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L'Italia negli anni del Risorgimento » Il Regno delle Due Sicilie  
 
 


 

  Il Regno delle Due Sicilie A new map of Sicily the First or the Kingdom of Naples Drawn with several additions, from Zannoni's map published by order of the King of the Two Sicilies Published 12th May, 1799 by Laurie & Whittle, 53, Fleet Street, London Engraved by B Baker, Islington.

Nell'Italia preunitaria il Regno delle Due Sicilie (il nome preso dall'antico Regno di Napoli dopo il 1815) era di gran lunga lo Stato più esteso e popoloso della penisola.

Oltre la Sicilia esso comprendeva tutta l'Italia continentale dalla punta della Calabria fino a Terracina, a poche decine di chilometri da Roma, sulla costa tirrenica, e fino alle foci del Tronto su quella adriatica, all'altezza a un dipresso di Ascoli Piceno: in pratica ben 7 delle attuali 20 regioni italiane. Ma alla sua grandezza corrispose per tutto il periodo risorgimentale una permanente, complessiva, debolezza politica che impedì allo Stato meridionale, ritornato sotto il dominio dei Borboni, di svolgere un qualunque ruolo attivo nel processo che doveva portare all'Unità.

Tale debolezza riguardava innanzi tutto la stessa struttura geopolitica del Regno. Da sempre la Sicilia, infatti, ricca di una storia importante e peculiare che aveva depositato nell'intera sua società fortissimi aneliti autonomistici, non si era mai rassegnata alla subordinazione nei confronti di Napoli.

Tra i due poli del Regno esisteva una tensione continua punteggiata di lamentele, proteste e ribellioni da una parte, e sempre vani tentativi di accomodamento ed egualmente vane offerte di risarcimento più o meno simbolico dall'altro. Tanto più la “diversità” siciliana aveva avuto modo di rafforzarsi, poi, durante il dominio napoleonico sull'Italia, allorché la Sicilia, grazie alla sua natura insulare protetta dalla flotta inglese, era rimasta staccata per lunghi anni dal resto del Regno ospitando la monarchia, definitivamente cacciata dalla capitale nel 1806.

 
Ferdinando II - 1858 ca. - fotografia - Archivio fotografico comunale - Roma  

Come se ciò non bastasse, nel 1812 il plenipotenziario britannico a Palermo, lord Bentinck, aveva imposto al re Ferdinando I di Borbone una Costituzione che introduceva a Palermo un sistema parlamentare più o meno ricalcato su quello inglese, il quale aveva fatto sperare ai baroni siciliani di poter perpetuare ed anzi rafforzare il loro antico dominio sul paese.

Gli effetti di questo antagonismo della Sicilia verso Napoli si sarebbero visti di continuo in tutti i decenni successivi e infine al momento della crisi finale, nel 1860, quando, davanti all'attacco dei Mille, il potere borbonico dovette prendere atto del suo totale isolamento in Sicilia, trovandosi così costretto a contare solo sulla sua (alla prova dei fatti assai scadente) forza militare.

L'altro grave punto debole del Regno delle Due Sicilie era rappresentato dalla sua arretratezza socio-economica.

Per la verità, durante il cosiddetto “decennio francese” (1806-1815) in cui esso era stato sotto lo scettro prima di Giuseppe Bonaparte e poi di Gioacchino Murat, erano state gettate le basi di una effettiva modernizzazione: con un certo decentramento amministrativo, una ridefinizione degli organi del potere locale su base censitaria, con la riorganizzazione razionale della giustizia e del fisco.

La riforma più importante era stata però, oltre che l'introduzione del Codice napoleonico, la soppressione tanto degli ordini religiosi regolari che della feudalità (con l'abolizione del fedecommesso e del maggiorascato), insieme alla congiunta confisca e “quotizzazione” (divisione e vendita) dei demani feudali, ecclesiastici e comunali.

