La memoria e le interpretazioni del Risorgimento
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«L'Italia come grande Stato nazionale ereditato dal Risorgimento è stata distrutta», osservava Ugo La Malfa nel dicembre 1943, a poca distanza dai drammatici avvenimenti che a ridosso dell'8 settembre avevano segnato il crollo della compagine statale nata nel 1860. Nel 1946 la nuova Italia repubblicana, se per un verso realizzava l'antico auspicio di Giuseppe Mazzini, per l'altro nasceva da una evidente cesura rispetto alla tradizione del Risorgimento. La stessa appropriazione/distorsione che il fascismo aveva fatto per vent'anni dell'eredità risorgimentale (separando l'idea di patria da quella di libertà) rendeva ora difficile richiamarsi a quella eredità; inoltre i principali partiti dell'Italia democratica (anzitutto la Democrazia cristiana e il Partito comunista italiano) erano sostanzialmente estranei alla tradizione del Risorgimento. Né forse – come ulteriore fattore di cesura – si deve sottovalutare il fatto che, con la sconfitta della monarchia nel referendum istituzionale del 1946, veniva a scomparire uno dei soggetti cardine di cui fin allora la continuità con il Risorgimento si era alimentata.
Negli anni del dopoguerra gli studi storici furono largamente influenzati dall'interpretazione del Risorgimento che l'intellettuale e leader comunista Antonio Gramsci aveva consegnato ai suoi Quaderni del carcere: si trattava di appunti che, redatti tra fine anni Venti e inizio anni Trenta, vennero pubblicati soltanto nel 1949 in un volume su Il Risorgimento. Al centro della riflessione di Gramsci stava il tema dell'egemonia che i liberali cavouriani (i «moderati», come li definiva Gramsci) avevano saputo esercitare sui democratici, nonché l'esame delle ragioni del successo dei primi e della sconfitta dei secondi. Mazzini e i democratici erano stati sconfitti, secondo Gramsci, perché non erano stati capaci di attuare una politica fondata sulla distribuzione delle terre ai contadini: la sola politica che avrebbe potuto consentire al Partito d'azione di averne l'appoggio dando così un diverso sbocco alla rivoluzione italiana.
Allora e per molti anni la storiografia gramsciana produsse ottimi lavori sul piano dell'ampliamento delle conoscenze: si pensi agli studi di uno dei maggiori risorgimentisti dell'Italia repubblicana, Franco Della Peruta, o anche alla fondamentale Storia dell'Italia moderna di Giorgio Candeloro, il cui primo volume uscì nel 1956 con una prefazione che si richiamava esplicitamente alle tesi di Gramsci. Tuttavia l'interpretazione gramsciana del Risorgimento fu sottoposta a una critica serrata da parte di un giovane storico liberale, Rosario Romeo. In due saggi presto raccolti in volume (Risorgimento e capitalismo, 1959) Romeo dimostrava in modo puntuale come al momento dell'unificazione non esistessero in Italia le condizioni per una rivoluzione agraria. Sosteneva inoltre come l'eventuale diffondersi, in conseguenza di una riforma agraria, della piccola proprietà contadina avrebbe danneggiato lo sviluppo del capitalismo industriale; nelle condizioni dell'Italia del tempo, infatti, l'«accumulazione originaria» che costituiva un prerequisito dell'industrializzazione poteva avvenire soltanto al prezzo di una compressione dei consumi contadini. L'interpretazione gramsciana del Risorgimento avrebbe però avuto fortuna ancora per molto tempo, anche se non poté mai riprendersi del tutto dalla critica formulata allora da Romeo. È indicativo che nel 1986 Candeloro, licenziando l'undicesimo (e ultimo) volume della sua Storia dell'Italia moderna esprimesse ormai dubbi sostanziali sull'interpretazione gramsciana del Risorgimento. Proprio da Romeo, sicuramente il maggior storico del Risorgimento dopo il 1945, vennero alcuni testi fondamentali: da Il Risorgimento in Sicilia (1950) fino alla grande biografia Cavour e il suo tempo, pubblicata in tre volumi tra il 1969 e il 1984. Con quest'ultima opera - dove la biografia di Cavour era strettamente connessa all'esame dei principali temi della storia italiana ed europea – Romeo obbligava a rivedere molti precedenti giudizi storiografici; ad esempio, riguardo all'atteggiamento verso il movimento nazionale italiano tenuto dall'Inghilterra, timorosa – osservava Romeo – che l'unità d'Italia, indebolendo l'Austria, la privasse di un essenziale alleato in chiave antifrancese. Qualche anno prima Romeo, paragonando le celebrazioni per il centenario dell'unità d'Italia con quelle svoltesi per il cinquantenario, aveva osservato che nel 1911 la tradizione risorgimentale era apparsa ancora «operante come viva realtà ideale e morale»; nel 1961, invece, «sotto la cornice grandiosa delle manifestazioni ufficiali», si poteva percepire un «certo senso di distacco non solo delle masse ma anche delle classi colte e dirigenti». Del resto, si può aggiungere, proprio allora la «grande modernizzazione» legata al cosiddetto miracolo economico stava iniziando a cambiare radicalmente anche il panorama culturale del paese, imponendo un lessico e dei valori tutti improntati al progresso, alla modernità, al futuro. L'eredità del Risorgimento tendeva a farsi sempre più sfocata, debole, incerta. Anche nell'ambito specificamente storiografico l'interesse per le vicende del Risorgimento andava esaurendosi. «Con la perdita dei nessi con la cultura e la politica militante – era ancora Romeo ad osservarlo nel 1983 – la storiografia sul Risorgimento [è andata] perdendo buona parte della sua incisività e del suo significato intellettuale».
