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Dalla prima guerra mondiale al secondo dopoguerra (1915-1950) » Labriola Teresa  
1873 - 1941
 

Nello studio di Antonio Labriola, il celebre filosofo che divulgò la teoria marxista in Italia, c'era il busto della figlia Teresa montato su un piedestallo.

Lo racconta la celebre militante socialista Angelica Balabanoff, sottolineando lo stretto legame fra i due, a riprova delle grandi aspettative che il filosofo riponeva nella figlia. Teresa era nata nel 1873, terzogenita del filosofo e di Rosalia Carolina von Sprenger, di origine tedesca, collaboratrice decisiva di Antonio per la conoscenza e la traduzione dei testi marxisti. Una famiglia carica di passione intellettuale e politica, in cui l'intelligenza di Teresa veniva coltivata e apprezzata come quella del fratello.

I suoi inizi furono brillanti: laureata in giurisprudenza, ricoprì agli inizi del Novecento l'incarico di libera docente in filosofia del diritto, prima donna nell'Università di Roma. Antonio Labriola ricorda in una lettera a Benedetto Croce il giorno in cui Teresa tenne la sua prolusione, definendola una “gazzarra”, per la presenza di giornalisti, curiosi, e studenti “protestatari” a causa della insolita novità. Solo l'intervento delle forze dell'ordine era riuscito a riportare la calma e consentirle lo svolgimento regolare delle lezioni.

Ma, in seguito, la carriera universitaria di Teresa non ebbe però uno sbocco vero e proprio; i concorsi che tentò infatti per diventare titolare di una cattedra non andarono mai oltre l'ammissione alla terna finale e a nulla valse l'amicizia del padre, peraltro morto precocemente nel 1904, con Benedetto Croce, che stando a quanto risulta dalle lettere scambiate fra Teresa e il filosofo, non la sostenne mai fino in fondo.

Delusa, nel 1912 la Labriola presentò domanda di iscrizione nell'Albo degli avvocati. Nel luglio dello stesso anno il Consiglio dell'Ordine accettava l'iscrizione con la motivazione che a un professore di diritto non si potesse negare di svolgere la professione di avvocato, ma meno di un mese dopo la Corte d'Appello gliela negava. La Cassazione di Roma, investita del caso su ricorso della Labriola, confermava nel 1913 l'esclusione, e ribadiva con abbondanti citazioni tratte da Papiniano e Ulpiano che la donna non poteva essere ammessa all'esercizio dell'avvocatura.

Il caso fu occasione di dibattito sui giornali e di interpellanze parlamentari: una parte esigua di avvocati progressisti la sostenne, ma le limitazioni per l'esercizio delle professioni liberali (tra cui l'avvocatura) caddero solo con l'approvazione della cosiddetta «legge Sacchi», nel 1919. Teresa, nuovamente delusa, non era più interessata all'esercizio della professione, ma aveva scelto l'impegno politico, pur senza seguire la tradizione familiare: infatti aveva aderito in modo entusiastico alla dottrina nazionalista e all'interventismo.

Queste vicende destinarono quasi la Labriola ad assumere un ruolo portante nell'emancipazionismo italiano e a ricoprire ruoli di primo piano nelle associazioni femminili per la conquista dei diritti civili e politici. Presiedette infatti per molti anni la sezione giuridica all'interno del Consiglio Nazionale Donne Italiane, la più grande federazione di associazioni italiana, nata nella capitale nel 1903.

Fu vicepresidente del Comitato pro-voto romano e rappresentò spesso il mondo dell'associazionismo femminile all'estero, anche per la sua formazione poliglotta: conosceva infatti il francese e il tedesco, oltre alle lingue classiche, greco e latino. La sua preparazione di giurista era indispensabile per studiare la revisione dei codici, civile e penale, soprattutto in relazione alla riforma del cosiddetto istituto familiare e all'abolizione della regolamentazione della prostituzione – sempre presente nelle richieste femministe – e alla rivendicazione dello ius suffragii, il diritto di voto attivo e passivo.

Nei suoi numerosissimi scritti al riguardo, la Labriola, pressoché unica intellettuale italiana del tempo, tentò un'operazione di analisi e sintesi delle teorie femministe contemporanee, sempre interpretate alla luce del più ampio dibattito ideologico: considerava infatti il femminismo «l'ultima ed estrema punta del moto più generale dell'intera società d'Europa nel combattere i privilegi e per raggiungere l'uguaglianza del diritto, anzi la sua più logica e matura conseguenza». Non a caso titolava nel ‘17 un suo libro Il femminismo come visione della vita.

La prima guerra mondiale rappresentò per lei una svolta, sia personale che politica, che maturava già da qualche anno. Da una iniziale e sostanziale condivisione del socialismo “di famiglia”, infatti, aveva maturato via via una critica del marxismo che divenne sempre più serrata e che, intrecciandosi con avvenimenti di portata internazionale quali lo scoppio del conflitto e la rivoluzione d'ottobre, la porterà ad aderire ad un nazionalismo nutrito di antisocialismo e antibolscevismo.

Per le sue posizioni interventiste si dimise dal Consiglio nazionale donne italiane, e presiedette, ispirò o sostenne gran parte delle iniziative femminili dirette a sostenere lo sforzo bellico. Per lei, alle soglie del conflitto, lo Stato si identificava con la volontà nazionale, e le donne potevano finalmente aspirare a un ruolo paritario come produttrici, subordinate solo agli interessi della nazione.

Il femminismo pacifista, da lei criticato commetteva l'errore di non capire che la lunga separazione fra vita privata e vita pubblica sarebbe stata radicalmente trasformata dalla guerra. Enunciando inoltre la tesi che la donna-madre come parte più sensibile della famiglia doveva prendere parte attiva alla vita dello Stato, preparando la famiglia a vivere per esso, anticipava un cardine dell'ideologia fascista della famiglia.

Il rapporto di Teresa Labriola con il fascismo fu complesso e non privo di delusioni. Di certo, la sua adesione non fu dettata dall'opportunismo: non divenne infatti un'osannata intellettuale, probabilmente perché agli occhi del regime restava pur sempre la figlia di un filosofo ed intellettuale marxista. Con la politica fascista condivideva la grande attenzione per la maternità, sostenuta da una attenta politica sociale, di cui l'associazionismo femminile aveva già posto le premesse nell'età liberale, se pure con altri presupposti. Ma la Labriola si trovò anche in sostanziale imbarazzo davanti all'espulsione delle donne dal mondo del lavoro e alla condanna del controllo delle nascite.

Nubile per tutta la vita, morì in solitudine e in non floride condizioni economiche nel 1941. Aveva firmato circa settanta fra monografie e saggi e più di cento articoli, oltre a svariate recensioni, prefazioni e introduzioni.

Fiorenza Taricone

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