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Il processo di unità nazionale  
 

La storia degli ordinamenti locali nel Regno di Sardegna, come scrisse Adriana Petracchi, è sempre stata caratterizzata da una costante: la tendenza ad “accentrare nelle mani del Governo” la tutela degli enti locali e “a concentrare anche localmente i controlli delle autorità governative periferiche”. Un momento importante di questo processo è rappresentato dalla Legge comunale e provinciale del 1848 che consegnava al Regno di Sardegna un ordinamento amministrativo ibrido in cui si potevano ravvisare alcuni residui delle antiche tradizioni locali, le più moderne innovazioni delle legislazioni francese e belga e, soprattutto, la forte eredità politico-amministrativa del regime napoleonico.

Non appena entrata in vigore e per tutto il decennio successivo, la Legge del 7 ottobre 1848 – definita pubblicamente come una normativa “provvisoria” – fu al centro di un scontro politico tra esecutivo e parlamento che si concluse solamente nel 1859 con la promulgazione della nuova legge comunale e provinciale elaborata da Urbano Rattazzi. Anche in virtù di questo carattere di provvisorietà, la legge del 1848 fu oggetto, sin da subito, di innumerevoli proposte di modifica, soprattutto per ciò che concerneva le attribuzioni da assegnare alle province e alle divisioni e per il dualismo di competenze che ne scaturiva.

Il 2 dicembre 1850 il Ministro degli Interni Giovanni Filippo Galvagno presentò alla Camera dei deputati un progetto di decentramento burocratico che si basava sullo scioglimento delle divisioni amministrative e su una nuova razionalizzazione delle strutture dello Stato. In questo progetto, l'intendente generale perdeva alcune competenze amministrative per diventare, essenzialmente, un organo di ispezione e di controllo. Alla base di questa proposta, rimaneva l'idea che lo Stato rappresentava una garanzia unica e insostituibile degli interessi dei cittadini che dovevano essere tutelati sia dalle azioni degli enti locali che da quelle dei propri organi periferici.

Le difficoltà incontrate nel dibattito parlamentare, che avevano impedito l'approvazione del progetto Galvagno, non impedirono, però, al nuovo Ministro degli Interni, Alessandro Pernati di Momo, di presentare alla Camera, il 1° giugno 1852, un altro progetto di revisione dell'ordinamento degli enti locali. Un progetto che si proponeva lo scioglimento delle divisioni amministrative e, al tempo stesso, il ristabilimento dell'antica autonomia delle province. Una soluzione che, però, risultava troppo rivolta al passato e che, proprio per questo, indirizzava il progetto Pernati in un inesorabile quanto repentino fallimento.

Le vicende parlamentari dei progetti Galvagno e Pernati suggerirono al

nuovo Ministro degli Interni Gustavo Ponza di San Martino di elaborare una riforma organica degli ordinamenti locali e non solo delle semplici modifiche alla legge del 1848. In questo modo, il Ministro presentò al consiglio di Stato un progetto di riforma – che non si limitava solamente agli enti locali ma riguardava anche il contenzioso amministrativo e lo stesso consiglio di Stato – per avere un parere in vista della stesura definitiva.

Nel suo progetto, Ponza di San Martino aveva diviso lo Stato in governi civili – guidati da un governatore e da un consiglio di nomina regia –, province e comuni, assegnando ai corpi locali alcune attribuzioni che ne sancivano una rinnovata importanza. Un'importanza testimoniata, non solo dalla presenza di un consiglio e di una commissione provinciale, ma dalla struttura e dalle funzioni che avrebbero dovuto essere assolte dalla commissione provinciale. A quest'ultima, infatti – composta da quattro membri eletti annualmente dal consiglio provinciale – veniva riconosciuta una capacità di deliberare “in via d'urgenza” senza il voto dell'intendente, sottraendo, quindi, una specifica competenza al funzionario governativo.

Le importanti novità elaborate da questa proposta furono, però, vanificate dal consiglio di Stato, il quale espresse il proprio parere al progetto di Ponza di San Martino soltanto il 24 marzo 1854 – quando ormai era diventato Ministro degli Interni Urbano Rattazzi – e per di più sotto la forma di un progetto alternativo che, di fatto, marginalizzava ogni ipotesi di decentramento amministrativo.