Erano così sorti nuclei abbastanza consistenti di borghesia agraria, mentre il riordino e soprattutto l'ampliamento del raggio d'azione degli organi del governo centrale aprivano nuove prospettive alla borghesia impiegatizia e agli esponenti delle professioni “civili”.

 
Fratelli D'Alessandri - Famiglia reale del Regno delle Due Sicilie in esilio a Roma -1881 - fotografia - Archivio fotografico comunale - Roma  

Ma scontrandosi con la pochezza politica della monarchia restaurata la spinta del “decennio” non ebbe alcun futuro e si esaurì. I Borboni, infatti, scelsero la linea strategica di cercare il consenso delle plebi piuttosto che quello dei ceti intellettuali e dei nuclei borghesi, nonché di favorire gli interessi locali e settoriali anziché i programmi d'interesse generale. Il che tra l'altro consentiva, sul momento, di avere un bilancio statale con poche spese (quelle di gran lunga maggiori essendo le spese militari), un basso debito pubblico, e dunque di mantenere una bassa pressione fiscale con la conseguenza indiretta di produrre una forte accumulazione di ricchezza liquida nelle mani dei privati.

Una scelta complessiva, insomma, esattamente opposta a quella “sviluppista” e debitoria compiuta dal Piemonte cavouriano, la quale tuttavia si prefiggeva l'obiettivo, raggiunto, di fare dello Stato sabaudo il cuore della modernizzazione italiana.

Insieme alle tenaci resistenze degli interessi costituiti e alla debolezza politica dell'autorità centrale – volta a servirsi costantemente e ad affidarsi per molte cose ai poteri locali – furono dunque le scarse capacità d'impegno finanziario a far sì che le molte leggi e gli ancor più numerosi progetti d'intervento riformista – che ci furono, e perlopiù ottimi – rimanessero tuttavia quasi sempre sulla carta. Facendo dunque cadere il Regno in uno stato di sostanziale abbandono.

La rete stradale pur ampliata lasciò sempre isolata gran parte dei comuni della dorsale appenninica, specie nella Basilicata, nonché quelli della Sicilia interna; pochissimi furono i chilometri costruiti di ferrovia; il programma delle bonifiche rimase inattuato specie per il boicottaggio dei proprietari; il territorio in genere, oggetto di selvagge deforestazioni, vide aggravarsi ulteriormente il proprio dissesto idro-geologico; i centri urbani anche grandi, infine, rimasero come sempre privi in grande maggioranza di impianti fognarii, mentre restò prevalente l'uso di acqua tratta da pozzi inquinati.

Due dati bastano a riassumere il sottosviluppo infrastrutturale e civile dell'Italia meridionale sotto la dinastia borbonica. Il primo è costituito dal tasso di analfabetismo: al momento dell'Unità il numero degli analfabeti si aggirava nel Regno in media intorno al 70-75 per cento (con punte ancora più alte tra la popolazione femminile: in Sicilia in pratica sapevano leggere e scrivere solo le donne appartenenti alle classi più elevate).

Il secondo dato è costituito dalla cifra spaventosa di 170 mila morti in seguito nel 1836-37 all'epidemia di colera (durante la quale a Siracusa si assistette addirittura ad un episodio di caccia all'untore nella persona di un povero funzionario del governo linciato dalla folla).

Non meraviglia, stando così le cose, che dal 1815 al 1860 l'economia meridionale restasse in una condizione di sostanziale ristagno. Rimasero in piedi, ad esempio, ma non conobbero alcuna crescita particolare, i pochi distretti manifatturieri che avevano conosciuto uno sviluppo significativo durante il “periodo francese” (Piedimonte d'Alife, Castellamare, valle del Liri).

