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Testi » Canto dell'Italia che va in Campidoglio  
 

di Giosuè Carducci

Zitte, zitte! Che è questo frastuono
Al lume della luna?
Oche del Campidoglio, zitte! Io sono
L'Italia grande e una.
Vengo di notte, perché il dottor Lanza
Teme i colpi di sole:
Ei vuol tener la debita osservanza
In certi passi, e vuole
Che non si sbracci in Roma da signore
Oltre certi cancelli.
Deh, non fate, oche mie, tanto rumore,
Che non senta Antonelli.
Fate piú chiasso voi, che i fondatori
Della prosa borghese,
Paulo il forte ed Edmondo da i languori
Il capitan cortese.
Qua, qua, qua. Che volete voi? Chiamate
Il fratel Bertoldino
O Bernardino? Ei cova, ci ponza, il vate,
Lo stil nuovo latino.
S'ell'è per Brenno, o paperi, sprecata
È ormai la guardia. Brava
Io fui tanto e sottil, che sono entrata
Quand'egli se ne andava.
Sí, sí, portavo il sacco a gli zuavi
E battevo le mani
Ieri a' Turcòs: oggi i miei bimbi gravi
Si vestono da ulani.
Al cappellino, o a l'elmo, in ginocchione
Sempre; ma lesta e scaltra
Scoto la polve di un'adorazione
Per cominciarne un'altra.
Cosí da piede a piè figlia di Roma
I miei baci io trascino,
E giú nel fango la turrita chioma
Con l'astro annesso inchino
Per raccattar quel che sventura o noia
Altrui mi lascia andare.
Cosí la eredità vecchia di Troia
Potei raccapezzare
A frusto, a frusto, via tra una pedata
E l'altra, su bel bello:
Il sangue non è acqua; e m'ha educata
Nicolò Machiavello.
Ora, se date il passo a la gran madre,
Oche, io vo in Campidoglio.
Cittadino roman vo' fare il padre
Cristoforo, e mi voglio
Cingere i lombi di valore, e forte
In rassegnaziöne,
Oche, io voglio soffrir sino a la morte
Per la mia salvazione.
Voglio soffrire i Taicùn e i Lami,
E il talamo e la culla
Aurea de' muli, e le contate fami,
E i motti del Fanfulla.
Vo' alloggiar co 'l possibile decoro
La gloria del Cialdini,
Cantar l'idillio dell'età dell'oro
Di Saturno Bombrini;
E vo' l'umilità mia gualdrappare
Di stil manzonïano,
E recitar l'uffizio militare
D'Edmondo il capitano
Per non cader in tentazion; la prosa
Di Paolo Fambri, il grosso
Voltèr delle lagune, è spiritosa
Troppo per il mio dosso,
Gli analfabeti miei che la lettura
Di poco han superato,
Preferiscon d'assai la dicitura
Piú svelta del cognato.
E cosí d'anno in anno, e di ministro
In ministro, io mi scarco
Del centro destro su 'l centro sinistro,
E 'l mio lunario sbarco;
Fin che il Sella un bel giorno, al fin del mese,
Dato un calcio a la cassa,
Venda a un lord archëologo inglese
L'augusta mia carcassa.
 

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