D'altra parte, per quel che concerne la “questione amministrativa”, Urbano Rattazzi fu, indubbiamente, l'indiscusso protagonista di questo decennio. Già nel 1851, rifacendosi ai progetti presentati nel 1850 da Ponza di san Martino, elaborò una prima proposta di riforma che si basava, essenzialmente, su quattro elementi: una parziale estensione del suffragio elettorale abbassando il censo minimo richiesto; la conferma della nomina regia dei sindaci; la restituzione della personalità morale alle province; e, soprattutto, la soppressione delle divisioni e la creazione, al loro posto, di alcuni centri intermedi di ispirazione semi-regionalista. Quella prima proposta di riforma non ebbe successo, ma tra il 1854 e il 1857, Rattazzi continuò ad elaborare nuovi progetti di riorganizzazione della macchina istituzionale sabauda, che si basavano, tutti, su una nuova ridistribuzione dei poteri tra le divisioni e le province.

Questo dibattito, che attraversò tutto il “decennio di preparazione”, trovò il suo apice tra il 1859 e il 1861 quando l'assetto istituzionale non fu più, soltanto, un argomento di discussione parlamentare ma rappresentò la più importante questione al centro dello scontro politico. Una questione, che si combinava con l'evoluzione, veloce e, in parte, imprevista, delle vicende militari e che si contraddistingueva da un improrogabile carattere di emergenza e urgenza.

Da questo angolo visuale, l'annessione della Lombardia al Regno di Sardegna nel 1859, rappresentò, indubbiamente, un fatto paradigmatico delle vicende dello Stato italiano. La Lombardia, infatti, poteva vantare una prestigiosa tradizione amministrativa sugli enti locali – a partire dalla riforma teresiana di metà Settecento – non certo meno autorevole di quella del Regno di Sardegna.

Durante lo svolgimento della seconda guerra d'indipendenza, in vista di una vittoria della compagine franco-piemontese, Cavour nominò una commissione che aveva l'incarico di progettare un ordinamento istituzionale che tutelasse le tradizioni locali lombarde. La commissione Giulini, dal nome del conte che venne nominato presidente, si riunì a Torino nel mese di maggio del 1859 e, dopo un vivace dibattito interno, produsse un documento redatto da Achille Mauri in cui veniva ribadita l'esigenza di salvaguardare una speciale autonomia per le comunità locali della Lombardia. Il compromesso che ne scaturì – a livello comunale venne mantenuto il sistema teresiano, mentre a livello provinciale vennero introdotti gli intendenti generali di ascendenza franco-piemontese – fu sancito dal decreto dell'8 giugno 1859 con il quale veniva riconosciuto, ancor prima dell'armistizio di Villafranca, un ordinamento transitorio per la Lombardia. Questa condizione temporanea ebbe, però, una brevissima durata e già nell'inverno dello stesso anno – dopo la conferenza di pace di Zurigo che sanciva il definitivopassaggio della Lombardia al Piemonte – la nuova Legge Rattazzi sull'ordinamento comunale e provincialevenne estesa ai territori lombardi.

La nuova legge, promulgata il 23 ottobre 1859, prevedeva gli stessi livelli di governo previsti nel 1848 anche se con attribuzioni differenti. Con l'obiettivo di costruire circoscrizioni territoriali più vaste e, in teoria, più efficienti, le antiche province piemontesi furono, infatti, degradate a circondari, mentre le vecchie divisioni vennero ridefinite come province. Il sindaco, invece, rimaneva di nomina regia e continuava ad essere, allo stesso tempo, un rappresentante dello Stato e il capo dell'amministrazione locale. Il livello circondariale, seppur perdendo ilconsiglio elettivo, continuava ad avere dei compiti meramente consultivi. Al vertice della piramide amministrativa, invece, risiedevano le maggiori novità. In cima alla scala gerarchica veniva collocata la deputazione provinciale, guidata da un governatore di nomina statale – il quale andava a sostituire l'intendente generale – che era, al tempo stesso, il rappresentante periferico dello Stato e il capo della giunta esecutiva della provincia.

