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Dagli anni Cinquanta ad oggi (1951-2011) » Viviani Luciana  
1917
 
 
Luciana Viviani durante un comizio del PCI a Napoli, 1946  

Nata nel 1917, ammaliata e disincantata da tutti i miti del suo secolo, abitata da quello spiritello vaporoso e scettico che è il demone della napoletanità, Luciana Viviani ha attraversato i suoi novantaquattro anni da grande avventuriera, immersa nella contingenza, irridente e tragica come è stata irridente e tragica la vicenda di questa figlia del Novecento che ha cercato di imporre alla sorte la sua scala di valori.

Ora che i suoi pensieri stanno esattamente al passo della sua realtà, è lei a padroneggiare le intermittenti fasi della sua vita, e a farle scendere dal piedistallo, ad ammettere senza lamento d'averle vissute «con un piede dentro e uno fuori», passandone il confine come un contrabbandiere, entrando e uscendo, ma anche come l'unico demiurgo di ogni passaggio: il Guf, la guerra, la Resistenza, il Sud dove è nata, il Nord dove è sbocciata in politica, il centro del Centro, Roma, dove vive da 52 anni, il comunismo Rosso antico (è il titolo di un suo libro del 1994 che insegna Come lottare per il comunismo senza perdere il senso dell'umorismo), il primo Parlamento della Repubblica, la rivoluzione dei Sessanta, il femminismo, il post di ciascuno di questi mondi, la famiglia, anzi le famiglie, quella d'origine, madre e padre, e quelle che sono venute dopo, le Viceregine di Napoli che l'hanno svezzata all'esistenza, il marito e il figlio, e poi una lei, l'alter ego della sua post-vita personale, l'unico post senza fragilità, che ancora dura.

Un vieto cliché fa della figlia di Raffaele Viviani, creatore novecentesco del teatro napoletano, la regolare proiezione politica della poetica corale del padre, dalla messa in scena del vicolo e del suo insondabile miscuglio di fatalismo e ribellismo, di orgoglio e rinuncia, alla dimensione romantica del comunismo che monderà diseredati e oppressi della polvere del loro iniquo destino.

Lei stessa alimenta l'applicazione del cliché, in omaggio al mito paterno e quasi a risarcimento della perenne assenza nella sua vita di ragazza di un padre tanto ingombrante, aggiustando un debito con un credito. Ma la mano leggera con cui disegna la mappa sentimentale del dare e dell'avere, il bilancio delle sue fortune e delle sue virtù, tradisce il fatto che il suo unico debito, pudicamente taciuto, è quello nei confronti del tempo che passa e libera.

Sempre incline a riconoscere ciò che ha avuto più di quanto non abbia dato, c'è forse in questo il suo legame indissolubile, la sua dipendenza dalle ipnosi totalizzanti che avevano sedotto le generazioni dell'umanità occidentale che lei ha incrociato, o la sua presunzione di innocenza: la Storia è tutto e l'individuo è nulla, per quanto lei stessa di rotondissima individualità. Quella Storia che è come una Fortuna predeterminata o un Caso ordinato, solo se la guardi a ritroso.

Ha avuto, certo che ha avuto. Non solo dall'essere una Viviani, ma dal marito che incontra nel Guf e col quale attraversa il guado verso un'altra rivoluzione promessa, quella comunista, a risarcimento di quella, fallita, mussoliniana. Ha avuto dalle “Viceregine” Mariuccia e Fafina, depositarie di una saggezza non scritta, assimilata e trasgredita, alle quali ha intitolato nel 1997 un libro per onorarne il dissacrato lascito. Ha avuto dalla Resistenza che le vale una croce al merito di guerra.

Ha avuto dal PCI che l'ha portata nel 1948 tra le prime donne del Parlamento italiano dove resta per le tre successive legislature, vent'anni. Ha avuto da quell'universo dell'emancipazione femminile che metterà a soqquadro gli universali di Mariuccia e Fafina, così facili da rimpiazzare, e il suo particolare, così difficile da sovvertire. E forse per questo lei lo ha “allargato”, via via.

Dopo averlo, prima, ristretto all'utopia della militanza a tempo pieno, poi rovesciato, e disintegrato, in quell'altra utopia del contropotere femminile, alla ricerca di un'altra terra promessa che sprizzasse latte e miele a coprire il lutto del maschio e la mistica rinascita della femmina.

Lo ha allargato, e riconciliato, facendo spazio alle cose piccole che sole sedano il tumulto cosmico, allo sport (sci, cavallo, vela, periplo dei faraglioni di Capri a nuoto), al computer, ai paesi sconosciuti, ai cani, ai libri (letti e scritti). «Il mondo non finiva là», e la sua sentenza intrisa di meraviglia e scepsi è il contrario di ogni nichilismo, è dubbiosa ma avida (ancora) di riempire quel vuoto sfavillante che le si è aperto di fronte.

Tardivo credito per quella ragazza che si era innamorata del mito americano della democrazia e della frontiera e che si era ritrovata qualche anno dopo ad erigervi contro uno steccato, boicottando, da militante, l'adesione italiana al Patto Atlantico. Negligenza dei crediti, o presunzione di innocenza, non lo ha annotato.

Romantica, è vero, come una maschera del teatro paterno, mai deludente cliché, Luciana Viviani è una irregolare che pensa positivo, molata dall'esperienza e non inasprita dalla sua intelligenza. Esibisce con disinvoltura il rosso dell'abito di jersey che la sua figura minuta e i capelli grigi cortissimi smorzano con eleganza, e, senza iattanza, anche quello del suo profilo politico. Di quanto resta di ciò che fu il suo partito non le piace il moralismo, il settarismo, l'attardarsi nel «buttare a mare un bagaglio già perso».

Ha «lasciato al momento giusto» lei, una trentina d'anni fa. Venti prima del crollo del mausoleo sovietico. Le sue parole di oggi hanno la freddezza lineare di una presa d'atto, di uno sguardo all'indietro allungato, senza allucinazione, da una piccola sorella viva sul grande fratello sepolto. E chissà se ci aveva mai creduto che quell'universo compatto una volta sorvegliato dal cadavere di Lenin potesse essere rimesso a posto dai muscoli guizzanti di una grande sorella, di una viceregina del postcomunismo. Chissà.

Questa è la storia, vera e surreale, di Luciana Viviani, terzogenita di Raffaele, laureata in lingue, militante del Guf, poi giovane antifascista, che ne sposa un altro, Riccardo Longone, mette al mondo un figlio, Giuliano, nel ‘41, nel ‘43 sposa la Resistenza, poi il proselitismo femminile di Teresa Noce, candidata nel ‘46 a Napoli per le politiche abbinate al referendum istituzionale, consigliera comunale nel ‘47, in Parlamento dal ‘48 per oltre vent'anni, nell'Udi dal ‘44, nella vita nova con Rosetta Stella, molto più giovane, ormai da un numero d'anni che supera, quello passato con chiunque altro. Tranne quello passato con se stessa.

Pialuisa Bianco

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