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La costruzione dello Stato e i nuovi indirizzi politici » I plebisciti  
 
 


 

  "Viva Vittorio Emanuele II. Nostro Re" - Terzo quarto del XIX sec. - stampa - Museo Centrale del Risorgimento - Roma

Nel 1860 il plebiscito, cioè il voto universale maschile (di tutti i cittadini maschi che abbiano compiuto i 21 anni e godano dei diritti civili), è lo strumento attraverso il quale le popolazioni di Emilia e Toscana, e poi della Sicilia e del Mezzogiorno continentale, delle Marche e dell'Umbria, esprimono la propria volontà di unirsi al Regno di Sardegna (per la Lombardia fu considerata sostitutiva di un plebiscito la pronuncia espressa nel 1848).

Il pronunciamento delle popolazioni risolve il problema degli antichi Stati, decretando la loro fine e proponendo al Piemonte sabaudo di accettarli come parte integrante del suo territorio. In altri termini, il voto dà all'annessione la sanzione della volontà popolare.

I plebisciti approvano formule di unione incondizionata al Regno di Sardegna, non ammettono cioè patti deditizi né la sopravvivenza nei territori annessi delle leggi particolari dei vecchi Stati.

Questa circostanza dà al nascente Regno d'Italia una configurazione complessa: è uno Stato nuovo, perché rappresenta la volontà nazionale unitaria e il consenso delle popolazioni liberamente espressi con il suffragio universale diretto; nascendo tuttavia dall'espansione territoriale della monarchia sabauda, per via di annessioni territoriali successive, ne è anche la continuazione. Dal Regno di Sardegna, il Regno d'Italia erediterà la dinastia, lo Statuto e una parte considerevole del suo ordinamento amministrativo, legislativo e militare.

Per quanto provenga dal diritto romano e nell'Europa moderna abbia radici salde nella dottrina contrattualistica, e poi nella concezione rivoluzionaria della sovranità popolare, plebiscito è un termine proprio del dibattito politico della metà dell'Ottocento.

All'Italia veniva dalla Francia e nella strategia di Cavour l'appello alla popolazione aveva l'obiettivo esplicito di disarmare i tentativi francesi di bloccare la formazione di uno Stato italiano unitario. Il voto popolare era infatti stato a suo tempo il cardine della legittimazione della dittatura bonapartista. Al plebiscito Napoleone III aveva affidato il compito di sancire, con una investitura dal basso, il colpo di Stato del 2 dicembre del 1851 e quando, poco dopo, aveva ristabilito la dignità imperiale fu ancora al popolo che chiese la conferma.


 

 
G. Mochi - La deputazione toscana presenta al re Vittorio Emanuele II l'atto di plebiscito per l'annessione al Regno - olio su tela - Museo storico topografico "Firenze com'era" - Firenze  

L'imperatore, «per grazia di Dio e per volontà dei francesi», difficilmente avrebbe potuto contestare un'aspirazione all'indipendenza nazionale che si fosse espressa in forme analoghe.

In verità, il plebiscito era comparso nelle lotte del Risorgimento già nel 1848, quando si era posto il problema dei rapporti tra il Regno di Sardegna e la Lombardia insorta contro il dominio austriaco.

Allora si parlò di fusione e la sua realizzazione fu subordinata all'elezione di un'Assemblea costituente con l'obiettivo di stabilire «le basi e le forme di una nuova monarchia costituzionale con la dinastia di Savoia». La proposta suscitò forti resistenze in Piemonte e furono i fatti militari con la sconfitta di Carlo Alberto a dirimere di fatto la questione.

Nel 1860 i nuovi plebisciti furono convocati in un contesto che era ormai molto differente.

L'11 e il 12 marzo i cittadini di Emilia e Toscana vennero chiamati a pronunciarsi su un quesito che prevedeva l'annessione alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele oppure il «regno separato». In una maniera molto ambigua, la formula del «regno separato» alludeva tanto alla Costituzione di un Regno dell'Italia centrale quanto alla restaurazione degli antichi sovrani.

Emerge da subito un tratto formale del plebiscito risorgimentale, che lo avvicina per questo aspetto al modello bonapartista: l'alternativa tra una prospettiva chiara e ben definita e uno scenario vago e incerto.

Ma non è qui che sta l'aspetto più saliente del plebiscito di marzo. I voti della Toscana e dell'Emilia delineavano un quadro di omogeneità politica dell'Italia centro-settentrionale sancito dalla soluzione delle annessioni nei termini della pura e semplice integrazione territoriale al Regno di Sardegna.

A differenza del 1848, i plebisciti del 1860 non facevano nessuna menzione al nuovo Stato. Si trattava dell'espansione di uno Stato già esistente e dell'accettazione dei suoi ordinamenti e della sua costituzione da parte dei cittadini dei territori annessi.

Diversa la situazione in Sicilia e nell'Italia meridionale, come si manifestò nell'ottobre dello stesso anno, nelle settimane che precedettero il voto.

 

 

  Il Plebiscito Romano del 1870 - 1870 - olio su tela - Museo del Risorgimento - Milano

Qui, l'assunzione del potere da parte di Garibaldi nel nome di Vittorio Emanuele II, designato già «re d'Italia» prima ancora della proclamazione del Regno, aveva significato la rivendicazione di un mandato politico-militare da esercitare fino alla completa liberazione della penisola. Il che voleva dire non solo rimandare l'annessione ma prospettare la possibilità di una Italia unita in termini differenti: ad esempio, alla maniera rivoluzionaria, come «patto nazionale» tra parti che concorressero ugualmente alla costituzione del nuovo Stato.

