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I valori » La guerra  
 


 

 
Divise dell'esercito piemontese - stampa  

Nel Risorgimento il rapporto degli italiani con la guerra assunse un'importanza decisiva. Questo per due ragioni. La prima, facilmente intuibile, era legata alla presenza di potenze straniere in Italia. Il dominio austriaco sulla penisola poneva la questione militare al centro del problema italiano. Per dirla in breve, non si poteva fare la nazione senza fare la guerra all'Austria.

Che cosa sarebbe stata questa guerra? Una guerra di eserciti regolari e di generali, una guerra regia, o una guerra di popolo? Lungo il crinale di questo dilemma, dopo il 1848 si sarebbero divisi democratici e patrioti filo piemontesi, fermamente convinti, questi ultimi, che solo un movimento a guida politico militare sabauda avrebbe permesso di realizzare l'indipendenza e l'unità della penisola.

Si poneva anche un'altra domanda fondamentale, legata alla definizione dell'identità moderna degli italiani: essi sapevano combattere? Domanda tanto più cruciale in quanto si collocava sullo sfondo della trisecolare decadenza italiana che aveva voluto dire anche la virtuale esclusione degli italiani, salvo rare eccezioni, dalle carriere militari e dai campi di battaglia.

Nella Corinna di Madame de Staël un personaggio, Lord Nelvill, dice, dei maschi italiani, che valgono molto meno delle loro donne, avendone tutti i difetti, e questo perché senza carriera militare e senza istituzioni libere non hanno alcuna seria occupazione cui dedicarsi.

Il nesso libertà - carriera militare era fortemente evocativo per una cultura come quella italiana, intrisa di classicismo e gravata dal peso della memoria romana. Il mito dell'antica potenza rendeva ancora più crudele l'immagine della presente schiavitù.

Il problema della virtù militare degli italiani si incominciò a porre all'epoca del dominio francese in Italia. Proprio allora d'altra parte, con la milizia di molti italiani negli eserciti napoleonici, e in particolare con la valorosa partecipazione di un forte contingente italiano alla campagna di Russia (1812), la virtù e la capacità belliche cominciarono a trovare nella penisola nuovi motivi di orgoglio e nuovo credito.

 


 

  Divise dell'esercito austriaco - stampa

Sollecitati da questa esperienza, Leopardi e Foscolo nelle loro riflessioni sulla guerra si misero alla ricerca della virtù militare degli italiani.

Nella canzone Sopra il monumento di Dante (1818), Leopardi, immaginando di rivolgersi al poeta fiorentino e lamentando l'infelice destino dell'Italia che aveva visto morire i suoi figli per le «rutene squallide piagge» in Russia, in una guerra al servizio dello straniero che la teneva soggiogata, scrisse che di tutte le sventure della patria occorsegli dopo la sua prima grandezza non poteva tacere «la più recente e la più fiera», e voleva dire l'occupazione francese.

Morire per la causa italiana, sì che avrebbe avuto senso. La figura dell'Italia caduta e messa in catene era un'esortazione ad impugnare la spada. La vecchia cultura classicista, rimessa all'ordine del giorno dalla Rivoluzione francese, forniva così la giustificazione fondamentale della guerra nazionale.

Su questa strada si mise il conte Carlo Bianco di Saint-Jorioz, che aveva preso parte ai moti piemontesi del 1820. Dieci anni dopò pubblicò in due volumi un trattato dedicato alla guerra rivoluzionaria irregolare: Della guerra nazionale d'insurrezione per bande, applicata all'Italia. Secondo la concezione di Bianco, la violenza era una caratteristica degli Stati reazionari.

Erano i loro soldati che combattevano «per violenza». Al contrario, la guerra nazionale era motivata unicamente dall'aspirazione alla libertà e alla giustizia. Si afferma in altri termini, nel contesto del Risorgimento, una concezione che avrà un ruolo decisivo nella teoria rivoluzionaria e nella giustificazione delle guerre per la democrazia fino a buona parte del Ventesimo secolo. La violenza, e dunque la guerra, è legittima quando può avanzare la pretesa di essere esercitata nel nome del principio nazionale e della sovranità popolare, in opposizione al privilegio e alla tirannia.

Le guerre rivoluzionarie francesi e l'avventura europea di Napoleone ponevano anche altre problematiche alla coscienza del nazionalismo italiano dell'Ottocento. I francesi avevano reso esplicito all'Europa che nell'uso della forza militare si confrontavano ormai due modelli, quello della passione del cittadino in armi e quello della disciplina imposta con la paura della punizione a degli uomini in condizione servile.

