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Testi » 1850-1870 e successivi  
 
 

di Arnaldo Fusinato

E' fosco l'aere, il cielo e' muto,
ed io sul tacito veron seduto,
in solitaria malinconia
ti guardo e lagrimo,
Venezia mia!

Fra i rotti nugoli dell'occidente
il raggio perdesi del sol morente,
e mesto sibila per l'aria bruna
l'ultimo gemito della laguna.

Passa una gondola della città.
"Ehi, dalla gondola, qual novità ?"
"Il morbo infuria, il pan ci manca,
sul ponte sventola bandiera bianca!"

No, no, non splendere su tanti guai,
sole d'Italia, non splender mai;
e sulla veneta spenta fortuna
si eterni il gemito della laguna.
Venezia! l'ultima ora e' venuta;
illustre martire, tu sei perduta...
Il morbo infuria, il pan ti manca,
sul ponte sventola bandiera bianca!

Ma non le ignivome palle roventi,
ne' i mille fulmini su te stridenti,
troncaro ai liberi tuoi di' lo stame...
Viva Venezia!
Muore di fame!

Sulle tue pagine scolpisci, o Storia,
l'altrui nequizie e la sua gloria,
e grida ai posteri tre volte infame
chi vuol Venezia morta di fame!
Viva Venezia!
L'ira nemica la sua risuscita
virtude antica;

ma il morbo infuria, ma il pan le manca...
Sul ponte sventola bandiera bianca!

Ed ora infrangasi qui sulla pietra,
finché e' ancor libera,
questa mia cetra.
A te, Venezia,
l'ultimo canto,
l'ultimo bacio,
l'ultimo pianto!

Ramingo ed esule in suol straniero,
vivrai, Venezia, nel mio pensiero;
vivrai nel tempio qui del mio core,
come l'imagine del primo amore.

Ma il vento sibila,
ma l'onda e' scura,
ma tutta in tenebre
e' la natura:
le corde stridono,
la voce manca...

Sul ponte sventola
bandiera bianca!

 

di Luigi Mercantini

Eran trecento: eran giovani e forti:
          E son morti!

Me ne andava al mattino a spigolare
Quando ho visto una barca in mezzo al mare:
Era una barca che andava a vapore,
E issava una bandiera tricolore.
All'isola di Ponza si è fermata,
È stata un poco, e poi s'è ritornata;
S'è ritornata, e qui è venuta a terra;
Sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra.

Eran trecento: eran giovani e forti:
          E son morti!

Sceser con l'armi, e a noi non fecer guerra,
Ma s'inchinaron per baciar la terra:
Ad uno ad uno li guardai nel viso;
Tutti aveano una lagrima ed un sorriso:
Li disser ladri usciti dalle tane,
Ma non portaron via nemmeno un pane;
E li sentii mandare un solo grido:
—Siam venuti a morir pel nostro lido!—

Eran trecento: eran giovani e forti:
          E son morti!

Con gli occhi azzurri e coi capelli d'oro
Un giovin camminava innanzi a loro;
Mi feci ardita, e presol per la mano,
Gli chiesi: —Dove vai, bel capitano?
Guardommi, e mi rispose: —O mia sorella,
Vado a morir per la mia Patria bella!—
Io mi sentii tremare tutto il core,
Nè potei dirgli: —V'aiuti il Signore!—

Eran trecento: eran giovani e forti:
          E son morti!

Quel giorno mi scordai di spigolare,
E dietro a loro mi misi ad andare:
Due volte si scontrar con li gendarmi,
e l'una e l'altra li spogliar dell'armi:
Ma quando fûr della Certosa ai muri,
S'udirono a suonar trombe e tamburi;
E tra il fumo e gli spari e le scintille
Piombaron loro addosso più di mille.

Eran trecento: eran giovani e forti:
          E son morti!

