Navigazione: » Il Risorgimento » Italia prima e dopo l'Unità » La costruzione dello Stato e i nuovi indirizzi politici
Motore di ricerca

Cerca all'interno
dell'archivio

   La costruzione dello Stato e i nuovi indirizzi politici
  Gli articoli più visualizzati
Bandiera Italiana
  Sito ottimizzato
Ottimizzazione

Sito ottimizzato per una risoluzione di 1024x768px o superiori.

Browser/applicazioni consigliate

  • Firefox 3+
  • Crome - tutte le versioni
  • Internet Explorer 7+
  • Opera 9+
  • Safari 5+
  • Adobe Acrobat Reader o altro lettore pdf (per visualizzazione documenti)
 

La costruzione dello Stato e i nuovi indirizzi politici » La piemontesizzazione  
 


 

 
H. Le Lieure - Primo parlamento italiano - Mosaique  - Museo Centrale del Risorgimento - Roma  

Il termine piemontesizzazione indica in maniera polemica, fin dai mesi immediatamente successivi alla proclamazione del Regno, i modi in cui l'Italia conseguì la propria unità politica. In particolare, il termine fu usato per stigmatizzare le leggi di unificazione amministrativa (1865), con la conseguente imposizione alle nuove province di un corpo di impiegati e di funzionari per la maggior parte piemontesi, inviati nelle terre annesse a dare esecuzione in periferia dell'azione del governo centrale rinsaldando così il vincolo politico dell'Unità.

Bersaglio polemico furono soprattutto lo schema organizzativo, il linguaggio e le prassi burocratiche in vigore negli uffici piemontesi, che vennero estesi alla nuova burocrazia italiana e ne fissarono a lungo i suoi tratti distintivi.

In realtà, la piemontesizzazione fu una scelta obbligata del nuovo Stato. Ad imporla furono l'esiguità quantitativa di una classe dirigente che potesse assolvere ad una funzione veramente nazionale e la sua prevalente localizzazione nell'Italia settentrionale.

Bisogna anche tener presente che la nascita dell'Italia unita significò l'unificazione di un paese fortemente frammentato, non solo sul piano politico territoriale, ma su quello delle condizioni economiche e sociali. Il rigido modello piemontese, così come era stato definito nel 1853 da Cavour con la legge sull'ordinamento della amministrazione centrale della monarchia sabauda, ebbe il merito di fornire un quadro istituzionale stabile alla trasformazione del paese.

 
Il brigante Nicola Napolitano "in posa" dopo la fucilazione ottobre 1863 - fotografia - Istituto per la Storia del Risorgimento - Roma  

Responsabilità della politica, vale a dire organizzazione gerarchica degli uffici secondo una catena di comando che risaliva infallibilmente all'autorità del ministro, e uniformità amministrativa furono gli strumenti attraverso i quali il nuovo Stato poté afferrare il corpo della nazione e avviarlo sulla strada di una difficile modernizzazione.

Un aspetto particolare della piemontesizzazione fu l'invio dell'esercito regio nelle province meridionali per la repressione del brigantaggio, che sembrò dare alla piemontesizzazione stessa il carattere, di per sé, ovviamente, negativo di una vera e semplice conquista militare.

Nella polemica contro la piemontesizzazione del Regno d'Italia confluivano diversi elementi. Innanzitutto, la percezione nei ceti burocratici preunitari di una perdita di status legata alla scomparsa delle vecchie amministrazioni italiane. A ciò si aggiungeva il rimpianto per le perdute tradizioni amministrative.

È un sentimento, che all'indomani dell'Unità, si ritrova tanto nella Lombardia ex asburgica che tra i funzionari della monarchia borbonica al Sud, così come tra gli apparati di corte dell'Italia centrale.

Il 26 maggio del 1860, Cavour intervenne alla Camera riferendo di una Lombardia «irritatissima» per il modo in cui si era proceduto al suo riguardo: nel giro di poche settimane, disse, l'annessione alla monarchia sabauda aveva significato migliaia di articoli di leggi piemontesi imposti ad un paese nuovo, con impiegati abituati a lavorare in modo completamente diverso. Soprattutto, a regolarsi secondo un sistema di norme estraneo alla tradizione piemontese.