Secondo un giudizio diffuso tra gli storici, la nuova Legge comunale e provinciale era stata ispirata da una concezione politica “liberal-autoritaria”, cara a Rattazzi e a gran parte della sinistra piemontese, che mettendo assieme l'eredità della rivoluzione francese con l'esperienza napoleonica, era convinta della necessità di un “governo forte” sia al centro che in periferia. La legge Rattazzi, quindi, pur segnando delle novità rispetto alla legge del 1848 continuava ad essere una diretta emanazione del modello franco-piemontese codificato ad inizio secolo e avrebbe finito per costituire l'architrave dell'intero impianto dello Stato italiano.

Con questa legge, infatti, emanata in virtù dei pieni poteri concessi al governo, vennero cancellati agevolmente quegli ordinamenti provvisori realizzati in Lombardia e nei territori degli ex Ducati di Modena e Parma, dando inizio, così, a quel processo di piemontesizzazione delle istituzioni che sarebbe poi diventata una caratteristica strutturale del nuovo Regno d'Italia. Solo la Toscana riuscì a mantenere la propria autonomia amministrativa grazie ad un regime transitorio che, in virtù di una tradizione di autonomia locale da salvaguardare, rimase in vigore fino al 1865.

In questo particolare contesto storico, dove l'eccezionalità del momento politico-militare dell'azione garibaldina si combinava con la transitorietà dell'organizzazione amministrativa, Cavour decise di nominare una commissione temporanea di legislazione presso il consiglio di Stato che aveva il compito di ridefinire l'assetto istituzionale dei poteri locali. Il 13 agosto del 1860, il giorno dell'inaugurazione dei lavori della commissione, il Ministro degli Interni Luigi Carlo Farini fece pervenire a tutti i componenti una Nota in cui indicava gli obiettivi di alcune riforme amministrative da perseguire. In particolare, prefigurava la creazione delle regioni come circoscrizioni amministrative senza rappresentanza elettiva, formate da delegati provinciali e poste sotto il comando di un governatore. Durante i lavori della commissione prevalse, però, una proposta di legge ancor più avanzata che indicava nella regione un vero e proprio “corpo morale” con al vertice un governatore che sarebbe stato un autentico rappresentante dello Stato.

Si attestò, invece, su posizioni ben più moderate la Nota orientativa che, il 28 novembre 1860, il nuovo Ministro degli Interni Marco Minghetti – subentrato a Farini – fece pervenire alla commissione. Pur proponendo il decentramento amministrativo di almeno quattro ministeri (Interni, Istruzione, Lavori pubblici e Agricoltura) e la creazione di sei grandi unità territoriali, quel documento sottolineava il carattere sperimentale delle regioni e la loro necessaria subordinazione all'unità politica del Paese.

Dopo alcune imprudenti redazioni del disegno di legge – che prevedevano, tra l'altro, un forte allargamento del suffragio e una coincidenza delle regioni con i vecchi confini degli stati preunitari – il progetto di riforma approdò in Parlamento in una versione ben più moderata e, soprattutto, in un contesto politico estremamente cambiato. La morte di Cavour, i dubbi di Minghetti e, in particolare, gli imprevisti successi della campagna garibaldina nel Mezzogiorno – con la conseguente annessione delle ex province borboniche – produssero un immediato declino dei progetti regionalisti e il loro ritiro dal dibattito parlamentare.

Tra l'agosto del 1860 e il gennaio del 1861, infatti, la legge Rattazzi venne estesa anche agli ex territori del Regno delle due Sicilie certificando, se ancora ce ne fosse bisogno, la forte impronta franco-piemontese dell'organizzazione amministrativa del Regno d'Italia. I provvedimenti assunti da Bettino Ricasoli, nell'ottobre del 1861, che rafforzarono decisamente il ruolo politico dei rappresentanti periferici dello Stato, i quali da quel momento assunsero i nomi di prefetti e sottoprefetti (al posto di governatori e intendenti) sancirono, infine, la definitiva affermazione del modello gerarchico-accentrato a discapito di quello regionalista-decentrato.

 

1. Tentativi di riforma dello Stato sabaudo

Tra il 1848 e il 1854 furono elaborati alcuni progetti di riorganizzazione amministrativa del Regno di Sardegna che miravano ad ampliare le circoscrizioni territoriali esistenti attraverso la costituzione di organismi governativi decentrati che potessero coadiuvare l'azione dello Stato. Da questi iniziali progetti amministrativi trarrà origine, tra il 1860 e il 1861, la “proposta” regionalista incarnata da uomini come Farini e Minghetti.