Eran trecento, e non voller fuggire;
Parean tremila e vollero morire:
Ma vollero morir col ferro in mano,
E innanzi ad essi correa sangue il piano.
Finchè pugnar vid'io, per lor pregai;
Ma un tratto venni men, né più guardai...
Io non vedeva più fra mezzo a loro
Quegli occhi azzurri e quei capelli d'oro!...

Eran trecento: eran giovani e forti:
          E son morti!

 

di Giosuè Carducci

Zitte, zitte! Che è questo frastuono
Al lume della luna?
Oche del Campidoglio, zitte! Io sono
L'Italia grande e una.
Vengo di notte, perché il dottor Lanza
Teme i colpi di sole:
Ei vuol tener la debita osservanza
In certi passi, e vuole
Che non si sbracci in Roma da signore
Oltre certi cancelli.
Deh, non fate, oche mie, tanto rumore,
Che non senta Antonelli.
Fate piú chiasso voi, che i fondatori
Della prosa borghese,
Paulo il forte ed Edmondo da i languori
Il capitan cortese.
Qua, qua, qua. Che volete voi? Chiamate
Il fratel Bertoldino
O Bernardino? Ei cova, ci ponza, il vate,
Lo stil nuovo latino.
S'ell'è per Brenno, o paperi, sprecata
È ormai la guardia. Brava
Io fui tanto e sottil, che sono entrata
Quand'egli se ne andava.
Sí, sí, portavo il sacco a gli zuavi
E battevo le mani
Ieri a' Turcòs: oggi i miei bimbi gravi
Si vestono da ulani.
Al cappellino, o a l'elmo, in ginocchione
Sempre; ma lesta e scaltra
Scoto la polve di un'adorazione
Per cominciarne un'altra.
Cosí da piede a piè figlia di Roma
I miei baci io trascino,
E giú nel fango la turrita chioma
Con l'astro annesso inchino
Per raccattar quel che sventura o noia
Altrui mi lascia andare.
Cosí la eredità vecchia di Troia
Potei raccapezzare
A frusto, a frusto, via tra una pedata
E l'altra, su bel bello:
Il sangue non è acqua; e m'ha educata
Nicolò Machiavello.
Ora, se date il passo a la gran madre,
Oche, io vo in Campidoglio.
Cittadino roman vo' fare il padre
Cristoforo, e mi voglio
Cingere i lombi di valore, e forte
In rassegnaziöne,
Oche, io voglio soffrir sino a la morte
Per la mia salvazione.
Voglio soffrire i Taicùn e i Lami,
E il talamo e la culla
Aurea de' muli, e le contate fami,
E i motti del Fanfulla.
Vo' alloggiar co 'l possibile decoro
La gloria del Cialdini,
Cantar l'idillio dell'età dell'oro
Di Saturno Bombrini;
E vo' l'umilità mia gualdrappare
Di stil manzonïano,
E recitar l'uffizio militare
D'Edmondo il capitano
Per non cader in tentazion; la prosa
Di Paolo Fambri, il grosso
Voltèr delle lagune, è spiritosa
Troppo per il mio dosso,
Gli analfabeti miei che la lettura
Di poco han superato,
Preferiscon d'assai la dicitura
Piú svelta del cognato.
E cosí d'anno in anno, e di ministro
In ministro, io mi scarco
Del centro destro su 'l centro sinistro,
E 'l mio lunario sbarco;
Fin che il Sella un bel giorno, al fin del mese,
Dato un calcio a la cassa,
Venda a un lord archëologo inglese
L'augusta mia carcassa.
 

 

di Giosuè Carducci

Qual da gli aridi scogli erma su 'l mare
Genova sta, marmoreo gigante,
Tal, surto in bassi dí, su 'l fluttuante
Secolo ei grande austero immoto appare.
Da quegli scogli, onde Colombo infante
Nuovi pe 'l mar vedea mondi spuntare,
Egli vide nel ciel crepuscolare
Co 'l cuor di Gracco ed il pensier di Dante
La terza Italia; e con le luci fise
A lei trasse per mezzo un cimitero,
E un popol morto dietro a lui si mise.
Or, vecchio esule, al ciel mite e severo
Levato il volto che giammai non rise,
— Tu solo, — pensa — o idëal, sei vero.
 