Le recenti disavventure europee, aveva scritto nel 1807 Ugo Foscolo, «insegnano che gli eserciti raccolti per forza di legge, disciplinati dal terrore, e mantenuti coll'esaurimento dell'erario riescono impotenti ove affrontino soldati accesi dall'ardore della gloria, e capitani che hanno considerata la guerra più scienza di mente e calcolo di forze morali, che impeto di braccia».

Il brano è tratto dalla lettera dedicatoria al generale Augusto Caffarelli, aiutante di campo di Napoleone e ministro della Guerra del Regno d'Italia ed introduceva l'edizione, curata dal poeta, del primo volume delle opere di Raimondo Montecuccoli, celebre condottiero italiano del Seicento.

L'obiettivo era esplicito: ricostruire la tradizione militare italiana e spingere i suoi concittadini a coltivarne la memoria. Per rispondere a Madame de Staël: gli italiani sapevano combattere. Lo avevano fatto in passato e lo avrebbero fatto di nuovo in futuro.


 

 
Divise dell'esercito napoletano - stampa  

Erede di una tradizione italiana che risaliva a Machiavelli (Discorso sopra la prima deca di Tito Livio e Dell'arte della guerra), Foscolo si soffermava sul nesso tra schiavitù della patria e oblio dell'«arte della guerra».

Il riscatto dell'Italia non si sarebbe potuto compiere se non fosse stato innanzitutto un risorgimento nella virtù militare.

Foscolo peraltro distingueva «l'ardore della gloria», come motivazione dei combattenti, e la guerra come «scienza della mente» coltivata dagli ufficiali. A partire dall'esempio della Francia rivoluzionaria e napoleonica, il nuovo modo di combattere degli eserciti nazionali investiva i loro ufficiali di un'esigenza di direzione politica delle truppe che era del tutto assente nel modello militare tradizionale. Questa lezione sarà molto importante nello sviluppo delle concezioni democratiche della guerra di liberazione nazionale, ma giocherà un ruolo altrettanto importante nell'evoluzione dell'apparato militare sabaudo, in particolare dopo le prime prove del biennio 1848-1849.

Da questa constatazione derivano due conseguenze molto importanti per impostare in maniera corretta il problema militare del Risorgimento italiano. Per prima cosa perde di rilievo la contrapposizione tra entusiasmo dei volontari e disciplina formale dell'esercito regolare. Nelle campagne risorgimentali anche le truppe regolari dell'esercito piemontese e i loro ufficiali saranno animati dall'«ardore della gloria».

L'altra questione, strettamente legata alla prima, è proprio il ruolo decisivo dell'esercito. Nelle guerre d'indipendenza l'apparato militare della monarchia sabauda sentirà con forza la causa nazionale rivelandosi uno strumento efficiente al servizio della direzione politica del gruppo liberale-cavouriano.


 

 
G. Fattori - Soldati francesi nel 1859 - 1859 - olio su tela - Istituto Matteucci - Viareggio  

Della concezione romantica della guerra i democratici avrebbero enfatizzato gli aspetti energetico-passionali. È il caso dell'esaltazione del volontarismo rivoluzionario e del mito della «Nazione volontaria» di Garibaldi; o della cittadinanza come milizia armata al servizio della nazione di Carlo Pisacane, che riassumeva la natura della guerra rivoluzionaria nella formula: «nessun soldato, tutti militi».

La forza di mobilitazione di questa concezione è indubbia e giustifica l'entusiasmo dei giovani che nel 1848 lasciarono case, famiglie, studio e amori per andare a morire sugli spalti della Repubblica romana o alla difesa del forte di Marghera a Venezia. La sua lunga traccia resta inoltre nel modello educativo dell'Italia post unitaria, e nell'importanza che ad esempio Francesco De Sanctis, ministro della Pubblica istruzione, annetterà alla formazione ginnastico-militare degli studenti dei licei.

E tuttavia fu proprio il biennio rivoluzionario alla fine degli anni Quaranta a segnare uno spartiacque decisivo nel rapporto del movimento risorgimentale con la guerra. Le battaglie del 1848 furono l'apoteosi ma anche il fallimento della «Nazione volontaria».

Ad esempio, la visione dello sbando dei battaglioni volontari degli studenti toscani dopo la battaglia di Curtatone e più in generale il cattivo armamento, l'indisciplina e la disorganizzazione di cui diedero prova i corpi volontari convinsero molti giovani che parteciparono a quelle imprese della necessità di un inquadramento regolare e di un addestramento formale per le truppe, mentre sul piano politico li spinsero verso l'accordo con la monarchia.

