L'angustia prepone d'anguste città!
Sien tutta le fide d'un solo stendardo!
Su, tutti da tutti! Mal abbia il codardo,
L'inetto che sogna parzial libertà!

Su, Italia! su in armi! Venuto è il tuo dì!
Dei re congiurati la tresca fini!

 

Voi chiusi nei borghi, Voi sparsi alla villa,
Udite le trombe, sentite la squilla
Che all'armi vi chiama del vostro Comun!
Fratelli, a' fratelli correte in aiuto!
Gridate al tedesco che guarda sparuto:
 L'Italia è concorde; non serve a nessun.

All'Italia
 

di Giacomo Leopardi


O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè quante ferite,
Che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite dite;
Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata
E nella fausta sorte e nella ria.
Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto
Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Che fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,
Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: già fu grande, or non è quella?
Perché, perché? dov'è la forza antica,
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?
Chi ti tradì? qual arte o qual fatica
O qual tanta possanza
Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando
Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl'italici petti il sangue mio.
Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi
E di carri e di voci e di timballi:
In estranie contrade
Pugnano i tuoi figliuoli.
Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
Un fluttuar di fanti e di cavalli,
E fumo e polve, e luccicar di spade
Come tra nebbia lampi.
Né ti conforti? e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
L'itala gioventude? O numi, o numi:
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari,
Ma da nemici altrui
Per altra gente, e non può dir morendo:
Alma terra natia,
La vita che mi desti ecco ti rendo.
Oh venturose e care e benedette
L'antiche età, che a morte
Per la patria correan le genti a squadre;
E voi sempre onorate e gloriose,
O tessaliche strette,
Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggere
Con indistinta voce
Narrin siccome tutta quella sponda
Coprìr le invitte schiere
De' corpi ch'alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,
Serse per l'Ellesponto si fuggia,
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salia,
Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lacrime sparso ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglieasi in man la lira:
Beatissimi voi,
Ch'offriste il petto alle nemiche lance
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell'armi e ne' perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
Qual nell'acerbo fato amor vi trasse?
Come sì lieta, o figli,
L'ora estrema vi parve, onde ridenti
Correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch'a danza e non a morte andasse
Ciascun de' vostri, o a splendido convito:
Ma v'attendea lo scuro
Tartaro, e l'onda morta;
Né le spose vi foro o i figli accanto
Quando su l'aspro lito
Senza baci moriste e senza pianto.
Ma non senza de' Persi orrida pena
Ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
Or salta a quello in tergo e sì gli scava
Con le zanne la schiena,
Or questo fianco addenta or quella coscia
Tal fra le Perse torme infuriava
L'ira de' greci petti e la virtute.
Ve' cavalli supini e cavalieri;
Vedi intralciare ai vinti
La fuga i carri e le tende cadute
E correr fra' primieri
Pallido e scapigliato esso tiranno;
Ve' come infusi e tinti
Del barbarico sangue i greci eroi,
Cagione ai Persi d'infinito affanno,
A poco a poco vinti dalle piaghe,
L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva:
Beatissimi voi
Mentre nel mondo si favelli o scriva.
Prima divelte, in mar precipitando,
Spente nell'imo strideran le stelle,
Che la memoria e il vostro
Amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando
Verran le madri ai parvoli le belle
Orme del vostro sangue. Ecco io mi prostro,
O benedetti, al suolo,
E bacio questi sassi e queste zolle,
Che fien lodate e chiare eternamente
Dall'uno all'altro polo.
Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle
Fosse del sangue mio quest'alma terra.
Che se il fato è diverso, e non consente
Ch'io per la Grecia i moribondi lumi
Chiuda prostrato in guerra,
Così la vereconda
Fama del vostro vate appo i futuri
Possa, volendo i numi,
Tanto durar quanto la vostra duri.
 

Marzo 1821
 

di Alessandro Manzoni

     Soffermati sull’arida sponda
vòlti i guardi al varcato Ticino,
tutti assorti nel novo destino,
certi in cor dell’antica virtù,
han giurato: non fia che quest’onda
scorra più tra due rive straniere;
non fia loco ove sorgan barriere
tra l’Italia e l’Italia, mai più!
     L’han giurato: altri forti a quel giuro
rispondean da fraterne contrade,
affilando nell’ombra le spade
che or levate scintillano al sol.
Già le destre hanno strette le destre;
già le sacre parole son porte;
o compagni sul letto di morte,
o fratelli su libero suol.

