» 08|La rivolta antiunitaria  
 

Nelle regioni dell'Italia continentale, al sud del Tronto e del Garigliano, tra l'autunno del 1860 e il 1863 l'unità appena realizzata fu chiamata a superare la sua prova più difficile. Prova che non fu imposta dalla resistenza di nessuno dei vecchi Stati preunitari, bensì da una vasta sollevazione a sfondo sociale ad opera di una notevole parte delle popolazioni contadine di quelle regioni.

A tali sollevazioni fu dato dalle autorità italiane l'antico nome di "brigantaggio" e "briganti" furono chiamati i suoi autori: termini spregiativi, dettati dalla crudezza dello scontro e dall’abissale diversità culturale tra i contendenti, che impedì alla parte più evoluta e concettualmente dotata di capire le ragioni dell'altra; termini spregiativi che appaiono certo storicamente inadeguati a significare la complessità del fenomeno, ma che un uso ormai consolidatissimo consiglia, pur con l'avvertenza ora data, di continuare ad adoperare.


 

 
Le brigantesse Filomena Pennacchio, Giuseppina Vitale e Maria Giovanna Tito - 1865 - fotografia - Istituto per la Storia del Risorgimento - Roma  

Il "brigantaggio" - cioè gruppi più o meno consistenti di ex contadini riuniti in banda e datisi alla macchia per commettere crimini di varia natura - era un fenomeno antico nel Regno di Napoli (ma non solo: era diffuso anche in altre zone depresse del Centro e del Nord Italia, per esempio nella zona del basso Po). Solo nel Sud, però, questo fenomeno di disagio sociale e insieme di criminalità aveva avuto modo di intrecciarsi con la politica.

L'inizio era stato nel 1799 quando, per ordine del re di Napoli, fuggito in Sicilia in seguito ad una rivoluzione filofrancese scoppiata a Napoli, il cardinale Fabrizio Ruffo aveva chiamato alla rivolta antigiacobina le masse contadine meridionali, dando vita al cosiddetto esercito della Santa Fede. Esercito nel quale erano confluiti personaggi d'ogni genere tra cui famosi "capobriganti" alla testa delle loro bande, doverosamente ricompensati con grandi onori dopo la riuscita dell'impresa.

Ritornato il dominio francese con Gioacchino Murat, il "brigantaggio" a sfondo politico aveva continuato a far sentire la sua presenza seppure in tono minore. Per poi tornare ad essere puro e semplice banditismo di strada, ma questa volta in grande stile, subito dopo la restaurazione borbonica nel 1814.

L'ordine fu ristabilito ma a prezzo di una repressione così spietata che fece scandalo persino tra le guarnigioni austriache allora di stanza nel Regno meridionale. Nella rivolta anti-italiana del 1861-'65 confluirono dunque molti elementi, a cominciare dalla collaudata tradizione ribellistico-banditesca appena ricordata.

Le prime sollevazioni contadine si verificarono nell'ottobre del 1860 non appena le truppe piemontesi guidate da Cialdini entrarono dal Sannio nel Regno di Napoli. Un forte contingente garibaldino, guidato da Francesco Nullo, fu impegnato nel contenimento dei moti andando incontro per la prima volta ad una sanguinosa sconfitta. Anche in seguito ai primi episodi del genere Cialdini emanò un proclama durissimo, promettendo l'esecuzione sommaria per tutti i civili che avessero osato prendere le armi contro i suoi uomini.

Alle cause di queste prime sollevazioni, mosse da un sentimento di attaccamento alla vecchia dinastia, si aggiunsero nelle settimane seguenti due ulteriori elementi decisivi. Il primo fu rappresentato dallo scioglimento dell'esercito borbonico, in seguito al quale rifluivano nelle campagne molti soldati sbandati. Il secondo, di ancor maggiore impatto, fu la delusione e la protesta delle masse contadine. I contadini, infatti, avevano sperato che "la rivoluzione" italiana avrebbe recato un miglioramento delle loro condizioni. Assistettero invece a un gigantesco fenomeno di trasformismo da parte delle classi dirigenti locali.

