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Dagli anni Cinquanta ad oggi (1951-2011) » Merlin Lina  
1887 - 1979
 


 

 
Lina Merlin nel 1952 - Foto cortesia Archivio "Noi donne", Roma  

Tutti i bambini delle scuole d'Italia si mobilitarono: chi portava una coperta sfilacciata ai bordi; chi un cappottino smesso; chi una sciarpetta di lana appena approntata dai ferri della mamma; chi un paio di scarpe più volte risuolate marron con i lacci. Al suono della campanella, le bidelle correvano da una classe all'altra, ficcavano rapide “gli aiuti al Polesine” nelle lenzuola vecchie, annodate, e li portavano in Direzione.

Era la fine di novembre del 1951: il Po infuriato aveva sommerso i paesini spalmati sul suo delta. Alunne con il fiocco blu e alunni col fiocco bianco venivano fotografati accanto alle montagne di pezze. L'immagine confusa di qualche classe smunta e compunta veniva pubblicata sulle gazzette locali.

«Ecco il Polesine», invece di “buongiorno senatrice” o “Ciao, Lina”. Così i colleghi partigiani (comunisti, socialisti) e gli avversi (tutti gli altri) salutavano l'arrivo a Palazzo Madama di Angelina Merlin.

Classe 1887, nativa di Pozzonovo di Padova, membro della Costituente e senatrice socialista, vedova a vita (nel senso di ufficialmente singola) del compagno Dante Galliani, fervente socialista polesano, scomparso fin dal 1936.

Lina era fissata con leggi per il Polesine. Già prima dell'alluvione-catastrofe del 1951 e fino a quando il «miracolo economico» non blandì anche quelle sfortunate terre fangose e malariche, tutti gli anni, in occasione dell'approvazione delle leggi di bilancio, lei si metteva alle costole del ministro dell'Agricoltura e non mollava finché non aveva ottenuto pochi o tanti stanziamenti per i comprensori del Delta.

È difficile raccontare di Lina Merlin perché è un'icona del femminismo ante litteram ed è inchiodata alla legge che porta il suo nome. Ed è anche vituperata, per questo. Bacchettona, irresponsabile, utopista: da una decina d'anni ne abbiamo sentite e lette tante su di lei. Lina Merlin ha semplicemente pagato, in memoria, il prezzo di una troppo persistente notorietà, adulatoria o denigratrice, dovuta all'ignavia del Parlamento italiano che, fatta la riforma del 1958 che abolì il regime della prostituzione di Stato, non è stato più capace di legiferare in materia, di riformare quella legge diventata con gli anni sempre più inadeguata alla realtà cambiata, nella prostituzione e non solo.

Agiografici sono i pochi scritti commemorativi su lei oggi reperibili. Intrisi della retorica classista e progressista dell'epoca sono i suoi discorsi in Parlamento. La dipingono come una Giovanna D'Arco della virtù la maggior parte degli articoli sui giornali che si riferiscono al periodo di massima notorietà, a ridosso dell'approvazione della legge.

Tra quelli denigratori spiccano gli attacchi al fiele di Gianna Preda, sul Borghese, che la definiva «nemica della famiglia e della salute pubblica». C'è, però, la sua autobiografia: La mia vita pubblicata postuma (Giunti 1989).

Elena Marinucci, anche lei senatrice socialista e protagonista nel “movimento”, sul coté istituzionale del neo-femminismo degli anni Settanta del secolo scorso, andò a scovare Franca Cuonzo Zanibon, la figlia di una cugina di Lina Merlin precocemente scomparsa che le fu affidata. La Zanibon aveva il testo dell'autobiografia scritta dalla madre-cugina quando questa aveva quasi ottanta anni. La pubblicò, Marinucci, perché le si stringeva il cuore: nel Partito Socialista degli anni Settanta e Ottanta della nobile compagna “Polesine” nessuno parlava più.

Nobile d'animo Lina Merlin lo era, o comunque faceva di tutto per sembrarlo. E rispettosissima del marito. Il già famoso deputato Dante Galliani, quando la sentì commemorare Rosa Luxenburg in una sezione di partito, le disse: «Signorina, con quegli occhi e quella voce lei può affascinare le folle. Ha parlato bene, ma non conosce il socialismo teorico. Lei è colta e non farà fatica a studiare Marx». E lei rispose: «Grazie, onorevole. Studierò». Sembra che i due abbiano continuato a darsi del lei anche dopo il matrimonio.

Per sdrammatizzare quella che rischia di essere una fin troppo facile celebrazione, cominciamo col dire che della sua vita “vera” non sappiamo niente. La sua autobiografia, che si legge volentieri, è scritta come un discorso “alle masse”.