     Chi potrà della gemina Dora,
della Bormida al Tanaro sposa,
del Ticino e dell’Orba selvosa
scerner l’onde confuse nel Po;
chi stornargli del rapido Mella
e dell’Oglio le miste correnti,
chi ritorgliergli i mille torrenti

     quello ancora una gente risorta
potrà scindere in volghi spregiati,
e a ritroso degli anni e dei fati,
risospingerla ai prischi dolor;
una gente che libera tutta
o fia serva tra l’Alpe ed il mare;
una d’arme, di lingua, d’altare,
di memorie, di sangue e di cor.

     Con quel volto sfidato e dimesso,
con quel guardo atterrato ed incerto
con che stassi un mendico sofferto
per mercede nel suolo stranier,
star doveva in sua terra il Lombardo:
l’altrui voglia era legge per lui;
il suo fato un segreto d’altrui;
la sua parte servire e tacer.

     O stranieri, nel proprio retaggio
torna Italia e il suo suolo riprende;
o stranieri, strappate le tende
da una terra che madre non v’è.
Non vedete che tutta si scote,
dal Cenisio alla balza di Scilla?
non sentite che infida vacilla
sotto il peso de’ barbari piè?

     O stranieri! sui vostri stendardi
sta l’obbrobrio d’un giuro tradito;
un giudizio da voi proferito
v’accompagna a l’iniqua tenzon;
voi che a stormo gridaste in quei giorni:
Dio rigetta la forza straniera;
ogni gente sia libera e pèra
della spada l’iniqua ragion.

     Se la terra ove oppressi gemeste
preme i corpi de’ vostri oppressori,
se la faccia d’estranei signori
tanto amata vi parve in quei dì;
chi v’ha detto che sterile, eterno
saria il lutto dell’itale genti?
chi v’ha detto che ai nostri lamenti
saria sordo quel Dio che v’udì?

     Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia
chiuse il rio che inseguiva Israele,
quel che in pugno alla maschia Giaele
pose il maglio ed il colpo guidò;
quel che è Padre di tutte le genti,
che non disse al Germano giammai:
Va’, raccogli ove arato non hai;
spiega l’ugne; l’Italia ti do.

     Cara Italia! dovunque il dolente
grido uscì del tuo lungo servaggio;
dove ancor dell’umano lignaggio
ogni speme deserta non è:
dove già libertade è fiorita.
Dove ancor nel segreto matura,
dove ha lacrime un’alta sventura,
non c’è cor chenon batta per te.

     Quante volte sull’alpe spïasti
l’apparir d’un amico stendardo!
quante intendesti lo sguardo
ne’ deserti del duplice mar!
ecco alfin dal tuo seno sboccati,
stretti intorno ai tuoi santi colori,
forti, armati dei propri dolori,
i tuoi figli son sorti a pugnar.

     Oggi, o forti, sui volti baleni
il furor delle menti segrete:
per l’Italia si pugna, vincete!
il suo fato sui brandi vi sta.
O risorta per voi la vedremo
al convito dei popoli assisa,
o più serva, più vil, più derisa
sotto l’orrida verga starà.

     Oh giornate del nostro riscatto!
Oh dolente per sempre colui
che da lunge, dal labbro d’altrui,
come un uomo straniero, le udrà!
che a’ suoi figli narrandole un giorno,
dovrà dir sospirando: "io non c’era";
che la santa vittrice bandiera
salutata quel dì non avrà.
 

Re tentenna
 

di Domenico Carbone

In diebus illis c'era in Italia,
Narra una vecchia gran pergamena,
Un re che gli era, fin dalla balia,
Pazzo pel gioco dell'altalena.
Caso assai raro nei re l'estimo;
E fu chiamato Tentenna primo.
Or lo ninnava Biagio, or Martino;
 Ma l'uno in fretta, l'altro adagino.
 E il re diceva: m'affretto adagio;
Bravo Martino, benone Biagio.

Ciondola,
dondola,
Che cosa amena.
Dondola,
 ciondola,
È l'altalena;
Un po' più celere,
Meno... di più...
Ciondola, dondola
E su e giù.

Un dì, racconta quella scrittura,
Mutò di pelle come la biscia...
 E qui una fitta cancellatura,
 Quasi di sangue vivida striscia.
 E raschia e fissa quel mio cronista.
 Crebbe la macchia, sciupai la vista.
 Del resto, ei segue, buttò la vita;
 Giovin, Gaudente; vecchio, Trappita.
 Vantava in aria da caporale
 Non so che impresa d'uno stivale.

