» 02|La rivoluzione del 1820-1821 a Napoli e in Sicilia  
 

Il successo della rivoluzione in Spagna, dove il 7 marzo 1820 fu reintrodotta la Costituzione di Cadice del 1812, si riverberò con particolare evidenza nel Regno delle due Sicilie, determinando un intenso lavorio tra i carbonari e i militari favorevoli alla Costituzione. Dopo una serie di tentativi falliti sul nascere, nella notte tra il 1° e il 2 luglio 1820, una trentina di carbonari della vendita di Nola, guidati dal prete Luigi Minichini, e 127 sottufficiali e soldati del reggimento di cavalleria Borbone, comandati dal tenente Michele Morelli e dal sottotenente Giuseppe Silvati, diedero inizio ad un moto insurrezionale, dirigendosi verso Avellino.

La mattina del 3 luglio Morelli entrò in città e cedette pubblicamente il comando delle forze ribelli al tenente colonnello De Concilj, capo delle truppe locali. Contemporaneamente, le vendite del foggiano, della Calabria, della Basilicata, insieme alle milizie provinciali e alle truppe di linea, insorsero col favore delle popolazioni, rendendo difficoltose le comunicazioni tra Napoli, la Puglia e la Calabria, e condannando così al fallimento l’iniziale tentativo di repressione affidato al generale Carascosa.


 

 
Florestano Pepe, fratello del più celebre Guglielmo Pepe - dipinto - Museo Nazionale di San Martino - Napoli  

Nella notte tra il 5 e il 6 luglio, poi, il generale Guglielmo Pepe fece insorgere due reggimenti di cavalleria e uno di fanteria in stanza a Napoli e si diresse verso Avellino, dove la sera del 6 assunse il comando di tutte le forze ribelli.

Lo stesso 6 luglio il re Ferdinando I acconsentì alla formazione di un governo costituzionale e nominò il principe ereditario Francesco, duca di Calabria, vicario del Regno.

Il 7 luglio, Francesco fu quindi costretto a pubblicare un decreto con cui si adottava nel Regno delle due Sicilie la Costituzione spagnola del 1812, salvo modificazioni eventualmente proposte dalla rappresentanza nazionale. Due giorni dopo, il 9 luglio, le truppe costituzionali fecero quindi il loro trionfale ingresso a Napoli, mentre il 13 Ferdinando I giurò solennemente sulla Costituzione.

La rapidità della rivoluzione e il suo facile successo erano certo il segno della fragilità del regime assolutista borbonico, ma celavano anche importanti contraddizioni: da un lato l’assoluta insincerità di Ferdinando I, contrario nel suo intimo ad ogni concessione costituzionale; dall’altro il contrasto tra la carboneria, che aveva dato alla rivoluzione la spinta decisiva, e il gruppo di non più giovani funzionari e ufficiali di orientamento tendenzialmente moderato – che in passato avevano simpatizzato con le idee rivoluzionarie francesi e avevano poi preso parte all’esperienza del Regno di Gioacchino Murat nel Mezzogiorno – che assunse, fin dai primi giorni di luglio, la direzione del nuovo governo.

La complessa situazione napoletana fu inoltre aggravata dall’insurrezione di Palermo, scoppiata il 15 e 16 luglio quando in città giunsero le prime notizie della rivoluzione di Napoli. Benché l’ostilità contro il centralismo borbonico accomunasse tutte le classi della popolazione locale, la rivolta fu egemonizzata in un primo momento dalle masse popolari che, protagoniste di episodi di estrema violenza (distruzione degli uffici del bollo e del registro, abbattimento degli stemmi borbonici, liberazione indiscriminata dei detenuti dalle carceri, stragi e saccheggi), si impadronirono della città il 17 luglio, costringendo il generale Naselli, luogotenente del re, ad imbarcarsi per Napoli.

Il 18 luglio gli insorti costituirono quindi una Giunta di governo, presieduta dal cardinale Gravina, poi sostituito alcuni giorni dopo dal principe di Villafranca, che inviò a Napoli una missione per chiedere che la Sicilia fosse costituita in un ragno separato.

Favorevoli all’indipendenza si dimostrarono però solo le provincie di Palermo e di Girgenti, mentre molte città dell’isola, e in prima linea Catania e Messina, si dichiararono contrarie all’egemonia palermitana e favorevoli, al contrario, al mantenimento del legame con Napoli. Spedizioni di palermitani si diressero quindi contro gli abitanti di Caltanissetta, di Trapani e di Siracusa, ma solo la prima fu coronata dal successo.

A questo punto il governo napoletano decise di intervenire, nominando luogotenente del re in Sicilia Antonio Ruffo, principe della Scaletta, ed inviando nell’isola il principe Florestano Pepe, fratello di Guglielmo, alla guida di circa quattromila uomini.

Diretto verso Palermo, il 22 settembre Florestano Pepe poté concludere un accordo a Termini Imerese con il principe di Villafranca, accordo che, non accettato dalla  popolazione palermitana, scatenò violenti scontri in città tra rappresentanti delle maestranze, nobiltà e borghesia.

 


 

  V. Camuccini - Ferdinando I in abito di Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro. 1818-1819 ca. - olio su tela - Palazzo Reale - Napoli

Giunto a Palermo il 26 settembre, ma ostacolato dall’aspra resistenza dei ribelli, Pepe si decise a cercare un nuovo accordo, poi firmato il 5 ottobre con il principe di Paternò, nuovo presidente della Giunta municipale: tale accordo venne però annullato dal Parlamento napoletano che, richiamato Pepe a Napoli, inviò nell’isola il generale Pietro Colletta, artefice di lì in avanti di una politica essenzialmente repressiva.

Frattanto il 23 ottobre 1820, a Troppau, un congresso delle maggiori potenze sancì, contro il parere di Inghilterra e Francia, il “principio dell’intervento”, che avrebbe permesso all’Austria di agire a Napoli in nome della Santa alleanza; Austria, Russia e Prussia scelsero in ogni caso di invitare Ferdinando I a Lubiana, al congresso che si sarebbe svolto nel gennaio 1821, per tentare di risolvere collegialmente la questione napoletana.

Ricevuta nel dicembre l’autorizzazione del Parlamento a lasciare Napoli, a condizione di sostenere la Costituzione di Spagna, Ferdinando I operò un immediato voltafaccia e invocò l’aiuto austriaco, dichiarando di essere stato costretto a concedere la Costituzione con la forza. Gli austriaci furono così liberi di marciare su Napoli.

All’avvicinarsi del nemico l’esercito napoletano fu diviso in due parti: l’una avrebbe dovuto difendere la linea del Garigliano e poi quella del Volturno, sotto il comando di Carascosa; l’altra, guidata da Guglielmo Pepe, avrebbe invece dovuto agire al confine tra l’Umbria e l’Abruzzo.

Dopo aver fallito un attacco di sorpresa contro gli austriaci a Rieti il 7 marzo, Pepe tentò di resistere nelle gole di Antrodoco, ma, sconfitto nuovamente, dovette abbandonare l’Aquila e ritirarsi verso sud.

La marcia delle truppe austriache fu a questo punto relativamente facile: cessata ogni resistenza napoletana, il 20 marzo 1821 gli austriaci poterono entrate a Capua e il 24 a Napoli.