 


 

  Il generale Cialdini - Museo Centrale del Risorgimento - Roma

Queste, infatti, perlopiù si riconvertirono in un battibaleno al nuovo regime: addirittura, in molti casi perseguitando, per autolegittimarsi maggiormente, chi non era stato pronto a farlo. Non solo, ma i "galantuomini" meridionali si gettarono nell'acquisto della grande massa di beni, in specie terrieri, che, dopo essere stati confiscati alla Chiesa dal nuovo governo, vennero ora messi in vendita: finendo in tal modo per rafforzare ed inasprire ancor più il proprio dominio sociale ed economico rispetto alla grande schiera dei nullatenenti.

In breve, la rivolta divampò lungo tutta la dorsale appenninica, dagli Abruzzi alla Sila (la Sicilia rimase fino alla fine pressoché totalmente estranea al fenomeno), vale a dire nella zone più povere e inaccessibili della penisola, assumendo le tipiche caratteristiche della guerriglia.

Le truppe italo-piemontesi di stanza nei centri urbani principali - anche se ben presto organizzate in colonne mobili dislocate strategicamente sul territorio - erano aiutate dalle numerose formazioni dei civili volontari della Guardia Nazionale e dai contingenti dei carabinieri disseminati nella miriade delle loro stazioni.

A questa massa di uomini, che arrivò a contare la cifra di circa 120 mila unità (poco meno della metà dell'intero esercito italiano), si contrapponevano circa 10-12 mila "briganti", riuniti in bande al massimo di un centinaio di uomini, molti a cavallo e con una non rara presenza femminile.

Dotati di altissima mobilità, perfetta conoscenza dei luoghi, laddove l'esercito, invece, spesso non disponeva di carte geografiche adeguate, queste bande, al comando di figure di popolani intelligenti quanto solitamente rozzi e feroci, si dedicarono soprattutto agli agguati, alle scorrerie nelle proprietà e nelle masserie con relativi furti di beni di ogni tipo, all'attacco e all'occupazione di medi e piccoli centri abitati. Esse naturalmente adottarono una forma di lotta senza quartiere e fuori da ogni regola con combattenti senza divise e quindi con tutte le possibilità di inganni immaginabili e, infine, senza prigionieri (non solo, ma con i prigionieri spesso seviziati nei modi più raccapriccianti).

 


 

  A. Duroni - Il generale Alfonso La Marmora - fotografia - Museo Centrale del Risorgimento - Roma

Per qualche tempo esse ricevettero il finanziamento da parte del governo borbonico esule a Roma che nei primi tempi tentò anche inutilmente di organizzare, sperando nell'azione del generale legittimista spagnolo José Borjes, sbarcato in Calabria, un coordinamento generale degli insorti. Le cui formazioni rimasero tuttavia sempre isolate l'una dall'altra: anche così però esse riuscirono a essere padrone di larghe parti del territorio, assaltare i treni, rapire e ricattare un gran numero di possidenti, taglieggiare, impedire in pratica per lunghi periodi qualunque comunicazione via terra, per esempio, tra Napoli e le Puglie, tenendo sostanzialmente in scacco qualunque autorità pubblica.

Le operazioni subirono un drammatico inasprimento allorché nell’agosto del 1862 il governo Rattazzi, allarmato dalle notizie dell’arrivo in Sicilia di Garibaldi, che di lì a poco avrebbe condotto allo scontro di Aspromonte, proclamò lo stato d’assedio in tutte le provincie meridionali sotto l’autorità del generale La Marmora. Lo stato d’assedio, non previsto da alcun articolo dello Statuto albertino, durò ufficialmente fino al novembre 1862.