 

di Giosuè Carducci

Ogni anno, allor che lugubre
L'ora de la sconfitta
Di Mentana su' memori
Colli volando va,
I colli e i pian trasalgono
E fieramente dritta
Su i nomentani tumuli
La morta schiera sta.

Non son nefandi scheletri;
Sono alte forme e belle,
Cui roseo dal crepuscolo
Ondeggia intorno un vel:
Per le ferite ridono
Pie le virginee stelle,
Lievi a le chiome avvolgonsi
Le nuvole del ciel.

– Or che le madri gemono
Sovra gl'insonni letti,
Or che le spose sognano
Il nostro spento amor,
Noi rileviam dal Tartaro
I bianchi infranti petti,
Per salutarti, o Italia,
Per rivederti ancor.

Qual ne l'incerto tramite
Gittava il cavaliero
Il verde manto serico
De la sua donna al piè,
Per te gittammo l'anima
Ridenti al fato nero;
E tu pur vivi immemore
Di chi moria per te.

Ad altri, o dolce Italia,
Doni i sorrisi tuoi;
Ma i morti non obliano
Ciò che più in vita amâr;
Ma Roma è nostra, i vindici
Del nome suo siam noi:
Voliam su 'l Campidoglio,
Voliamo a trionfar. –

Va come fósca nuvola
La morta compagnia,
E al suo passare un fremito
Gl'itali petti assal;
Ne le auree veglie tacciono
La luce e l'armonia,
E sordo il tuon rimormora
Su l'alto Quirinal.

Ma i cavalier d'industria,
Che a la città di Gracco
Trasser le pance nitide
E l'inclita viltà,
Dicon – Se il tempo brontola,
Finiam d'empire il sacco;
Poi venga anche il diluvio:
Sarà quel che sarà.

 

di Giosuè Carducci

Su le dentate scintillanti vette
salta il camoscio, tuona la valanga
da' ghiacci immani rotolando per le
selve croscianti:

ma da i silenzi de l'effuso azzurro
esce nel sole l'aquila, e distende
in tarde ruote digradanti il nero
volo solenne.

Salve, Piemonte! A te con melodia
mesta da lungi risonante, come
gli epici canti del tuo popol bravo,
scendono i fiumi.

Scendono pieni, rapidi, gagliardi,
come i tuoi cento battaglioni, e a valle
cercan le deste a ragionar di gloria
ville e cittadi:

la vecchia Aosta di cesaree mura
ammantellata, che nel varco alpino
èleva sopra i barbari manieri
l'arco d'Augusto:

Ivrea la bella che le rosse torri
specchia sognando a la cerulea Dora
nel largo seno, fosca intorno è l'ombra
di re Arduino:

Biella tra 'l monte e il verdeggiar de' piani
lieta guardante l'ubere convalle,
ch'armi ed aratri e a l'opera fumanti
camini ostenta:

Cuneo possente e paziente, e al vago
declivio il dolce Mondovì ridente,
e l'esultante di castella e vigne
suol d'Aleramo;

e da Superga nel festante coro
de le grandi Alpi la regal Torino
incoronata di vittoria, ed Asti
repubblicana.

Fiera di strage gotica e de l'ira
di Federico, dal sonante fiume
ella o Piemonte, ti donava il carme
novo d'Alfieri.

Venne quel grande, come il grande augello
ond'ebbe nome; e a l'umile paese
sopra volando, fulvo, irrequieto,
– Italia, Italia –

egli gridava a' dissueti orecchi,
a i pigri cuori, a gli animi giacenti.
– Italia, Italia – rispondeano l'urne
d'Arquà e Ravenna:

e sotto il volo scricchiolaron l'ossa
sé ricercanti lungo il cimitero
de la fatal penisola a vestirsi
d'ira e di ferro.