Ciondola,
dondola,
Che cosa amena.
Dondola,
 ciondola,
È l'altalena;
Un po' più celere,
Meno... di più...
Ciondola, dondola
E su e giù.

Dicea Martino: libera il corso,
Sire, al gran veltro fin che ci lambe;
O se la svigna, dando di morso,
 E Dio ci salvi garretti e gambe.
 Biagio diceva: strigni la corda;
 Cane che abbaja, raro è che morda.
Ma, se il guinzaglio per poco smetti.
 Iddio ci salvi gambe e garretti.
 E il re: ministri, siate contenti;
 Un dì si stringa, l'altro s'allenti.
 Ciondola, dondola, ecc.

Ciondola,
dondola,
Che cosa amena.
Dondola,
 ciondola,
È l'altalena;
Un po' più celere,
Meno... di più...
Ciondola, dondola
E su e giù.

 

 

Dicea Martino: censori, boja
Fanno a chi meglio castra il pensiero;
Ma il pensier monco della cisoja
Valica i monti, ritorna intiero.
 Biagio diceva: falla arrotare,
 Caro Tentenna, se vuoi regnare.
Cerca arrotini di miglior scola,
 A mo' d'esempio, que' di Lojola.
E il re: s'affili sì che la lama
 Tagli e non tagli, come si brama.

Ciondola,
dondola,
Che cosa amena.
Dondola,
 ciondola,
È l'altalena;
Un po' più celere,
Meno... di più...
Ciondola, dondola
E su e giù.

Dicea Martino: via que' volponi
 Che, col pretesto di smoccolare,
Fan spegnitojo de' cappelloni,
Smorzano i lumi fin sull'altare.
Biagio diceva: che lumi, o Sire!
Chiudi le imposte, se vuoi dormire;
Alloppia i sudditi rimpinconiti
Col pio giulebbe de' Gesuiti.
 E il re: sta bene; Lojola inchino,
E mi confesso dal cappuccino.

Ciondola,
dondola,
Che cosa amena.
Dondola,
 ciondola,
È l'altalena;
Un po' più celere,
Meno... di più...
Ciondola, dondola
E su e giù.

Dicea Martino: volgiti a Roma;
L'Austro dà i tratti dell'agonia.
 Schianta la briglia; scuoti la soma,
 Prendilo a calci di dietrovia.
Biagio diceva: Roma si vanta;
Non si fa guerra coll'acqua santa.
 Tienti al Tedesco; contro ai cannoni
 E' ci vuol altro che be' crocioni.
E il re: mi provo se ci riesco,
Evviva il Papa, viva il Tedesco.

Ciondola,
dondola,
Che cosa amena.
Dondola,
 ciondola,
È l'altalena;
Un po' più celere,
Meno... di più...
Ciondola, dondola
E su e giù.

Dicea Martino: stecchito in trono
Agl'inni, ai plausi non fare il sordo.
Guai se la musica cambia di tono!
Gira, Tentenna, gira di bordo.
 Biagio diceva: spranga il portone,
Senti che puzzo di ribellione
 « Saétte a Biagio, fora i Tedeschi ».
Per Sant'Ignazio! staremo freschi.
E il re, traendo la durlindana,
 Sguardò dai vuoti della persiana.

Ciondola,
dondola,
Che cosa amena.
Dondola,
 ciondola,
È l'altalena;
Un po' più celere,
Meno... di più...
Ciondola, dondola
E su e giù.

Qui chieggo invano dal mio Turpino:
 Si diede al presto? scelse l'adagio?
Diresti un tratto: vinse Martino;
Due righe sotto: la vìnse Biagio.
 Morì Tentenna; ma ancora incerto
Di tener l'occhio chiuso od aperto;
E fu trovato, forza dell'uso,
 Con l'uno aperto, con l'altro chiuso.
Laudale pueri, s'intoni al bimbo;
Strisciò l'Antènora, dorme nel limbo.

Ciondola,
dondola,
Che cosa amena.
Dondola,
 ciondola,
È l'altalena;
Un po' più celere,
Meno... di più...
Ciondola, dondola
E su e giù.

L'illuminazione degli appennini
 

di Arnaldo Fusinato

 

Che cos'è, là in fondo in fondo,

quella fiamma ognor crescente,

quell'accorrere giocondo

 d'affollata allegra gente,

quegli evviva, quegli spari

di moschetti e di mortari?