 

Anonimo - La regina Maria Sofia - Museo centrale del Risorgimento - Roma G. Piga - Assedio di Gaeta. Fotomontaggio di Francesco II realizzato utilizzando un ritratto di Gustav Reiger e lo sfondo della città di Gaeta - febbraio 1862 - fotografia - Collezione Luigi Goglia - Gaeta

Nelle campagne, mentre il grande latifondo cerealicolo si estese ulteriormente, appropriandosi della maggior parte dei beni demaniali quotizzati, si svilupparono molto le culture del vino e dell'olio che divennero entrambi, ma soprattutto il secondo, le principali voci di esportazione del paese. Proprio le esportazioni mostravano, d'altro canto, tutta la fragilità dell'economia meridionale.

Non solo gran parte del commercio estero, costituito da derrate agricole, era nelle mani di società e operatori stranieri, ma l'entità dei flussi commerciali dipendeva interamente dalle oscillazioni del mercato internazionale: configurando insomma una situazione complessiva di tipo coloniale.

Collocata su questo sfondo, la parabola politica delle monarchia borbonica nella prima metà dell'Ottocento appare ancora più segnata dall'assenza di qualunque capacità progettuale, e invece come una pura e semplice reazione, alla fine impotente, alle minacce interne ed esterne.

Un tentativo iniziale di conciliazione nazionale, caratterizzato dalla cooptazione degli elementi moderati del periodo murattiano, e poi nel 1820 un moto sostanzialmente incruento iniziato da alcuni reparti dell'esercito, sfociato in seguito nella concessione di una Costituzione, sembrarono poter avviare il Regno verso un futuro di progresso.

Ma le divisioni tra liberali e democratici, e soprattutto un'aspra guerra civile tra Napoli e Palermo e tra Palermo e il resto della Sicilia, consentirono in breve al sovrano di rimangiarsi la Costituzione.

Forte dell'intervento austriaco e del ristabilito stretto legame con la Chiesa in seguito al Concordato del 1818, Ferdinando I instaurò un regime di persecuzioni durissime all'insegna di una soffocante pratica di governo, bigotta e ignorante.

Dalla quale non fu capace di staccarsi suo nipote, Ferdinando II, salito al trono nel 1830, con il quale si consumò il divorzio definitivo tra la monarchia e i gruppi intellettual-borghesi moderni, nei quali cominciarono a diffondersi sempre più rapidamente le nuove idealità del movimento nazionale italiano.


 

 
C. Banti - Riunione di contadine - 1861 - olio su tela - Galleria d'Arte Moderna di palazzo Pitti - Firenze. Difficile era la situazione nelle campagne del Regno delle Due Sicilie, situazione che tuttavià non migliorò con l'Unità d'Italia  

Il segnale della rivolta giunse ancora una volta dalla Sicilia. Il 12 gennaio del 1848 insorse Palermo, dove fu richiamata la Costituzione del 1812 e quindi proclamata l'indipendenza da Napoli, anch'essa teatro di una sommossa culminata l'11 febbraio nella promulgazione di una nuova Costituzione.

Mentre per effetto di una grave crisi agraria, un'ondata di occupazione di terre agitava le campagne, il Regno precipitò in una situazione di virtuale anarchia per l'incapacità del governo moderato di Carlo Troya di dominare i contrasti politici, esasperati, oltre che dai fatti siciliani, dal problema dell'atteggiamento da seguire verso le operazioni contro l'Austria intraprese da Carlo Alberto nel Nord Italia alle quali inizialmente anche i napoletani si erano associati.

Il 15 maggio 1848 si ebbe un primo chiarimento della situazione, allorché in risposta ad un nuovo tentativo insurrezionale l'esercito rispose con una feroce repressione.

Più o meno contemporaneamente si sviluppò il tentativo del re di riprendere il controllo della Sicilia: tentativo riuscito soprattutto per la crescente paura dei ceti proprietari dell'isola che il movimento indipendentistico finisse per alimentare un movimento di rivolta sociale tra i contadini.

Infine, rompendo definitivamente gli indugi, il 13 marzo 1849 Ferdinando II scioglieva il Parlamento, revocava la Costituzione e dava inizio all'ennesima cruda repressione su vasta scala.