Agli occhi di quei giovani essa appariva come l'unica forza in grado di dare concretezza alle loro aspirazioni di libertà e unità. Fu sulle basi di questo compromesso che dieci anni dopo, nel 1859, l'Italia riprese la guerra contro l'Austria.

Il passaggio del biennio 1848-1849 come si è detto fu decisivo anche per l'esercito piemontese. La cosa più importante da notare è che nessun altro degli Stati italiani possedeva all'epoca un apparato militare altrettanto solido ed efficiente di quello del Regno di Sardegna. Questo dipendeva innanzitutto dal legame molto forte tra élite politica ed élite militare. La classe dirigente piemontese era fatta prevalentemente di ufficiali di carriera dell'esercito. La politica conosceva dunque l'esercito, lo ebbe al suo fianco nei momenti decisivi del processo di unificazione e ne sentiva le esigenze.

Questa solidità si vide innanzitutto sui campi di battaglia del 1848-1849. Mentre la sconfitta travolse gli eserciti degli altri Stati che in un primo momento avevano aderito sulla spinta delle rispettive opinioni pubbliche alla guerra contro l'Austria (ordine di ritirata, confusione tra le truppe, delusione degli ufficiali, conseguenti diserzioni), l'esercito piemontese non perse di prestigio. Anzi, agli occhi degli italiani esso rimase l'unica forza organizzata in campo che un giorno sarebbe stata in grado di riprendere la guerra.

 


 

  Locandina di "Piccolo Mondo Antico" (regia M. Soldati)

Negli anni Cinquanta l'esercito del Piemonte divenne oggetto di un importante opera di riforma che permise ai sottoufficiali di accedere al grado di ufficiale.

Questo ingresso di quadri inferiori nei livelli intermedi dell'esercito diede all'apparato militare sabaudo una certa compattezza professionale oltre che una forte omogeneità sociale.

Come ha osservato lo storico Giorgio Rochat, questi uomini erano militari di carriera ben preparati, sentivano con passione la vita militare, avevano sviluppato una forte coscienza di corpo e, soprattutto, accettavano il processo di unificazione. E non avevano nessuna simpatia per Garibaldi e per il garibaldinismo.

Questo esercito conquistò un prestigio ulteriore in Crimea. Quando si accinse nuovamente alla guerra contro l'Austria nel 1859 godeva di una legittimità morale che ormai non possedeva più nessun altro corpo militare dell'Italia di quegli anni.

 

La guerra e la sovranità rendono possibile ai popoli e alle società attingere la loro libertà

Riportiamo i paragrafi 321-326, 328-331, 333-339 dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel con le Aggiunte di Eduard Gans ai paragrafi 324, 329, 330, 331, 338, 339, in cui il filosofo tedesco delinea il momento etico della guerra.

G. W. F. Hegel, Lineamenti di Filosofia del Diritto. Diritto naturale e scienza dello Stato in compendio (1821), Roma-Bari, Laterza, 2010.

 

La nuova concezione della guerra imposta dalle campagne napoleoniche

Carl Philipp Gottlieb von Clausewitz traccia un quadro dell'evoluzione della concezione della guerra in età moderna fino alla sua trasformazione, con Napoleone, in «causa nazionale», quando la natura della guerra cambiò radicalmente.

C.P.G. von Clausewitz, Della guerra (1832), Milano, Mondadori, 2009, pp. 781-795.

 

La guerra regia e il rifiuto dei volontari

Carlo Cattaneo è lo storico delle Cinque giornate di Milano e della guerra del 1848. Uno storico molto polemico nei confronti del Piemonte di Carlo Alberto e del modo in cui, tra le altre cose, l'esercito regio condusse la guerra contro l'Austria. Nelle pagine che pubblichiamo, tratte dalle memorie dell'insurrezione di Milano, Cattaneo analizza l'atteggiamento di Carlo Alberto e la sconfitta militare a partire dall'avversione sabauda per le forze urbane messe in movimento dalla rivoluzione del 1848.

C. Cattaneo, Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra. Memorie, cap. X, “L'esercito del re”, in Id., Il 1848 in Italia. Scritti 1848-1851, Torino, Einaudi, 1972, pp. 151-174.

 

Per combattere non basta essere solamente guerrieri. Militi e cittadini nel modello della rivoluzione nazionale

Riportiamo il capitolo delle Considerazioni di Carlo Pisacane sugli avvenimenti del biennio 1848-1849 in Italia. Pisacane, militare di formazione e rivoluzionario riflette sul nesso guerra e costruzione della cittadinanza democratica.

C. Pisacane, Guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49. Narrazione, a cura di A. Romano, Milano, Edizioni Avanti!, 1961, pp. 307-335.

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