Esso, che comportava di fatto la sospensione delle garanzie costituzionali e la completa messa in mora in sostanza dei tribunali civili, fu motivato anche dall’atteggiamento garantista della magistratura la quale in più di un caso aveva assolto gli indagati sospetti di brigantaggio e talvolta non aveva esitato addirittura ad aprire indagini e inchieste su esponenti dell’apparato militare.

Lo stato d’assedio portò naturalmente ad un aumento del carattere arbitrario della repressione militare: crebbero, perciò, di numero e di intensità le rappresaglie, o comunque gli atti di violenza, sulle popolazioni civili spesso incolpevoli, fino ad arrivare a veri e propri eccidi con la messa a sacco e distruzioni di interi centri abitati (come nel caso, per esempio, di Pontelandolfo e Casalduni).

Quanto stava accadendo nelle provincie meridionali non mancò di suscitare una violenta protesta politica e parlamentare da parte della Sinistra democratica, la cui stampa e i cui esponenti meridionali erano stati fatti spesso oggetto di provvedimenti repressivi con la scusa dello stato d’assedio. Proprio su iniziativa della Sinistra, sul finire del 1862, la Camera approvò l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta.


 

 
Il brigante Giuseppe Nicola Summa morto al termine di uno scontro a fuoco marzo 1864 - fotografia - Istituto per la Storia del Risorgimento - Roma  

Anche dal punto di vista internazionale la dittatura militare nel Mezzogiorno stava diventando una misura sempre più insostenibile. Per cercare di legalizzare in qualche modo la repressione, che non riusciva a reprimere il movimento para-insurrezionale, alla metà del 1863 il nuovo governo Minghetti, succeduto a Rattazzi, fece approvare la proposta di legge del deputato abruzzese Giuseppe Pica.

Tale legge e i successivi regolamenti prevedevano che in tutte le provincie dell’Italia meridionale continentale proclamate in stato di “brigantaggio” – in pratica tutte tranne quelle di Napoli, Teramo e Reggio Calabria – a giudicare i “briganti” e i loro complici fossero i tribunali militari, che ai colpevoli di brigantaggio fosse comminata la pena della fucilazione salvo la concessione di attenuanti, autorizzavano il governo ad assegnare al domicilio coatto per non più di un anno in pratica chiunque, a sua discrezione. Infine davano la possibilità al governo di arruolare squadriglie di volontari.

Forte di questi provvedimenti e della spregiudicata utilizzazione di informatori, nel biennio ’64-’65, le autorità militari riuscirono finalmente a circoscrivere sempre di più il fenomeno del “brigantaggio”, catturando o uccidendo via via i principali capibanda. Da allora in poi, nonostante parziali riviviscenze i fenomeni insurrezionali erano destinati, sia pure molto lentamente, a spengersi.

Documenti
 

Proclama del Commissario Regio per le Provincie Napoletane

Proclama di La Marmora con cui era proclamato lo stato d’assedio nelle provincie napoletane.

R. Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1980, pp. 225-226.

 

Le preoccupazioni per le reazioni internazionali

Con questa minuta il presidente del Consiglio Minghetti chiede al ministro della Giustizia di fornirgli informazioni sulla situazione nell’Italia meridionale con le quali cercare di formare un’opinione favorevole al governo italiano nell’opinione pubblica e nel Parlamento inglesi.

R. Martucci, Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 304.

 

I briganti

Elenco delle bande brigantesche attive tra il 1861 e il 1870 relativo a tutte le provincie meridionali.

F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 367-382.

 

Il brigantaggio visto dall’altra parte

Pubblichiamo questo brano sul brigantaggio tratto dal libro di Ludovico Bianchini, economista ed ex ministro borbonico, il quale fornisce una immagine del brigantaggio dalla parte dei simpatizzanti della vecchia monarchia non privo di elementi di verità.

L. Bianchini, Nove anni del Regno d’Italia, Padova, Cedam, 1996, pp. 323-329.

 

Il brigantaggio nelle province napoletane

Riportiamo qui la relazione della commissione parlamentare d’inchiesta letta dal deputato Massari alla Camera.