Gli studi su quel periodo rimasero soprattutto oggetto dei lavori di un limitato numero di specialisti, raccolti attorno ad alcune riviste (in primis la «Rassegna storica del Risorgimento», fondata nel 1914 e ancora oggi esistente), all'Istituto per la storia del Risorgimento italiano e a qualche altra istituzione. Semmai, una nuova attenzione per l'età del Risorgimento si è avuta tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta, con l'affacciarsi di correnti politiche e culturali che rivendicavano un'estraneità nei confronti del processo che aveva dato vita, nel 1860, all'Italia unita. Oltre alle polemiche antiromane (e implicitamente antirisorgimentali) della Lega, ripresero vigore tutta una serie di motivi critici che avevano circolato, in realtà, già a partire dagli anni immediatamente successivi dell'unificazione: anzitutto l'idea che questa avesse coinciso con una conquista piemontese del Sud, impedendo così lo sviluppo del Mezzogiorno d'Italia. Si ripercorsero anche – magari con l'idea di raccontare per la prima volta cose note in realtà da decenni – certe pagine drammatiche dell'unificazione, come la repressione sanguinosa del brigantaggio. Oppure si rievocò lo scontro drammatico tra il nuovo Regno d'Italia e la Chiesa cattolica, non andando però oltre la riproposizione – così Angela Pellicciari in Risorgimento da riscrivere (1998) – di ciò che era stato scritto all'epoca dalla «Civiltà cattolica». Fu anche per reazione a questi filoni, minoritari ma non irrilevanti, di opinione antirisorgimentale che il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e poi il suo successore Giorgio Napolitano si sono impegnati a riproporre continuamente simboli, momenti e figure del Risorgimento, all'interno di un nuovo discorso patriottico la cui effettiva presa sulla maggioranza degli italiani resta tuttavia incerta. Negli ultimi anni molti studi si sono dedicati proprio ai simboli, alle rappresentazioni, ai miti del Risorgimento e alle loro alterne fortune nel corso del tempo. Un convegno, tenutosi nel 1993 a Milano, su «Il mito del Risorgimento nell'Italia unita» rappresenta una delle iniziative più interessanti di questo indirizzo. Un prodotto della tendenza ad abbandonare i più tradizionali argomenti e approcci della storia politica o economica è anche il libro di Alberto M. Banti, La nazione del Risorgimento (2000), che analizza la cultura delle élites patriottiche a partire da un insieme di testi, letterari più che politici, attraverso i quali prese corpo il discorso nazionale. Di questo nuovo approccio «culturalista», che ha forse il limite di ridurre la storia del Risorgimento alla dimensione spesso sfuggente dei simboli, delle emozioni, delle rappresentazioni di vario genere, sono un prodotto i saggi raccolti nel recente volume degli «Annali» Einaudi dedicato a Il Risorgimento, a cura dello stesso Banti e di Paul Ginsborg (2007). Nel Risorgimento, secondo Gramsci, i «democratici» erano stati sconfitti dai «moderati» soprattutto per la loro incapacità di affrontare la questione agraria, così da ottenere l'appoggio delle masse contadine. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, III, Torino, Einaudi, 1975, pp. 2044-2046.
In un saggio pubblicato originariamente nel 1956, Romeo, dopo aver sostenuto che una rivoluzione agraria nell'Italia del 1860 era del tutto improbabile, mostrava come sarebbe stata in ogni caso non augurabile. Avrebbe infatti provocato un rallentamento dello sviluppo economico delle campagne e danneggiato lo stesso sviluppo industriale. R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 25-39.
Della Storia dell'Italia moderna di Candeloro, fino ad oggi la più completa storia d'assieme sul nostro paese che sia stata scritta, riproduciamo la prefazione al primo volume, del 1956, in cui l'autore dichiarava il suo debito nei confronti dell'interpretazione gramsciana del Risorgimento. G. Candeloro, Storia dell'Italia moderna, I, Le origini del Risorgimento 1700-1815, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 5-8.
Nelle molte opere che Della Peruta ha dedicato ai democratici del Risorgimento il richiamo all'interpretazione gramsciana ha saputo coniugarsi con un'attenzione ai testi e una ricerca d'archivio che rendono ancora oggi indispensabili volumi come I democratici e la rivoluzione italiana del 1958. Di quest'opera si riproducono le pagine dedicate al «socialismo risorgimentale» di Carlo Pisacane. F. Della Peruta, I democratici e la rivoluzione italiana. Dibattiti ideali e contrasti politici all'indomani del 1848, Milano, F. Angeli, 2004, pp. 87-100.
La forza comunicativa e la capacità di diffusione del discorso nazionale, sostiene Banti, dipesero dal fatto che esso riproduceva come un «calco» tematiche, figure, simboli, ripresi da ambiti discorsivi differenti ma familiari, a cominciare dal discorso religioso. A. M. Banti, La nazione del Risorgimento. Parentela, santità e onore alle origini dell'Italia unita, Torino, Einaudi, 2000, pp. 107-111, 123-128. |