A. Petracchi, Le origini dell'ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell'antico regime al chiudersi dell'età cavouriana (1770-1861), Vol. I, Venezia, Neri Pozza, 1962, pp. 125-129 e pp. 145-146.

 

2. L'ispirazione liberal-autoritaria della legge Rattazzi

Il pensiero di Jeremy Bentham, che tendeva a subordinare le autonomie locali all'interesse generale dello Stato, costituì il principio ispiratore della legge Rattazzi del 23 ottobre 1859. Secondo l'opinione di alcuni studiosi, però, con l'approvazione di questa legge, l'intera classe politica dimostrò di non saper scegliere tra “due soluzioni amministrative egualmente coerenti”: quella fondata sulla Regione e quella basata sulla Provincia. Con questo provvedimento – che abbandonava l'ipotesi regionalista senza assegnare alla Provincia nessun nuovo potere – l'Esecutivo rinunciava, di fatto, a strutturarsi in periferia con organi burocratici che potessero promuovere efficacemente l'azione di governo.

A. Porro, Il Prefetto e l'amministrazione periferica in Italia. Dall'Intendente subalpino al Prefetto italiano (1842-1871), Milano, Giuffrè, 1972, pp. 96-120.

 

3. L'annessione della Lombardia

Il processo di unità politica tra il Regno di Sardegna e la Lombardia fu caratterizzato, inizialmente, dalla costituzione di una Commissione che avrebbe dovuto elaborare un nuovo ordinamento istituzionale. La Commissione, nominata da Cavour e presieduta dal conte Cesare Giulini della Porta, svolse i suoi lavori a Torino tra il 10 e il 26 maggio 1859 ed elaborò un progetto di temporanea autonomia per la Lombardia. Tuttavia, l'ordinamento provvisorio di quei territori, concesso con decreto l'8 giugno 1859, fu ben presto dismesso con l'estensione alla Lombardia della nuova legge Rattazzi sull'ordinamento comunale e provinciale.

N. Raponi (a cura di), Atti della Commissione Giulini per l'ordinamento temporaneo della Lombardia (1859), Milano, Giuffrè, 1962, pp. XXXVII-XLII.

 

4. L'annessione dell'Emilia e della Toscana

La cosiddetta “questione amministrativa” andò sempre di pari passo con il processo di unità politica del Paese. E ovunque, nella penisola, l'organizzazione e lo svolgimento dei plebisciti si alternò con l'uniformizzazione dell'ordinamento istituzionale. In Toscana, però, il processo di unificazione amministrativa seguì una strada differente. Ai territori dell'ex Granducato, che potevano vantare una robusta tradizione autonomistica, venne concesso, seppur temporaneamente, un ordinamento amministrativo transitorio che sarebbe rimasto in vigore fino al 1865.

C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 52-62.

 

5. L'azione di Farini a Napoli

Il 6 novembre del 1860, Luigi Carlo Farini viene nominato, dal re Vittorio Emanuele II, Luogotenente generale delle province napoletane con l'obiettivo di sovrintendere il processo di annessione delle terre borboniche al nuovo Stato in via di costituzione. L'azione di Farini fu, però, ostacolata da tre diversi fermenti politici: innanzitutto, dalle resistenze della classe dirigente napoletana chiusa nel proprio “orgoglio municipale”; in secondo luogo, dalle critiche di “ferventi cavouriani”, come Mancini, Scialoja, Massari e La Farina; e, infine, da una serie di congiure borboniche che miravano a suscitare un moto legittimista per reinsediare i vecchi regnanti.

E. Passerin d'Entrèves, L'incontro fra le due Italie, in N. Raponi (a cura di), Dagli stati preunitari d'antico regime all'unificazione,Bologna, Il Mulino, 1981, pp. 516-531.

 

6. Il dibattito sulla forma di Stato

L'esigenza di elaborare un ordinamento istituzionale che tenesse conto delle diverse tradizioni amministrative della penisola alimentò un vivace dibattito sulla forma che avrebbe dovuto assumere il nuovo Stato unitario. Il 16 maggio 1860, il ministro dell'Interno Carlo Luigi Farini presentò alla Camera un progetto per l'istituzione di una Commissione temporanea di legislazione presso il Consiglio di Stato che avrebbe dovuto studiare e proporre, scrive Farini, un “ordinamento amministrativo pel quale si accordino le ragioni dell'unità e della forte autorità politica dello Stato colla libertà dei comuni e dei consorzi”. In questo particolare contesto, la Nota di Farini, che inaugurò i lavori della Commissione il 13 agosto del 1860, rappresenta indubbiamente uno dei più importanti documenti politici dell'epoca.

