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Dagli anni Cinquanta ad oggi (1951-2011) » Campo Cristina (Vittoria Guerrini)  
1923 - 1977
 


 

 
© G.B.B./Grazia Neri, Milano  

Odiava il tempo, Cristina. Odiava il tempo in generale: «Tutto ciò che è passato e futuro è estraneo e lontano da Dio» (Meister Eckhart) era una delle sue frasi preferite. Odiava un tempo in particolare, quegli anni del medio Novecento italiano in cui le era toccato di vivere, di cui percepiva in modo straziante la bancarotta spirituale.

Creatura umbratile, lo osteggiò non agitandosi e contrapponendosi platealmente (come fece nello stesso periodo un altro antimoderno, Pasolini) bensì tendendo a scomparire, a tagliare i ponti, a perdere il contatto. Boicottando per prima cosa la biografia, a cominciare dal nome anagrafico, Vittoria Guerrini, seppellito da una serie di pseudonimi fra cui Cristina Campo divenne il preferito. Senza dimenticarsi di minimizzare anche la bibliografia: «Ha scritto poco e le piacerebbe aver scritto ancor meno», dice di sé in terza persona. Gli imperdonabili, il suo titolo più emblematico (quasi un'autodenuncia) appare solo nel 1987, postumo. È l'inizio di una seconda vita editoriale, più intensa della prima (qualche poesia e pochi brevi saggi poi raccolti in Il flauto e il tappeto, Rusconi, 1971).

Come Pasolini nasce a Bologna e muore a Roma (il nome dello scrittore-regista ritorna per la seconda volta, e Cristina forse non avrebbe gradito, vista la sua disistima per i letterati politicamente impegnati, ad esempio Moravia).

Suo padre è il maestro Guido Guerrini, insegnante di musica di origini romagnole, sua madre Emilia Putti appartiene a una famiglia della buona borghesia bolognese. Lo zio Vittorio Putti è un luminare dell'ortopedia e perciò da bambina vive all'interno dell'ospedale ortopedico Rizzoli di Bologna, in un mondo a parte, senza compagni di giochi.

Il difetto cardiaco che l'accompagnerà per tutta la vita le impedisce di frequentare regolarmente la scuola («Fortuna immensa», commenterà Elémire Zolla) e anche questo contribuisce a fare di lei una persona speciale. Studia da autodidatta sotto la guida del padre e di insegnanti privati. Impara le lingue leggendo Proust, Cervantes, Shakespeare...

Seguendo la famiglia nei suoi trasferimenti abita prima a Parma e poi per lunghi anni a Firenze, dove comincia a tradurre, per editori e piccole riviste, Katherine Mansfield e Simone Weil. Sulle rive dell'Arno comincia una difficile relazione con Leone Traverso, il germanista, e al concludersi di questa si slancia verso Mario Luzi, il poeta, che però è sposato e forse non troppo interessato.

Cristina è molto esigente, ha paura della solitudine ma pretende una “compagnia perfetta”, che ovviamente non trova. Pensa di fondare una rivista “assolutamente pura”, che naturalmente non arriverà mai in edicola. Cerca infine, nell'opera sua e in quella altrui, il “libro perfetto”, altra meta irraggiungibile. Scrive che «il poeta assoluto è esistito ed è Dante», mentre si deve accontentare di Luzi, anzi nemmeno di quello.

Le idee estetiche sono pericolose e quelle politiche di più. «Negli anni del dopoguerra, a Firenze, si divertiva a lodare ad alta voce Mussolini per scandalizzare i passanti» ricorda la sua biografa Cristina De Stefano. A toglierla dall'impasse arriva la nomina del padre a direttore del conservatorio di Santa Cecilia, così nel 1955 Cristina lo segue a Roma, dove collabora (piuttosto saltuariamente) alla radio e a riviste come Paragone e Il Mondo.

Si occupa quasi solo di recensioni ma è ben attenta a fuggire qualsiasi commercio con l'attualità. Evita gli autori che vanno per la maggiore (gli aborriti contemporanei i cui libri definisce “pezzi di carogna”) e inoltre non accetta né tagli né modifiche agli articoli, né compromessi di altro genere. Rimane, pertanto, un'isolata e diventa un'imperdonabile sulla scia di poeti senza mezze misure quali Ezra Pound e Marianne Moore, quest'ultima definita «meticolosa, speciosa, inflessibile», tre aggettivi per scegliere i quali dev'essersi guardata allo specchio.

Nella Capitale conosce Elémire Zolla, studioso fra esoterismo e Tradizione, sposato con la poetessa Maria Luisa Spaziani e quindi con difficoltà a contraccambiare il sentimento appena nato. Ma i due finiscono col convivere e a coagulare un piccolo nucleo di eccentrici, il poeta italo-argentino Juan Rodolfo Wilcock, il dissidente polacco Gustaw Herling, i tre giovani anticonformisti Guido Ceronetti, Alfredo Cattabiani, Roberto Calasso (gli ultimi due saranno i suoi editori, rispettivamente in Rusconi e in Adelphi).

Nel ‘65, dopo la morte del padre, Cristina si ritira sull'Aventino. Abita con Zolla a Villa Sant'Anselmo, un piccolo albergo sull'omonima piazza a pochi passi dall'omonima abbazia, dove spesso si rifugia a pregare. Sul colle famoso per la secessione plebea, Cristina attua la sua secessione aristocratica da un mondo che le piace ogni giorno di meno. Il colpo definitivo lo riceve dal Concilio Vaticano II, che cancella la messa in latino e il canto gregoriano, suoi grandi conforti. Stende un manifesto-appello per la salvezza della liturgia tradizionale e organizza un'imponente raccolta di firme prestigiose: Auden, Bergamìn, Borges, Bresson, Elena Croce, De Chirico, Del Noce, Dreyer Montale, Petrassi, Pizzetti, Quasimodo, Waugh, Zolla e molti altri.

È il 1966, unico anno di vero affollamento in una vita per il resto molto solitaria. Fonda la sezione italiana di Una Voce, associazione per la salvaguardia del latino ecclesiastico (vicepresidenti Macchia e Montale). Ma non c'è niente da fare, anche a Sant'Anselmo arrivano i microfoni e il volgare. Cristina sta sempre più male, la malattia al cuore si aggrava. Ha sempre scritto poco, a questo punto smette del tutto. Si avvicina agli ortodossi e alla loro messa incontaminata. Non scenderà mai più dall'Aventino.

Camillo Langone

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