È il buon popol di Romagna

che festeggia il di solenne

che le arpie dell'Alemagna,

senz'artigli, senza penne

fur da Genova scacciate

 a gran colpi di sassate.

Come liberi stendardi

 van le fiamme in preda al vento;

una folla di gagliardi

getta al fuoco l'alimento

e il pentito di Sardegna

versa l'olio sulla legna.

Ed intanto l'uomo-dio

che risiede in Vaticano,

voglio dire il Nono Pio,

impartisce colla mano

la papal benedizione

a quell'ottime persone.

Su, soffiate un altro poco,

o redenti romagnoli,

che la vista di quel foco

le nostre anime consoli,

che si sgelino le mani

questi torpidi Italiani.

Se la fiamma che risplende

sulle vette agli Appennini

un di o l'altro si distende

anche all'Alpe dei vicini,

amatissimi Tedeschi,

state freschi, state freschi!

Di quel fuoco la scintilla

già riscalda il bel paese;

alla pietra del Balilla

mille braccia sono tese;

tuoni solo una parola...

o Tedeschi, che gragnuola!

Ma peraltro, indovinate?

M'è passato per la mente

che i Tedeschi alle sassate

non ci badino per niente;

quelle care creature

han le teste cosi dure!

So ben io quel che ci vuole

per quest'orsi oltramontani

che al tepor del nostro sole

van leccandosi le mani!

Un deposito abbondante

di cotone fulminante.

Il cotone? Va benone,

siam d'accordo; ma, perdoni:

cosa farne del cotone

se ci mancano i cannoni?

Viva Pio IX
 

di Anonimo

 

Quando di Piero sali sul trono
il glorioso nunzio di Dio
assunse il mite nome di Pio,
e il primo accento fu di perdono.

Viva Pio Nono!

Mentre fra plausi, degli inni al suono
le vie di Roma scorrea l'eletto,
dicea: - Lasciate che il mio diletto
popol s'appressi, poi ch'egli è buono -.

Viva Pio Nono!

Disse alle madri: - Quei che ridóno
al vostro amplesso, tornan miei figli.
Trascorsa è l'ora de' lunghi esigli,
dello sgomento, dell'abbandono -.

Viva Pio Nono!

Ohimè, repente contro il suo trono
si sollevaron l'armi d'averno;
ma sulla patria vegliò l'Eterno,
sostavan gli empi, già più non sono.

Viva Pio Nono!

D'elmo e di spada l'ambito dono
ai cittadini securo ei porse,
già dei Quiriti l'aquila sorse,
tien nell'artiglio folgore e tuono.

Viva Pio Nono!

O Dio di pace, Dio di perdono,
a noi deh, serba quest'angiol santo!
Siamo suoi figli! L'amiamo tanto!
Le nostre vite sacre gli sono.

Viva Pio Nono!

I cardinali
 

 di Francesco Dall'Ongaro

 

O senator del popolo romano,

se voi sete davvero un galantuomo,

dite a Sua Santità che in Vaticano

c'è tanti cardinali e non c'è un uomo.

Son fatti come il gambero del fosso,

che, quando è morto, si veste di rosso,

e mentre è vivo cammina all'indietro

per intricar le reti di san Pietro.

La livornese
 

di Francesco Dall'Ongaro

 

Addio, Livorno, addio paterne mura,
forse mai più non vi potrò vedere!
I miei parenti sono in sepoltura,
e lo mio damo è sotto le bandiere.
Io voglio seguitarlo a la ventura,
un'arma in mano anch'io la so tenere.
La palla che sarà per l'amor mio,
senza ch'ei sappia, la piglierò io,
si chinerà sul suo compagno morto,
e per pietà vorrà vedello in vorto.
Vorrai vedermi e mi conoscerai…
Povero damo, quanto piangerai!

Mazzini
 

di Francesco Dall'Ongaro

 

Chi dice che Mazzini è in Alemagna,
chi dice ch'è tornato in Inghilterra, chi lo
pone a Ginevra e chi in Ispagna, chi lo
vuol sugli altari e chi sotterra. Ditemi un
po', grulloni in cappa magna, quanti
Mazzini c'è sopra la terra?
Se volete saper dov'è Mazzini,
domandatelo all'Alpi e agli Appennini.
Mazzini è in ogni loco ove si trema che
giunga a' traditor l'ora suprema.
Mazzini è in ogni loco ove si spera
versar il sangue per l'Italia intera.