E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 82-104.

 

7. Accentramento e decentramento

Furono essenzialmente tre, secondo Caracciolo, i motivi che indussero la classe dirigente della destra storica a dare una veste accentrata all'ordinamento dello Stato, seppur giustificato come un'esigenza temporanea “dettata dall'urgenza”: innanzitutto, il rischio di una deriva democratico-repubblicana; in secondo luogo, la possibilità di una reazione legittimista; e, infine, la necessità di guadagnare fiducia nei confronti di “un'opinione pubblica internazionale diffidente”.

Dopo la morte di Cavour, e in particolar modo con l'esecutivo Rattazzi, l'accentramento amministrativo perse la sua caratteristica di temporaneità e divenne una caratteristica strutturale dell'ordinamento istituzionale. Nello stesso periodo, però, alcune personalità di diversa estrazione politico-culturale, come Minghetti, Ponza di San Martino, Jacini e Turiello, si fecero promotori di alcuni progetti di decentramento amministrativo e di difesa delle autonomie locali.

A. Caracciolo, Stato e società civile. Problemi dell'unificazione italiana, Torino, Einaudi, pp. 67-77.

 

8. Le origini sabaude dell'ordinamento locale

La Provincia nel Regno di Sardegna nasce originariamente come organo di controllo dei municipi e solo successivamente diventa un “ente naturale”. Adriana Petracchi, in uno degli studi più importanti sulle origini storiche degli ordinamenti locali italiani, sottolinea la profonda influenza sulle istituzioni sabaude esercitata dalle riforme napoleoniche e dalla legislazione belga.

A. Petracchi, Le origini dell'ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell'antico regime al chiudersi dell'età cavouriana (1770-1861), Vol. I, Venezia, Neri Pozza, 1962, pp. 379-386.

 

9. Le contraddizioni dello Stato unitario

Secondo Gianfranco Miglio, all'interno del processo di unità nazionale, emersero almeno tre profonde contraddizioni: innanzitutto, il contrasto tra l'egualitarismo posto a fondamento del nuovo Stato e i “particolarismi etnico-geografici e storici” che esistevano in tutte le regioni d'Italia; in secondo luogo, il primato eccessivo del Parlamento sull'Esecutivo e sugli enti locali; e, infine, l'applicazione indiscriminata su tutto il territorio del principio “rappresentativo”. Da queste contraddizioni, secondo Miglio, sarebbe scaturito il carattere compromissorio delle leggi del 1865 che si espresse, soprattutto, nel principio di “centralizzazione”, che si proponeva di riservare allo Stato nazionale uno stretto controllo su tutto il Paese pur non avendo gli strumenti per farlo: ovvero gli organi di governo periferici.

F. Benvenuti, G. Miglio (a cura di), L'unificazione amministrativa e i suoi protagonisti, Venezia, Neri Pozza, 1969, pp. 28-40.

 

10. Le ideologie e i movimenti politici

Il cosiddetto “decennio di preparazione” all'Unità d'Italia fu un periodo di intensa discussione e di vivace elaborazione politica. Al moderatismo municipalista si contrapponeva la proposta liberal-parlamentare di Cavour; all'astratto repubblicanesimo mazziniano, il modello francese propugnato da Ferrari; al federalismo di Cattaneo (differente da quello di Montanelli), il socialismo risorgimentale di Pisacane; ai progetti neoguelfi di Gioberti, il legittimismo pontificio.

A. De Francesco, Ideologie e movimenti politici, in G. Sabbattucci, V. Vidotto (a cura di), Storia d'Italia. Le premesse dell'unità, Vol. I, Roma-Bari, Laterza, pp. 320-332.

