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Dalla prima guerra mondiale al secondo dopoguerra (1915-1950) » Majer Rizzioli Elisa  
1880 - 1930
 


 

 

«Dietro alla schiera degli Eroi, pur noi, sorelle bianche, la Patria chiama»: Elisa Mayer Rizzioli era fra le ventiquattro signore che il 20 ottobre 1911 si imbarcarono come infermiere volontarie sulla motonave “Memfi”, in aiuto ai soldati italiani che combattevano in Libia. C'è un solo libro di memorie di quella pioniera esperienza femminile: Accanto agli eroi fu pubblicato dalla Mayer Rizzioli nel 1915, con l'intento di sostenere l'attività delle volontarie della Croce Rossa chiamate alla prova della Grande Guerra.

Elisa Mayer che era nata a Venezia da famiglia aristocratica nel 1880, aveva trentuno anni quando vestì per la prima volta il velo e l'uniforme bianca con la croce rossa sul petto. Da sette anni era sposata con il notaio Nicola Rizzioli, appartenente ad una famiglia di professionisti molto nota a Venezia. La partenza della signora Rizzioli verso la Libia fece trasalire molti. «Non l'ho mai lasciato mio marito; non sono andata sola in nessun posto. Ora si tratta di un dovere e Nicola capisce questo e mi approva», scrisse nel diario della sua guerra africana. La cui scrittura, sentimentalmente retorica, lascia vedere anche le spine del privilegio della piccola squadra di crocerossine, élite nazionale prostrata dal mal di mare, risanata alla vista di «Tripoli nostra».

Alla vigilia del conflitto mondiale, Elisa Mayer Rizzioli si impegnò attivamente nel movimento interventista. Scoppiata la guerra organizzò un Comitato di Soccorso per le famiglie dei soldati bisognosi. Fu Segretaria del Comitato di Assistenza Civile di Venezia, prima di partire nuovamente come infermiera sui treni-ospedale della Croce Rossa. Dopo la guerra – visse “al fronte” per più di tre anni – fondò e diresse l'Associazione delle Legionarie di Fiume e Dalmazia. Quando nel 1920 si iscrisse al Partito Fascista era una crocerossina pluridecorata. Inizia così la sua carriera di “gregaria fascista”, come amava definirsi. Collabora al Popolo d'Italia, prende parte alla campagna elettorale del 1921 e l'anno seguente partecipa come infermiera alla Marcia su Roma.

Nel 1924 organizza in Lombardia i primi Gruppi Femminili Fascisti; alla fine dello stesso anno è nominata Ispettrice Generale dei Fasci Femminili. Dal 1925, il suo nome, con la qualifica di “direttrice-fondatrice”, è sotto la testata del quindicinale La Rassegna Femminile Italiana, che ha per scopo la guida e il coordinamento dei Fasci Femminili. Oltre a mantenere vivo il culto e la legittimazione politica del sacrificio di vite umane della Grande guerra e della “guerra civile”, La Rassegna cerca di stabilire affinità spirituali e di scelta politica con le nuove aderenti al fascismo. La Mayer Rizzioli credeva che le donne fasciste potessero dar prova come gli uomini di “disciplina interiore”, che non dovessero essere «politicanti» ma non per questo solo “vestali” (come aveva stabilito lo statuto del gruppo femminile di Roma nel ‘22). Ovvero, credeva all'autonomia decisionale del fascismo femminile. Si scontrò quasi immediatamente con la componente nazionalistica del partito a cui Mussolini aveva affidato la direzione delle attività propagandistiche, sportive e di diffusione della stampa.

Gli statuti del 1925 (alla cui formulazione partecipò anche la Mayer Rizzioli) prevedevano maggior controllo e subordinazione della componente femminile. Nel partito, era complessivamente assai tiepido l'interesse per i Fasci Femminili, la struttura che avrebbe dovuto accogliere le donne, soprattutto insegnanti, che a partire dal 1923-24 cominciavano a iscriversi numerose. La breve parabola delle vicende della legge per il voto alle donne, dal 1919 al 1925, testimonia la radicata diffidenza della componente fascista maschile (come di buona parte della società italiana) nei confronti della partecipazione politica femminile. La Mayer Rizzioli apparteneva al minuscolo gruppo di italiane che nei primi anni Venti erano state già emancipate, anche e soprattutto, dalla politica. La sua partecipazione alle vicende belliche non era stata da “fronte interno”, nella rete di solidarietà lontana, fra tè di beneficenza e taglia e cuci di scaldarancio.

Autocandidatasi ad un percorso biografico non comune, da quando nel 1911 aveva ricevuto la cartolina che la chiamava ad imbarcarsi sulla «Memfi», la ricca e aristocratica Mayer Rizzioli inalberò spesso il suo “onore di rango” che la esentava dall'obbedienza di molte norme. Quando con piglio orgoglioso scrisse ad Alessandro Chiavolini, segretario particolare del duce: «Ho finanziato da sola la nostra rivista senza che costi un soldo al partito!», diceva la verità. Sulla sua rivista scriveva che il mondo cambiava e si rinnovava, che la vecchia mentalità scompariva, che bisogna va che anche la «donna nuova» del fascismo diventasse «moderna», pur conservando «il suo posto di regina della casa».

Dei reami casalinghi è difficile scandagliare i poteri. Ma del quartetto – «come aveva ordinato il Duce tre uomini e una donna» – che nel 1925, si curvò in «disamina minuziosa» sugli Statuti dei Fasci Femminili, c'è la sua perfetta memoria della gerarchia di poteri: la solita ironia di uno dei tre («Ma ci sono abituata», commentava Mayer Rizzioli), e la tenace reazione del «giovanissimo uomo grave preposto all'ispettorato» che presagiva gli statuti «forieri dei peggiori cataclismi, sommosse, sommersione dell'intero fascismo per opera delle donne».

Eppure proprio quegli Statuti avevano formalizzato la smilitarizzazione della componente femminile del Partito, la fine di cortei, gradi femminili, camicie nere unisex. La «gregaria fascista», in realtà una delle esponenti più importanti del fascismo femminile degli anni Venti, fu continuamente minacciata dalla componente maschile del Partito. «Oggi devo dire a V. E. che il Nazionalismo e la Massoneria sono più forti di me», scrisse a Mussolini nell'agosto del ‘25 ribadendo l'importanza del voto femminile.

Dalle pagine della Rassegna, nel 1929, contrastò i fautori della battaglia demografica accusando «la grossolana incompetenza maschile che riduce la donna ad una macchina produttrice». Non più sorretta dal partito, non più organo dei Fasci Femminili, la rivista si avviava al tramonto. Nel 1930 moriva anche la fondatrice, delusa e amareggiata.

Michela De Giorgio

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