I plebisciti, quand'anche si fossero celebrati, non avrebbero dunque sancito l'annessione dei territori liberati dall'esercito garibaldino, ma espresso la volontà unitaria del popolo, che un'Assemblea costituente avrebbe avuto poi il compito di tradurre in pratica. Ritornava dunque il tema quarantottesco dell'Assemblea costituente, che invece era stato esplicitamente scartato nell'Italia centro-settentrionale.

La Sinistra nel Mezzogiorno d'Italia non aveva nessuna possibilità di portare a termine questo disegno. Il suo contributo era stato prevalentemente militare e si era esaurito con il crollo della monarchia borbonica. Dopo la spedizione dei Mille e la vittoriosa campagna nel Sud d'Italia in estate, l'iniziativa era tornata nelle mani di Cavour. Il partito moderato faceva sua l'idea democratica e mazziniana dell'Italia unita, ma i modi di questa unificazione non sarebbero stati, come volevano Mazzini e i democratici, la rivoluzione e la Costituente.

Il voto pressoché unanime con cui l'11 ottobre del 1860 il Parlamento subalpino, e dunque anche la Sinistra, approvò l'indirizzo cavouriano per l'annessione incondizionata al Regno di Sardegna, e il re a capo dell'esercito piemontese in marcia verso l'Italia meridionale, erano l'indicazione precisa e inequivocabile di quale sarebbe stata la strada dell'unità italiana.

Favorevolmente impressionati da questa chiarezza di indirizzo politico, i moderati meridionali si fecero unitari ed alzarono la voce. A Napoli, la Guardia nazionale e la polizia si espressero esplicitamente a favore dell'annessione senza condizioni.

Il 21 ottobre i cittadini del Mezzogiorno continentale e della Sicilia votarono rispondendo al quesito se fossero a favore dell'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi legittimi discendenti. I risultati furono molto simili a quelli di Toscana ed Emilia, sia per numero di votanti (79,5% nel Mezzogiorno continentale, 75,2% in Sicilia), sia per l'esiguità dei contrari sui favorevoli.

I plebisciti furono interpretati come l'esplicita volontà di chiudere l'esperienza garibaldina e di stabilizzare il nuovo governo sabaudo per evitare il ritorno dei Borbone sull'onda della rivolta contadina.

Il 4 novembre si svolsero i plebisciti nelle Marche e nell'Umbria.

L'Italia ormai unita ricorse ai plebisciti ancora nel 1866 per l'annessione delle province del Veneto e di Mantova e nel 1870, dopo la presa di Roma e la fine dello Stato pontificio.


Schede collegate: Napoleone III

 

La festa pubblica

I plebisciti sono anche la prima occasione per occupare piazze e strade, con una invasione festosa che celebra una vittoria elettorale. Da questo punto di vista i plebisciti segnalano il primo delinearsi di una nuova sfera pubblica, legata ai simboli delle istituzioni unitarie e dell'ordine costituzionale. Con questo articolo Carlo Collodi, il futuro papà di Pinocchio, raccontò sulle pagine del quotidiano fiorentino «La Nazione», la notte di festa che seguì, in Piazza della Signoria e per le strade del centro, all'annuncio della vittoria dei «Si» all'annessione della Toscana alla monarchia sabauda.

C. Collodi, La notte di giovedì (15 marzo 1860), in «La Nazione», 18 marzo 1860, ora in Giornalismo italiano. 1860-1901, a cura di A. Aveto e F. Contorbia, Milano, Mondadori, 2007, pp. 15-20.

 

Il plebiscito al Sud

Nei giorni che precedettero il voto del 21 ottobre nel Mezzogiorno continentale e in Sicilia, a Napoli si svolse una intensa discussione in seno al movimento democratico. Cattaneo, da un lato, e Mazzini e gli altri unitari dall'altro, convennero sulla necessità di ritardare l'annessione e provarono a far passare una interpretazione del plebiscito non come atto risolutivo, ma come l'avvio di un processo che avrebbe dovuto portare alla convocazione di due assemblee, nel Sud continentale e in Sicilia, alle quali, solo, sarebbe stato demandato il compito di attuare concretamente l'unificazione deliberata dal voto popolare. Il tentativo mazziniano, in particolare, fu, esplicitamente, quello di subordinare l'annessione dell'Italia meridionale alla liberazione di Roma e di Venezia e solo allora, attraverso la convocazione di un'Assemblea costituente nazionale, proclamare la nascita del nuovo Stato unitario. Pubblichiamo di seguito due articoli che Giuseppe Mazzini scrisse per il «Popolo d'Italia» di Napoli, il 19 ottobre 1860.

G. Mazzini, Assemblea e Plebiscito, in Id., Edizione nazionale degli Scritti editi e inediti, Imola, Galeati, 1906-1943, vol. LXVI, pp. 277-280.

G. Mazzini, Chi rompe la concordia, in Id., Edizione nazionale degli Scritti editi e inediti, Imola, Galeati, 1906-1943, vol. LXVI, pp. 283-288.

 

Cavour e la Sicilia

L'autonomismo siciliano, rappresentato da uomini come Emerico Amari e Francesco Ferrara, provò a giocare un ruolo politico nel luglio del 1860, proponendo a Cavour un'annessione che salvasse all'isola un margine di autogoverno. Francesco Ferrara, inviò all'inizio di luglio, un rapporto a Torino in cui proponeva un modello fondato sulla devoluzione agli organi del potere centrale del controllo sulle materie di comune interesse nazionale, difesa politica estera e dogane, e la conservazione di tutte le altre all'autonoma determinazione dei siciliani. La risposta di Cavour indirizzata al conte Michele Amari, il 7 luglio, fu molto dura.

Camillo Benso di Cavour, La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d'Italia, I, Bologna, Zanichelli, 1949, pp. 296-305.

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