 

11. L'impianto politico e amministrativo dello Stato

La dibattuta questione sull'ordinamento amministrativo dello Stato finì per alimentare il clima di incertezza e di diffidenza esistente tra gli apparati statali e una società civile frammentata e disomogenea. Il sistema accentrato in vigore dal 1859, esteso a tutta l'Italia con i decreti Ricasoli dell'ottobre 1861, si era imposto perché costituiva, di fatto, la soluzione meno impegnativa e rischiosa. Alcuni anni più tardi, un Parlamento “stanco e demotivato” approvò quasi integralmente le proposte del governo e il 20 marzo 1865 venne promulgata la Legge di unificazione amministrativa che confermava l'impianto centralistico e gerarchico.

F. Cammarano, Storia politica dell'Italia liberale, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 3-16.

 

12. Le autonomie locali e i controlli statali

Massimo Severo Giannini analizzando la legge Rattazzi del 1859 – il cui impianto sarebbe poi stato confermato dalla legge di unificazione amministrativa del 1865 – critica il principio di uniformità amministrativa dei Comuni introdotto dal sistema franco-piemontese. I Comuni della penisola, infatti, presentavano così profonde differenze territoriali, sociali e politiche che, forse, avrebbero dovuto avere un diverso riconoscimento istituzionale.

M. S. Giannini, Autonomie comunali e controlli statali, in I. Zanni Rosiello (a cura di), Gli apparati statali dall'unità al fascismo, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 103-111.

 

13. La legge Rattazzi alla base dell'unificazione del 1865

Roberto Ruffilli ricostruisce la genesi parlamentare della legge di unificazione del 1865. Se il maggiore protagonista di questa stagione fu indubbiamente Urbano Rattazzi – che fu il principale costruttore dell'ordinamento gerarchico-accentrato dello Stato italiano – svolsero un ruolo importante anche Cavour, che condivise, solo in parte, la prospettiva rattazziana, e, sul versante opposto, Farini e Minghetti, i quali, invece, sostenendo una proposta regionalista, si fecero promotori di un decentramento amministrativo che tenesse conto delle reali e differenti tradizioni civiche della penisola.

R. Ruffilli, Governo, Parlamento e correnti politiche nella genesi della legge 20 marzo 1865, in F. Benvenuti, G. Miglio (a cura di), L'unificazione amministrativa e i suoi protagonisti, Venezia, Neri Pozza, 1969, pp. 223-242.

 

1. Il progetto Galvagno

Il documento che segue è il progetto di legge, presentato alla Camera dei Deputati il 2 dicembre 1850 dal Ministro dell'Interno Giovanni Filippo Galvagno, che prevedeva alcune modifiche alla legge del 7 ottobre 1848 sull'amministrazione provinciale e comunale.

A. Petracchi, Le origini dell'ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell'antico regime al chiudersi dell'età cavouriana (1770-1861), Vol. II, Venezia, Neri Pozza, 1962, pp. 348-362.

 

2. Il progetto Gustavo Ponza di San Martino

Il documento riprodotto è il progetto di legge comunale e provinciale elaborato dal Ministro per gli Affari dell'Interno Gustavo Ponza di San Martino e inviato al Consiglio di Stato il 2 agosto 1853.

A. Petracchi, Le origini dell'ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell'antico regime al chiudersi dell'età cavouriana (1770-1861), Vol. II, Venezia, Neri Pozza, 1962, pp. 464-486.

 

3. I comuni e le province secondo Rattazzi

Il documento riprodotto è la relazione al Re sul nuovo ordinamento comunale e provinciale redatta dal Ministro dell'Interno Urbano Rattazzi il 23 ottobre 1859.

A. Petracchi, Le origini dell'ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell'antico regime al chiudersi dell'età cavouriana (1770-1861), Vol. III, Venezia, Neri Pozza, 1962, pp. 151-155.

 

4. La legge comunale e provinciale del 1859

Il documento riprodotto è la Legge comunale e provinciale promulgata il 23 ottobre 1859.

A. Petracchi, Le origini dell'ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell'antico regime al chiudersi dell'età cavouriana (1770-1861), Vol. III, Venezia, Neri Pozza, 1962, pp. 156-184.

 

5. Comuni, province e regioni secondo Minghetti

Il documento che segue è il discorso del Ministro dell'Interno Marco Minghetti, pronunciato alla Camera il 13 marzo 1861, in cui illustrava i suoi quattro progetti per l'organizzazione dello Stato: ripartizione del Regno e autorità governative; amministrazione comunale e provinciale, consorzi, amministrazione regionale; regolamento per le elezioni amministrative.