E poi insinuiamo che le “case chiuse” non le abolì Lina Merlin bensì l'Onu. Con l'adesione all'Onu l'Italia sottoscrisse la Convenzione del 1949 che, tra l'altro, ordinava «la repressione della tratta degli esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione». Superare il regime delle Case di Tolleranza gestite dallo Stato era dunque obbligatorio.

Il ministro degli Interni Scelba, già nel 1948, aveva smesso di rilasciare licenze di polizia per l'apertura delle Case e nello stesso anno la senatrice Merlin aveva presentato la prima e unica proposta di legge in materia. I colleghi e le colleghe, di governo e d'opposizione, furono ben felici di delegarle quel delicato compito.

Naturalmente lei ci mise del suo: richiamò l'articolo 3 della Costituzione (fu tra i membri che la scrissero) sull'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, per spiegare perché la prostituzione poteva essere abolita e basta, senza alcun controllo o permesso di esercitarla in luogo pubblico, che altrimenti la dignità delle prostitute sarebbe stata oltraggiata. E tenne duro su quella impostazione per nove anni: l'iter della legge fu lento e costellato d'ostruzionismo, di destra e di sinistra, di parte laica e di parte cattolica. Ma lei era tenace, odiava la proprietà privata, lo sfruttamento “dell'uomo sull'uomo” e le “signore borghesi”.

Mentre aveva a cuore l'emancipazione delle donne oppresse. Era rispettata, brava a parlare e a convincere. E non si perdeva in fronzoli. Indossava eleganti cappellini, è vero, e c'è persino una foto che la ritrae in vestaglia di raso, i capelli riccio luti e le labbra dipinte. Come una prestante maitresse di bordello.

C'è un'altra drammatizzazione da sfatare, tramandata dalla vulgata femminista fino ai nostri giorni, che la vuole sola e contro tutti nella lunga battaglia per l'approvazione della legge «Per la chiusura delle case di prostituzione e lo sfruttamento della prostituzione altrui». Non è vero: la allora potente Unione Donne Italiane, di cui fu tra le fondatrici, l'appoggiava.

La buona metà del Parlamento non fece mai mancare il suo sostegno: molti colleghi di tutti i gruppi politici e le (poche) colleghe del suo schieramento. Andava in giro a visitare case chiuse, ospedali celtici e prigioni assieme all'inseparabile amica giornalista Carla Barberis. Il mestiere di parlamentare le piaceva perché le assicurava una vita indaffarata, un ruolo pubblico di tutto rispetto. E le piaceva anche destreggiarsi nelle lotte intestine al suo partito: allorquando i suoi successi e i suoi eccessi in difesa dei dannati della terra davano fastidio lei si batteva apertamente, forte della popolarità alla base del partito, dell'instancabile lavorio istituzionale.

Come è noto, durante l'iter parlamentare della “sua” legge, Lina Merlin aveva contro la lobby dei tenutari delle Case e a favore le prostitute che ci lavoravano. Tutte? Non lo sapremo mai. Le Lettere dalle case chiuse di Carla Barberis e Lina Merlin (Edizioni del Gallo 1951) rappresentano uno scenario univoco, a tinte fosche: corpi martoriati e menti umiliate per via dell'“indegna schiavitù”. Effettivamente vivere e lavorare in un bordello di Stato doveva avere molti aspetti spiacevoli. Lina Merlin li trovava disgustosi. E non accettava le repliche di quante e quanti si opponevano alla chiusura delle Case di Tolleranza per la paura che sottraendo agli uomini il bordello garantito e controllato ne sarebbe derivato un cataclisma sociale e sanitario (il che, è bene ricordarlo, non ebbe luogo).

Invitata da un gruppo di “signore borghesi” a tenere una conferenza nel loro circolo, quando si levarono le obiezioni apprensive delle madri che temevano per la salute dei loro figli, lei tagliò corto: «E voi teneteveli in casa». Inflessibile, la signora.

Nell'autobiografia Lina Merlin si rammarica di non aver lasciato il Parlamento dopo l'approvazione della “sua” legge. Perché subito come politica entrò nel cono d'ombra. Il Partito Socialista che cambiava per andare al governo non le piaceva né riusciva a governarlo. Praticamente fu estromessa proprio per via della sua inflessibilità. Nel 1961 il PSI le tolse il collegio di Rovigo. Lei restituì la tessera. Alle elezioni del 1963 che aprirono al primo governo di centro-sinistra non si presentò.

Scrisse a conclusione della sua vita: «Sono stata coerente con la mia decisione, non ho accolto inviti né da sinistra né da destra, ho rifiutato interviste che avrebbero dato a un fatto serio e doloroso l'aspetto del pettegolezzo, dal quale rifuggo, e di una meschina vendetta derivante da un astio che non sento». Morì a Milano, nel 1979, assistita dalla figlia-cugina Franca.

Roberta Tatafiore

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