– Italia, Italia! – E il popolo de' morti
surse cantando a chiedere la guerra;
e un re a la morte nel pallor del viso
sacro e nel cuore

trasse la spada. Oh anno de' portenti,
oh primavera de la patria, oh giorni,
ultimi giorni del fiorente maggio,
oh trionfante

suon de la prima italica vittoria
che mi percosse il cuor fanciullo! Ond'io
vate d'Italia a la stagion più bella,
in grige chiome

oggi ti canto, o re de' miei verd'anni,
re per tant'anni bestemmiato e pianto,
che via passasti con la spada in pugno
ed il cilicio

al cristian petto, italo Amleto. Sotto
il ferro e il fuoco del Piemonte, sotto
di Cuneo 'l nerbo e l'impeto d'Aosta
sparve il nemico.

Languido il tuon de l'ultimo cannone
dietro la fuga austriaca morìa:
il re a cavallo discendeva contra
il sol cadente:

a gli accorrenti cavalieri in mezzo,
di fumo e polve e di vittoria allegri,
trasse, ed, un foglio dispiegato, disse
resa Peschiera.

Oh qual da i petti, memori de gli avi,
alte ondeggiando le sabaude insegne,
surse fremente un solo grido: Viva
il re d'Italia!

Arse di gloria, rossa nel tramonto,.
l'ampia distesa del lombardo piano;
palpitò il lago di Virgilio, come
velo di sposa

che s'apre al bacio del promesso amore:
pallido, dritto su l'arcione, immoto,
gli occhi fissava il re: vedeva l'ombra
del Trocadero.

E lo aspettava la brumal Novara
e a' tristi errori mèta ultima Oporto.
Oh sola e cheta in mezzo de' castagni
villa del Douro,

che in faccia il grande Atlantico sonante
a i lati ha il fiume fresco di camelie,
e albergò ne la indifferente calma
tanto dolore!

Sfaceasi; e nel crepuscolo de i sensi
tra le due vite al re davanti corse
una miranda vision: di Nizza
il marinaro

biondo che dal Gianicolo spronava
contro l'oltraggio gallico: d'intorno
splendeagli, fiamma di piropo al sole,
l'italo sangue.

Su gli occhi spenti scese al re una stilla,
lenta errò l'ombra d'un sorriso. Allora
venne da l'alto un vol di spirti, e cinse
del re la morte.

Innanzi a tutti, o nobile Piemonte,
quei che a Sfacteria dorme e in Alessandria
diè a l'aure primo il tricolor, Santorre
di Santarosa.

E tutti insieme a Dio scortaron l'alma
di Carl'Alberto. – Eccoti il re, Signore,
che ne disperse, il re che ne percosse.
Ora, o Signore,

anch'egli è morto, come noi morimmo,
Dio, per l'Italia. Rendine la patria.
A i morti, a i vivi, pe 'l fumante sangue
da tutt'i campi,

per il dolore che le regge agguaglia
a le capanne, per la gloria, Dio
che fu ne gli anni, pe 'l martirio, Dio,
che è ne l'ora,

a quella polve eroica fremente,
a questa luce angelica esultante,
rendi la patria, Dio; rendi l'Italia
a gl'italiani.

 

di Anonimo

Rataplàn, tambur io sento
Che mi chiama alla bandiera
O che gioia o che contento
Io vado a guerreggiar.
 
Rataplàn, non ho paura
Delle bombe e dei cannoni
Io vado alla ventura
Sarà poi quel che sarà.
E la bella Gigogin
col tremille-lerillellera
La va a spass col so spingin
Col tremille-relillellà.
 
Di quindici anni facevo all'amore
Daghela avanti un passo
Delizia del mio cuore.
A sedici anni ho preso marito
Daghela avanti un passo
Delizia del mio cuore.
A diciassette mi sono spartita
Daghela avanti un passo
Delizia del mio cuor.
 