A. Petracchi, Le origini dell'ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell'antico regime al chiudersi dell'età cavouriana (1770-1861), Vol. III, Venezia, Neri Pozza, 1962, pp. 324-334.

 

6. Il tentativo di riforma del Regno

Il documento riprodotto è il progetto di legge presentato alla Camera dei Deputati il 13 marzo 1861 dal Ministro dell'Interno Marco Minghetti sulla “Ripartizione del Regno e le autorità governative”.

A. Petracchi, Le origini dell'ordinamento comunale e provinciale italiano. Storia della legislazione piemontese sugli enti locali dalla fine dell'antico regime al chiudersi dell'età cavouriana (1770-1861), Vol. III, Venezia, Neri Pozza, 1962, pp. 335-343.

 

7. Il rapporto generale della Commissione Giulini

Il documento riprodotto è il “Rapporto generale” della Commissione Giulini, redatto da Achille Mauri, che precedeva i progetti di legge per l'ordinamento temporaneo della Lombardia.

N. Raponi (a cura di), Atti della Commissione Giulini per l'ordinamento temporaneo della Lombardia (1859), Milano, Giuffrè, 1962, pp. 9-25.

 

8. La “Nota” di Farini

Il documento riprodotto è la Nota del Ministro degli Interni Luigi Carlo Farini, presentata alla Commissione temporanea di legislazione presso il Consiglio di Stato, il 13 agosto 1860.

C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 279-286.

 

9. La “Nota” di Minghetti

Il documento che segue è la Nota del nuovo Ministro degli Interni Marco Minghetti (succeduto a Farini) presentata alla Commissione temporanea di legislazione presso il Consiglio di Stato il 28 novembre 1860, con cui formulava la sua proposta sul “discentramento” amministrativo. Ovvero il decentramento di almeno quattro Ministeri (Interni, Istruzione, Lavori pubblici e Agricoltura) e la creazione di sei grandi unità territoriali.

C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 291-298.

 

10. Il programma di Cattaneo del 1860

Nell'estate del 1860 il senatore Carlo Matteucci pubblica due interventi sulla “Revue des deux mondes”, poi raccolti nel volume Saggi sull'organizzazione del Regno d'Italia e due lettere sulla questione romana, in cui si dichiara favorevole ad un decentramento amministrativo e ad una soluzione regionalista. Carlo Cattaneo prende spunto da questi articoli enunciando le sue idee sull'ordinamento istituzionale del costituendo Stato italiano. Un ordinamento, il cui obiettivo principale deve consistere nel saper “coordinare la vera e attual vita legislativa degli stati italiani a un principio di progresso comune e nazionale”.

C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 336-339.

 

11. Il Commento di Cattaneo alla “Nota” di Farini

Il documento riprodotto è un articolo di Carlo Cattaneo, pubblicato sulla rivista “Il Politecnico”, in cui esprime un punto di vista schiettamente federalista e assai critico nei confronti della Nota di Farini, di cui aveva dato, inizialmente, una valutazione positiva.

C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 339-343.

 

12. La Relazione Tecchio

Il 22 giugno 1861 il vice presidente della Camera Sebastiano Tecchio svolge la relazione parlamentare sui progetti di legge, presentati dal Ministro dell'Interno Marco Minghetti il 13 marzo 1861, sulla ripartizione amministrativa del Regno in comuni, province e regioni.

 

C. Pavone,Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 463-475.

 

13. Gli interventi di Crispi e Minghetti

Nel dibattito parlamentare che seguì la relazione di Tecchio sul progetto regionalista, riportiamo l'intervento di Francesco Crispi favorevole ad un decentramento autarchico e quello del Ministro dell'interno Marco Minghetti che, invece, auspicava un decentramento gerarchico.

C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 476-478.

 

14. La relazione di Ricasoli alla Camera

Il 25 ottobre 1861 il Consiglio dei Ministri decise di estendere a tutto il Regno d'Italia la legge comunale e provinciale del 1859 e il 1° novembre il Consiglio di Stato fu incaricato di redigere un progetto di legge sull'unificazione amministrativa del Paese. Il 22 dicembre 1861, il Presidente del Consiglio Bettino Ricasoli svolse la relazione del progetto alla Camera dei Deputati.

C. Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica, Milano, Giuffrè, 1964, pp. 584-587.

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