Ai funzionari dell'amministrazione borbonica l'arrivo dei piemontesi dovette fare lo stesso effetto, almeno stando ai ricordi di Giuseppe Giannelli, burocrate delle province napoletane. Capi delle amministrazioni periferiche che nelle cose di ufficio usavano il dialetto piemontese, l'ossessione per gli aspetti procedurali nell'amministrazione, il prevalere nella redazione degli atti del formulario dell'antica amministrazione piemontese; un frasario, aggiungeva Giannelli, «che appo i meridionali non aveva riscontro che negli atti notarili delle peggiori epoche della letteratura italiana».

 


 

  Veduta della città di Torino alla metà del secolo XIX.

Questo sentimento avrebbe alimentato nel corso degli anni una memoria risentita del passato preunitario e le molteplici correnti dell'autonomismo italiano, che di volta in volta avrebbero fatto appello alla lezione di Carlo Cattaneo, nell'Italia settentrionale, e al Sud ad un più variegato ventaglio di posizioni: da quelle neoguelfe e federaliste, che chiedevano di tenere insieme unità e diversità regionali, alle correnti apertamente reazionarie e nostalgiche del passato borbonico.


Schede collegate: Unificazione amministrativa

 

Finis Langobardiae

La nascita dell'Italia unita generò fin dall'inizio, per i modi in cui si giunse all'unificazione, un movimento di reazione nell'opinione pubblica caratterizzato da un sentimento acuto della perdita, della fine, che insieme al vecchio mondo del dispotismo e della dominazione straniera si portava via pure le tradizioni del paese. Questo sentimento ebbe sfumature e gradazioni diverse. Nella Lombardia rimpianta da Cesare Correnti è un patrimonio di buona amministrazione, autogoverno e tradizioni civiche che, sulle soglie dell'Unità d'Italia, tratteggia il profilo di un «mondo perfetto» che il centralismo piemontese si appresta a cancellare. È, quello di Correnti, uno dei testi fondativi del mito del modello lombardo contrapposto all'autoritarismo unitario piemontese. Il rimpianto del passato però è anche nostalgia del mondo municipale, gelosa rivendicazione di tutto ciò che è tipico. Riportiamo di seguito il testo  di Cesare Correnti e uno scritto di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, che racconta il mondo chiuso della Firenze post unitaria, quando gli entusiasmi dell'annessione sono lontanissimi e la perdita della capitale ha lasciato molti rancori.

C. Correnti, Finis Langobardiae, in «La Perseveranza», 12 gennaio 1860, ora in Giornalismo italiano 1860-1901, a cura di A. Aveto e F. Contorbia, Milano, Mondadori, 2007, pp. 3-8.

C. Collodi, Gli ultimi fiorentini, in Id., Occhi e nasi, Firenze, Bemporad, 1881, pp. 180-235.

 

Il signor Ignazio Travet

Il 4 aprile 1863 va in scena al teatro Alfieri di Torino la commedia, in cinque atti, di Vittorio Bersezio, Le miserie di Monssù Travet, rappresentazione al vero della condizione dell'impiegato pubblico dell'amministrazione piemontese, sottoposto a vincoli gerarchici fortemente costrittivi, oggetto di un'occhiuta sorveglianza da parte dei suoi superiori, fin negli aspetti più riposti della sua vita privata. Alla prima gli impiegati di Torino accorsero numerosi, ma la reazione, messi di fronte a quello specchio impietoso, fu decisamente negativa.

V. Bersezio, Le miserie ‘d Monsù Travet (1863), Milano, Sanvito, 1871 (I ed. in italiano).

 

Il burocrate meridionale

Tra i protagonisti della polemica contro il modello sabaudo furono i burocrati dell'ex Regno delle Due Sicilie. Formati ad una tradizione amministrativa antica e ricca di cultura giuridica, i funzionari delle province napoletane reagirono con forza non solo all'arrivo negli uffici dei «piemontesi», ma all'imposizione nella pratica burocratica e nella gestione degli uffici di un modello e di uno stile di lavoro dal quale si sentivano lontanissimi e al quale sapevano di essere di gran lunga superiori. Le memorie di Giuseppe Giannelli sono una testimonianza dell'effetto che l'incontro tra la tradizione statuale del Sud con l'amministrazione piemontese produsse agli occhi di un funzionario napoletano.

Joseph pro domo sua [Giuseppe Giannelli], Storia di un periodo dell'amministrazione italiana, Salerno, Jovane, 1891, pp. 7-17.

   Stampa