Mentre una folta schiera d'intellettuali meridionali prendeva la via dell'esilio dirigendosi soprattutto a Torino, divenuta ormai la città simbolo del movimento liberal-unitario, a Napoli si celebrava un gran numero di processi destinati a concludersi con centinaia d'anni di galera nei confronti di appartenenti alla Carboneria e alla Giovine Italia.

Fu per l'appunto in seguito a tali processi che Lord Gladstone, reduce da una visita a Napoli, indirizzò alcune lettere a Lord Aberdeen di durissima condanna per il regime borbonico, le quali, pubblicate, contribuirono in maniera notevole al discredito assoluto del regime napoletano e al suo completo isolamento internazionale, testimoniato da lì a poco, nel 1856, dalla rottura delle relazioni diplomatiche con la Francia e la Gran Bretagna.

Ma ormai la storia del Regno delle Due Sicilie era solo una storia di occasioni mancate. L'ultima fu quando nel 1859, nell'imminenza dello scoppio della guerra con l'Austria, di fronte all'invito di Napoleone III perché Napoli iniziasse una politica di riforme e si alleasse con il Piemonte, il nuovo re Francesco II di Borbone preferì dichiarare la propria neutralità.

Si lasciò convincere a concedere la Costituzione solo il 25 giugno 1860, quando però per la dinastia borbonica il tempo stava ormai per scadere: Garibaldi, conquistata di fatto la Sicilia, già si apprestava a mettere piede sul Continente.

 

Il controllo sulla società

In questo decreto emanato da Ferdinando I il 4 aprile 1821 emerge in piena luce il timore della monarchia assoluta per la diffusione delle idee liberali tra gli studenti e dunque il bisogno di un assoluto controllo su di essi.

D. Mack Smith, Il risorgimento italiano. Storia e testi, Bari, Laterza, 1968, pp. 49-50.

 

«Nessuno Stato d'Europa è in condizioni peggiori delle nostre»

Qui di seguito un brano della Protesta del popolo delle Due Sicilie redatta da Luigi Settembrini nel 1847, alla vigilia della rivoluzione del 1848; un indignato atto d'accusa contro il malgoverno borbonico definito “un'oscena tirannide”.

D. Mack Smith, Il risorgimento italiano. Storia e testi, Bari, Laterza, 1968, pp. 228-230.

 

Una realtà a parte: la Sicilia

Un siciliano illustra i motivi storici che rendono la Sicilia incompatibile con il dominio napoletano e ne giustificano la fortissima spinta all'autonomia.

R. Busacca, La Sicilia considerata politicamente in rapporto a Napoli e all'Italia, Firenze, 1848, pp. 9-14, 43, riprodotto in D. Mack Smith, Il risorgimento italiano. Storia e testi, Bari, Laterza, 1968, pp. 248-250.

 

L'infelicissima e calamitosa condizione del Regno di Napoli

Il discorso di Lord Palmerston ai Comuni che riprendendo le osservazioni fatte a Napoli da Gladstone seguirono l'inizio dell'isolamento internazionale della dinastia borbonica.

In G. Massari, Il sig. Gladstone ed il governo napoletano, Torino, 1851, pp. 270-274, riprodotto in D. Mack Smith, Il risorgimento italiano. Storia e testi, Bari, Laterza, 1968, pp. 357-358.

 

Cavour e i Borboni

In queste righe del 5 ottobre 1856 di Cavour al conte Groppello, rappresentante a Napoli del Regno di Sardegna, è evidente la “politica dell'attenzione” di Torino per la situazione interna degli Stati italiani e la sua cauta simpatia per i movimenti liberali.

C. Cavour, Lettere edite e inedite, a cura di L. Chiala, I-VII, Torino, 1882-1889: VI, 1887, pp. 41-42, riprodotto in D. Mack Smith, Il risorgimento italiano. Storia e testi, Bari, Laterza, 1968, pp. 394-395.

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