La ven, la ven, la ven a la finestra
L'è tutta, l'è tutta, l'è tutta insipriada
La dis, la dis, la dis che l'è malada
Per non, per non, per non mangiar polenta
Bisogna, bisogna, bisogna aver pazienza
Lassala, lassala, lassala maridà.
Le bacia, le baciai il bel visetto
Cium, cium, cium
La mi disse, la mi disse oh che diletto !
Cium, cium, cium
La più in basso, la più in basso c'è un boschetto
Cium, cium, cium
La ci andremo, la ci andremo a riposar.
 
Ta-ra-ta-ta-ta-tam.
 

 

di Luigi Mercantini


     Si scopron le tombe, si levano i morti,
I martiri nostri son tutti risorti,
Le spade nel pugno, gli allori alle chiome,
La fiamma ed il nome d'Italia sul cor.
Corriamo! Corriamo! su O giovani schiere,
Su al vento per tutto nostre bandiere
Su tutti col ferro, su tutti col fuoco,
Su tutti col fuoco d'Italia nel cor.

Va' fuori d'Italia! va' fuori ch'è l'ora!
Va' fuori d'Italia! va' fuori, stranier!

La terra dei fiori, dei suoni, dei carmi,
Ritorni qual'era la terra dell'armi;
Di cento catene ci avvinser la mano,
Ma ancor di Legnano sa i ferri brandir.
Bastone Tedesco l'Italia non doma;
Non crescon al gioco le stirpe di Roma:
Più Italia non vuole stranieri e tiranni,
Già troppo son gli anni che dura il servir.

Va' fuori d'Italia! va' fuori ch'è l'ora!
Va' fuori d'Italia! va' fuori, stranier!

     Le case d'Italia son fatte per noi,
E là sul Danubio le case de' tuoi;
Tu i campi ci guasti; tu il pane c'involi;
I nostri figliuoli per noi li vogliam.
Son l'Alpi e i due mari d'Italia i confini,
Col carro di fuoco rompiam gli Appennini,
Distrutto ogni sogno di vecchia frontiera
La nostra bandiera per tutto innalziam.

Va' fuori d'Italia! va' fuori ch'è l'ora!
Va' fuori d'Italia! va' fuori, stranier!

     Sien mute le lingue, sien pronte le braccia,
Soltanto al nemico volgiamo la faccia.
E tosto oltre i monti n'andrà lo straniero,
Se tutto un pensiero l'Italia sarà.
Non basta il trionfo di barbare spoglie,
Si chiudan ai ladri d'Italia le soglie;
Le genti d'Italia son tutte una sola,
Son tutte una sola le cento Città.

Va' fuori d'Italia! va' fuori ch'è l'ora!
Va' fuori d'Italia! va' fuori, stranier!

 

di Giuseppe Torelli

La caserma de' tedeschi l'era
posta in mezzo al mare;
gliel'han fatta sprofondare
gl'italiani co' cannon.

La bandiera tricolore
sempre è stata la più bella;
noi vogliamo sempre quella
per aver la libertà.

E sulle mura di Venezia
l'hanno ritta la bandiera,
staccherem la gialla e nera,
rizzerem la tricolor.

Ferdinando è andato via
gli hanno messo il campanello;
e Leopoldo è un matterello,
lo vogliamo fucilar.

Tu sta' fermo nel pensiero,
lo straniero gli ha tremato;
Manuelle ritornato
sempre unito a noi sarà.

E Leopoldo gli è malato,
Garibaldi è il suo dottore,
Manuelle imperatore
lo vogliamo incoronar.

Lo vogliamo, lo vogliamo
re Vittorio Manuelle,
ed a costo della pelle
lo vogliam per nostro re.

La vogliamo, la vogliamo,
la ghirlanda di rose e fiori:
la bandiera de' tre colori
benedetto chi l'alzò.

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