I valori
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La parola nazione (dal latino natio) non era certo nuova, ma fu soltanto al principio dell'Ottocento che si affermò nella cultura europea per definire una grande comunità omogenea che stava alla base della legittimità delle istituzioni; a cominciare naturalmente dallo Stato, che doveva comprendere tutti coloro che appartenevano ad una stessa comunità nazionale. Una tale comunità – si affermava – poteva essere definita come tale sulla base di elementi oggettivi (etnico-linguistici, culturali, storici) e soggettivi (la consapevolezza di un destino comune, la volontà di vivere assieme), diversamente miscelati nei diversi contesti storico-geografici. In ogni caso, per i movimenti che combattevano al fine di conquistare l'indipendenza della propria nazione, ma anche per gli esponenti politici liberali e democratici di Inghilterra o Francia, l'esistenza di un'Europa di liberi Stati nazionali corrispondeva a un ordine delle cose nello stesso tempo necessario e naturale. Scriveva ad esempio Cavour nel 1846 che «nessun popolo può raggiungere un alto livello di intelligenza e di moralità senza che sia fortemente sviluppato il sentimento della propria nazionalità». «Nazione» e «nazionalità» erano termini sostanzialmente equivalenti; come lo era, rispetto a «nazione», il termine «patria», caratterizzato però da una più marcata accentuazione affettiva: riferendosi alla propria nazione come «patria» si sottolineava il senso di attaccamento ad essa, la disponibilità – se necessario – a combattere fino al martirio per difenderla dai nemici o (nel caso di nazioni non indipendenti come l'Italia o la Polonia) per dare ad essa un'esistenza politica come Stato (nazionale).
Grazie all'affermarsi delle passioni nazionali, è l'intera politica europea che assume nel corso del XIX secolo un nuovo carattere: come scrisse lo storico Federico Chabod, «la politica, che nel Settecento era apparsa come un'arte, tutta calcolo, ponderazione, equilibrio, sapienza, tutta razionalità e niente passione, diviene con l'Ottocento assai più tumultuosa, torbida, passionale; acquista l'impeto, starei per dire il fuoco, delle grandi passioni; diviene passione trascinante e fanatizzante com'erano state, un tempo, le passioni religiose […]». L'«amore sacro della patria» (come suona un verso della Marsigliese) dà una connotazione fortemente emotiva all'idea di nazione, fino al punto di fondare appunto una sorta di nuova religione, la religione della patria, che ha la sua fede, i suoi martiri, i suoi dogmi (in primo luogo l'assoluta necessità di ottenere o conservare l'indipendenza nazionale). In Italia – o meglio nell'ambito geografico comprendente la penisola, la Sicilia e la Sardegna – era diffusa da secoli la consapevolezza di far parte di una comunità definita da tratti letterari, storici e linguistici comuni. Negli anni della Restaurazione, la consapevolezza d'essere parte di una medesima nazione si affermò con forza presso i ceti colti dei vari Stati italiani, spinti a questo da una serie di opere diverse – tragedie, romanzi, poesie, drammi storici, melodrammi, dipinti –, che tutte però si riferivano a un insieme di valori, simboli, eventi storici (più o meno mitizzati), attinenti la nazione. Si pensi alle Ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo e dunque alla «nostalgica rivisitazione» dei grandi poeti della tradizione letteraria italiana compiuta dal protagonista «nel suo ultimo viaggio per l'Italia, da Petrarca a Parini e fino alle tombe di Santa Croce» in Firenze (G. Nicoletti). O, ancora, alla riscoperta/invenzione del passato nazionale realizzata attraverso opere come L'assedio di Firenze di Francesco Domenico Guerrazzi o Ettore Fieramosca di Massimo d'Azeglio. La presenza della censura aveva impedito che nei vari Stati italiani si potesse affrontare liberamente il tema della nazione e della sua indipendenza; ma proprio questo «ebbe l'effetto imprevisto di rendere più sofisticato il discorso nazionale, e di spostarne l'ambito di elaborazione verso generi di più ampio consumo e diffusione» (A. M. Banti). Il discorso nazional-patriottico che si diffuse nei primi decenni dell'Ottocento non si limitava a rappresentare la nazione, ad accreditarne l'esistenza come un soggetto storico necessario e ineliminabile, secondo quel che era un indirizzo della cultura del tempo e in particolare della cultura di matrice romantica, così sensibile al tema delle radici e delle specificità nazionali. Quel discorso, rappresentando la nazione italiana come asservita a dinastie straniere, incitava a lottare per dare all'Italia, alla propria patria, libertà e indipendenza.
Mazzini fu tra i primi a definire la nazione italiana richiamando, accanto agli elementi linguistici e culturali, l'elemento, attivo e soggettivo, della volontà di chi vi apparteneva. Fin dalle origini della Giovine Italia affermò infatti che, a costituire una nazione, non sono principalmente né la lingua, né il territorio, né il passato condiviso, né la comune appartenenza etnica – tutti questi soltanto indizi della sua esistenza – bensì la coscienza e la volontà comune degli appartenenti. La nazione – affermava – non esisteva nel passato ma «spetta[va] al futuro», era cioè il prodotto dell'azione rivoluzionaria. Questa concezione della nazione doveva avere un impatto rilevantissimo in una situazione come quella italiana, in cui il sentimento di appartenenza nazionale era affidato prevalentemente alla tradizione storico-letteraria: alimentò infatti l'idea che la nazione, più che in un corpus di elementi passivamente ricevuti (come la lingua, la tradizione comune ecc.), consistesse nell'intenzione di farne parte, ciò che anzitutto implicava la disponibilità a combattere per darle esistenza effettiva. La concezione mazziniana della nazione, ribadita più volte, si trova riassunta nelle pagine che seguono, tratte da un articolo che Mazzini pubblicò nel 1836 nella «Jeune Suisse». Il Risorgimento. Storia, documenti, testimonianze, a cura di L. Villari, III, Roma, Biblioteca di Repubblica – L'Espresso, 2007, pp. 409-413.
In un saggio del 1846, del quale si riproducono alcune pagine, Cavour delineò la connessione tra sentimento nazionale e progresso di un popolo. C. Benso di Cavour, La libertà come fine. Antologia di scritti e discorsi (1846-1861), Roma, Ideazione, 2002, pp. 37-40.
L'amore per la patria «bella e perduta» Il famoso coro del Nabucco di Giuseppe Verdi, nel quale gli ebrei deportati in Babilonia esprimono la loro nostalgia per la patria perduta, venne interpretato dal pubblico (a partire dalla prima rappresentazione alla Scala nel 1842) in chiave patriottica, come un riferimento all'oppressione austriaca. Antologia della poesia italiana, diretta da C. Segre e C. Ossola, IV, Ottocento, Roma, La Biblioteca di Repubblica, 2004, pp. 678-679. Galleria immagini
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